Non ascolterete in questo 2021 canzone più straziante di quella che suggella il terzo tributo che un grandissimo cantautore quale è Steve Earle dedica a un altro autore con i crismi dell’eccezionalità. Ancora fresco, del marzo 2019, quel “Guy” con cui il nostro uomo omaggiava Guy Clark, morto settantaquattrenne nel 2016 per un linfoma, era di dieci anni prima la collezione di riletture di Townes Van Zandt, spentosi cinquantaduenne nel ’97 per avere troppo chiesto al suo fisico in un’esistenza matta e disperatissima, “Townes”. Steve Earle era talmente legato a costui da chiamare il suo primogenito Justin Townes. Ed ecco, proprio a Justin Townes, che dal padre aveva purtroppo ereditato oltre al talento la propensione a eccessi alcolici e dipendenze chimiche e a ragione di ciò è scomparso lo scorso 20 agosto, appena trentottenne, è dedicato “J.T.”. Dieci brani di un ragazzo mai diventato adulto davvero e a fondo corsa uno autografo ─ Last Words: felpato, luttuoso blues ─ di onestà, pregnanza, dolcezza sconvolgenti. Un dirsi addio da genitore a figlio nell’attesa di ritrovarsi che lascia annichiliti.
Non avrebbe mai voluto registrarlo un disco così, Steve Earle (o magari sì ma fra qualche anno, in onore di un riottoso allievo capace invecchiando di superare lo sregolato maestro), e non avrei mai voluto scriverne io, che tante volte ho avuto la fortuna di recensire sia Earle Sr che Earle Jr. Che poi sia un album bellissimo, collezione di country autorale propenso a commerci con folk e blues (solo saltuariamente con il rock: il tradizionalista in famiglia era quello giovane) era scontato. Che delle dieci canzoni riprese da sei dei nove album pubblicati da Justin Townes ben quattro arrivino da uno intitolato “The Good Life” aggiunge un tocco di agra ironia.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.429, marzo 2021.
È in edicola dall’inizio della scorsa settimana il nuovo numero di “Audio Review”. Contiene mie recensioni dei nuovi album di The Anchoress, Another Michael, Julien Baker, Balthazar, Jon Batiste, Claud, Cassandra Jenkins, Chuck Johnson, Valerie June, Arlo Parks, Teenage Fanclub e Nick Waterhouse, una celebrazione di “Spiderland” degli Slint a trent’anni dall’uscita e, nella rubrica del vinile, un’intera pagina dedicata a “Stories From The City, Stories From The Sea” di PJ Harvey.
PS – Al bellissimo disco di Jon Batiste avevo dato, magari sbilanciandomi ma convintamente, un raro 8,5. Che per un refuso in sede di impaginazione (cose che possono capitare) è diventato 7,5.
Apprendo dal Web, in lieve differita e con grande dispiacere, che due giorni fa è venuto a mancare tragicamente troppo presto (aveva cinquantasette anni) Gregory Edward Jacobs, meglio noto con i nomi d’arte di Shock G e (il suo alter ego) Humpty Hump. Il principale dei rapper dei Digital Underground, formidabile posse di cui mi sa che in pochi conservano memoria. Buona ancorché pessima scusa per estrarre dai miei archivi una scheda scritta per “Extra” in cui celebravo il loro esilarante esordio in lungo, “Sex Packets”. Per dare un’idea di che razza di burloni fossero: alla copia promozionale inviatami a suo tempo del disco era accluso un pacchetto di pillole afrodisiache. Ovviamente farlocche.
Sex Packets (Tommy Boy, 1990)
Paradossale che i Digital Underground vengano oggi ricordati da tanti semplicemente come la prima palestra in cui si esercitò Tupac Shakur, quando costui fu ininfluente nella loro vicenda e sono principalmente carisma e la drammatica fine a iscriverne il nome nella storia dell’hip hop. Quando la sua discografia non vale il singolo che nel 1990 proiettava la compagine di Oakland a una posizione dai Top 10 USA e che ─ seconda ingiustizia ─ le appiccicava la nomea di gruppo da un successo solo, una volgare novelty. A parte che le cosiddette novelties invecchiano male e The Humpty Dance rimane fresca e irresistibile, tre abbondanti lustri dopo, come il primo giorno in cui annunciò che c’era un’alternativa: 1) al rap politicizzato alla Public Enemy; 2) al rap delinquenziale alla N.W.A; 3) al rap psichedelico alla De La Soul. A parte che The Humpty Dance non è che il travolgente inizio di un album complessivamente di grande solidità, oltre che una delle collezioni di hip hop più divertenti di sempre. Più funk. O, per essere più precisi, p-funk. Con il suo profluvio di campionamenti clintoniani ─ ma orecchio a The New Jazz (One): sì, è Jimi Hendrix ─ “Sex Packets” era meritoriamente decisivo per il ritorno in auge di Parliament e Funkadelic. Dopo “Sons Of The P”, discreto ma troppo simile, i Digital Underground andranno a picco.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.26, estate 2007.
La voce più soul che mai abbia abitato disco in Italia? Per tanti quella di Raiz, sentimento puro che mai scivola nel melò nel mentre va piroettando fra Napoli e Kingston, come molta parte della musica di questo combo partenopeo cui il Bel Paese è sempre stato stretto. Notevole il biglietto da visita che porgeva nel 1992 con il mini “Figli di Annibale”, che tuttavia in nessun modo preparava alla stravolgente bellezza del debutto adulto, di un anno successivo, “Animamigrante”. E a sua volta quello impallidiva raffrontato a questo capolavoro assemblato due anni dopo fra la Campania e Londra, con sui cursori del mixer le sapienti mani di Adrian Sherwood, Mr. On-U Sound, nel cui pur innovativo e mediamente strepitoso catalogo poco, quasi nulla vi è di altrettanto mirabile. Disco perfetto per articolazione d’assieme e in ogni dettaglio e che respira la grazia di un momento irripetibile, “Sanacore” decolla sul dub circolare all’ombra del Vesuvio, carezzato da ottoni dolci e birichini, di ’O sciore cchiù felice, resta in altissima quota con la dondolante e marziale Maje e definitivamente squarcia la stratosfera con una Pé dint’e viche addò nun trase ’o mare che, saldamente agganciata alla migliore tradizione autoctona, getta un occhio al solito sulla Giamaica e l’altro al Bosforo. Per volare fin dentro il sole con la canzone che lo intitola, distillato di esuberanza che inebria e scaccia il blues.
Non ci sarebbe stato in fondo bisogno d’altro, “Sanacore” e la storia degli Almamegretta avrebbero anche potuto chiudersi qui. Ma questo include ancora gemme come la psichedelica e araba Ammore nemico, l’africaneggiante Ruanda, una Nun te scurdà di squisita suadade, l’electrodub Tempo. E quella avrebbe messo in fila altri album splendidi ─ “Lingo”, “4/4”, “Imaginaria” ─ e oltretutto capaci di scompaginare il gioco gettando sul tavolo techno e downtempo, funky, house e quant’altro. Però qui la faccenda sta su un altro livello: quello della magia.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.8, inverno 2003. Gennaro Della Volpe, in arte Raiz, compie oggi cinquantaquattro anni.
È nella sua quarta vita la Gang dei fratelli Marino e Sandro Severini. Nella prima gli allora ragazzi si segnalarono come dei clamorosi epigoni dei Clash, fra i più credibili di sempre e dovunque. Nella seconda cambiarono per sempre la canzone d’autore italiana rock con quel “Le radici e le ali” che anche oltre il suo essere un capolavoro ha esercitato nei trent’anni dall’uscita un’influenza incommensurabile. All’alba del nuovo secolo i Severini andavano però in rotta di collisione con l’industria discografica, rottura traumatica dopo la quale per troppi anni la Gang si è limitata a far jukebox di se stessa, concedendo a un fandom che resta numeroso solo pur pregiati progetti “a latere”. Tornava sul serio a incidere (in ogni senso) nel 2015 con lo splendido (autoprodotto grazie a un crowdfunding e da allora lavora così) “Sangue e cenere”. Sarà che lo si attese così tanto, sarà che nel frattempo ha visto la luce una raccolta di cover tanto bella e rivelatoria (“Calibro 77”) da poterla considerare in tutto e per tutto “cosa loro”, ma che fosse passato un lustro da “Sangue e cenere” a chi scrive non pareva proprio.
Anche perché si prosegue in quel solco, con la calorosa e calibrata produzione di Jono Manson e un lungo elenco di musicisti perlopiù statunitensi e di alto profilo a dar man forte. Fanno corona a una struggente resa di A pa di De Gregori dieci canzoni nuove che trovano istantanea collocazione nella memoria e nel catalogo storico, dalla fanfara rock’n’roll La banda Bellini alla dolente Via Modesta Valenti, da quel gioiello di Americana romantica che è Amami se hai coraggio alla rumba che “passa e rallenta/diventa un tango” di Un treno per Riace. Persuade pure il confrontarsi con folk da altri mondi di Rojava libero e Azadi.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.428, febbraio 2021.
Improbabilissima (e nondimeno perfetta nel ruolo) Soul Woman, Dusty Springfield ci lasciava assai prematuramente, appena cinquantanovenne. Non fosse andata così ─ male ─ oggi di anni avrebbe potuto festeggiarne ottantadue.
Live At The BBC (Universal, 2007)
In questo DVD assai generoso nel minutaggio (quasi tre ore senza contare un “Jukebox” di una dozzina di titoli in solo audio) alcune cose sono invecchiate male. Direi una regia che dire statica è un eufemismo (e che fastidio che i musicisti non si vedano mai; “oh” e “ah” di meraviglia quando, intorno al novantesimo minuto, viene infine inquadrato il pianista). Direi la terribile acconciatura ad alveare di una protagonista che comunque ebbe sempre un rapporto con i parrucchieri problematico. Direi anche una non piccola percentuale di un repertorio proveniente perlopiù da nove spettacoli, la Springfield mattatrice unica, che la televisione pubblica britannica trasmise con cadenza settimanale nelle estati del ’66 e del ’67. Male gli arrangiamenti debordanti che sciupano soprattutto certe parentesi folk. Male la messe di cose da Broadway o da Hollywood che persino al tempo dovevano sembrare vetuste e figurarsi oggi.
E allora perché segnalare “Live At The BBC” e persino consigliarlo? Per quella manciata di pezzi favolosi in cui il pop d’antan è gettato alle ortiche ─ e con esso, con maggiore dispiacere, certo jazz swingante e confidenziale alla Sinatra ─ e a prendere possesso della ribalta sono quei bollori soul che nel 1969 renderanno “Dusty In Memphis” non solo il più grande album soul mai firmato da una cantante bianca ma uno dei più grandi e basta. Chiudi gli occhi e non riesci a crederci che sia una biondina londinese a cantare una Tell All The World About You da cui l’autore Ray Charles dovette sentirsi lusingato, una Good Times degna di Sam Cooke, una Gonna Build A Mountain di tale santificata furia da fare venire giù la più negra delle chiese.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.641, dicembre 2007.
Dusty In Memphis (Philips, 1969)
Ci penserà un’altra biondina inglese, e per sovrappiù giovanissima, tale Joss Stone, a sottrarre a Dusty Springfield il titolo di più improbabile, e nondimeno perfetta nel ruolo, soul woman di sempre. Trentacinque anni dovranno però passare dai gloriosi giorni in cui Dusty registrò, ovviamente “in Memphis” e con a spalleggiarla gli stessi musicisti che suonavano con Aretha Franklin, forse perplessi all’inizio ma alla fine entusiasti, otto canzoni squisite e tre indiscutibili capolavori: il gospel profano e funkissimo Son Of A Preacher Man, una Breakfast In Bed che annuncia Al Green, una In The Land Of Make Believe in anticipo su Gamble & Huff ma farina del magico sacco di Burt Bacharach. Era o non era del resto, la ragazza, la Dionne Warwick d’Albione?
Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.
Talento precoce quello di Dave Edmunds, da Cardiff e classe 1944, che forma un duo con il fratello maggiore Geoff appena decenne. Formidabile coincidenza: siamo nell’anno convenzionalmente indicato come quello di nascita del rock’n’roll, tenuto a battesimo in luglio dalle prime incisioni per la Sun di Elvis Presley. A quei suoni che arrivano da oltre Atlantico il ragazzino si appassiona subito e sarà l’amore di una vita, senza mai un tradimento vero, giusto (di più a breve) un’innocente quanto fruttuosa scappatella. Dopo una lunga teoria di complessini amatoriali il giovane Edmunds dà vita nel 1961 ai Raiders, trio rockabilly e dunque già fuori moda in un mondo che ha perso Buddy Holly e Eddie Cochran e ancora ignora che a breve tali Beatles lo cambieranno per sempre. Diversamente da quegli Stray Cats che il Nostro scoprirà e produrrà due tondi decenni dopo, i Raiders vengono ignorati. Passa un lustro e per una volta Dave Edmunds si ritrova in sintonia con il suo tempo. È epoca fra il tanto resto di British Blues ed è in quel filone che si inseriscono i Love Sculpture. “Blues Helping”, del dicembre 1968, è esordio gradevole quanto scolastico. Il botto arriva quando un singolo non presente sull’album, una curiosa versione rock (Keith Emerson prenderà nota) della Sabre Dance del compositore russo Aram Khachaturian, scala la graduatoria UK fino al numero 5. È un successo cui la band non sopravviverà, trascinandosi stancamente fino al gennaio 1970, quando il mediocre “Forms & Feelings” invece che rilanciarla la affosserà. Mors loro vita sua, in novembre Edmunds debutta da solista a 45 giri e per la prima (resterà l’unica) volta guarda tutti dall’alto nella classifica del Regno Unito (e anche in quella irlandese; in Germania è terzo, negli USA quarto). Non è un pezzo suo, I Hear You Knocking. Fra i più classici esempi di New Orleans Sound, l’ha scritto una quindicina di anni prima Dave Bartholomew ed è già stato una hit nella versione di Smiley Lewis.
Dice qualcuno che per Edmunds la storia del rock si ferma al ’63, ma un po’ esagera. Tant’è che in un esordio in lungo da solista (“Rockpile”, su Regal Zonophone, 1972) tutto di cover eccetto lo squillante rock-blues Hell Of A Pain per il congedo ci si affida a uno stentoreo Outlaw Blues, in una versione più lunga di due minuti di quella inclusa da Bob Dylan nel 1965 in “Bringing It All Back Home”, e il secondo lato si apre con la festosa Dance Dance Dance, regalata appena l’anno prima da Neil Young ai Crazy Horse. Addirittura: qui, sulla prima facciata, la It Ain’t Easy che David Bowie includerà solo l’anno dopo in “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust”. Ma scordatevelo, un Dave Edmunds in lustrini. Il resto è schietto rock’n’roll, con non una ma due riprese da Chuck Berry. Roba da pub, insomma.
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.261, febbraio 2020. Dave Edmunds compie oggi settantasette anni.
Sono trascorsi trentaquattro anni dacché un trentaquattrenne Lowell George ci lasciava. Colui che Jackson Browne definì l’“Orson Welles del rock’n’roll” non ha avuto eredi. Né molti cantori.
Questione di intempestività: questo uomo dal cuore grande quanto era grande e grosso un corpo arrivato a pesare centocinquanta chili da quel cuore, da cui troppo aveva preteso, si faceva tradire in un momento in cui il gruppo di cui era stato leader si trovava in animazione sospesa. Non più cocco della stampa e no, non c’entrava il riflesso condizionato che vuole che a un fiorire delle fortune commerciali spesso corrisponda uno sfiorire dei favori della critica. È che erano cambiati i tempi ed era cambiato il modo di muoversi in direzione ostinata e contraria rispetto ad essi dei Little Feat. Alle sfortune postume del protagonista di questo racconto contribuiva inoltre un’uscita di scena nel pieno di un tour promozionale per un album, il debutto da solista, troppo atteso e favoleggiato perché non paresse poi deludente oltre qualche demerito che pure ha. Gli eroi ci piace ricordarli giovani e belli e Lowell George se ne andava fatto e disfatto e a un nadir di ispirazione autoriale.
Ma soprattutto è una questione di irriproducibilità di un suono e un modo di scrivere di originalità assoluta. Tanto più rimarchevole perché a tale stile inconfondibile si perviene partendo da materiali che più codificati non si potrebbe: blues e country, folk e funk, soul, jazz e rock’n’roll. Ricombinati però con i crismi dell’unicità e al pari unico è un rapportarsi alla forma canzone che si potrebbe dire a schema libero, con ritornelli che non sbucano dove li aspetteresti e viceversa, strofe di misure diverse, scelte di accordi inusuali, un cantato dal fraseggio a tal punto peculiare che al concerto tributo organizzato dai superstiti per celebrare il caro estinto su trentaquattro canzoni eseguite solo sette recavano in calce la firma del celebrato: troppo spesso troppo difficile ricantare Lowell George, ebbene sì, e dire che sul palco c’era gente del calibro di Bonnie Raitt, Jackson Browne, Linda Ronstadt, Emmylou Harris, Nicolette Larson. I primi album dei Little Feat si vendettero all’epoca in non molte migliaia di copie, cifre paragonabili a quelle totalizzate dai Velvet Underground come dai Big Star o da Nick Drake, ma diversamente da questi nomi la loro influenza sull’odierno risulta modesta ai limiti dell’inesistente. Sto parlando dell’omonimo debutto, di “Sailin’ Shoes”, di “Dixie Chicken”, di “Feats Don’t Fail Me Now”, prodotti di un periodo ben delimitato, 1971-1974, nella vicenda di una band che in quei pochi anni rappresentò un distillato di Americana con un unico plausibile equivalente in quell’altra band lì, quella con la “B” maiuscola e l’articolo davanti. Molto più convenzionale però nel suo rapportarsi alla tradizione e non credo sia un caso che di Robbie Robertson e soci l’attualità risulti invece pregna come non mai.
Sono stati tre in realtà i gruppi chiamati Little Feat. Il primo l’ho appena inquadrato. Il secondo, con Lowell George ancora presente ma non più leader, pubblicava fra il ’75 e il ’79 altri tre album in studio che sono tutt’altra (e parecchio meno importante) cosa rispetto a quelli prima. Il terzo ha fatto rivivere la sigla a partire dall’88, ancora pubblica dischi (l’ultimo lo scorso anno), ancora gira per club, teatri e palazzetti d’America con apprezzabile successo. A mio parere del tutto legittimato a farlo dalla presenza non soltanto di Bill Payne, cui l’“idea Little Feat” appartenne sin da subito quanto a Lowell George, ma della totalità degli altri componenti storici ancora in vita. Però a me questi ultimi Little Feat quantomeno in questa sede non interessano. E i secondi interessano assai meno dei primi e ne riferirò dunque in proporzione.
Prosegue per altre 28.952 battute su Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.182/183, luglio/agosto 2013.Non se ne fosse andato a trentaquattro, oggi Lowell George compirebbe settantasei anni.
Dice bene Michael Ventura nell’introduzione scritta nel ’97 per “Farewells & Fantasies”, triplo box che resta la migliore ricognizione mai effettuata sul complesso della vicenda artistica di Phil Ochs: i più sostengono che la generazione dei ’60 abbia fallito i propri obiettivi, che non sia riuscita a cambiare nulla, ma non è vero. L’emancipazione femminile e omosessuale, la coscienza ecologica, la lotta al pregiudizio razziale, la consapevolezza che i governi e le multinazionali debbono rispondere dei propri atti hanno compiuto passi in avanti decisivi grazie a pensieri, parole, opere di coloro che allora erano ragazzi. Come Phil Ochs, che vecchio non è mai diventato perché trentacinquenne si impiccava, il 9 aprile 1976, disperatamente convinto della futilità di tutto quel suo agitarsi e combattere. La vera tragedia è che se ne sia andato con questo strazio nel cuore. Come sarebbe oggi, prossimo agli ottant’anni come l’amico e rivale di sempre Bob Dylan? Di certo la sua voce “in opposizione” saprebbe levarsi alta e limpida come alta e limpida risuona in questo “All The News That’s Fit To Sing” che fu, nel 1964, il suo debutto su Elektra e in assoluto. Scarno quanto generoso di melodie capaci di imprimersi nella memoria a dispetto della ridondanza dei testi, inevitabile in canzoni che volevano essere articoli di giornale in veste di folk urbano.
Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.
Fosse vissuta, Laura Nyro avrebbe festeggiato questo 18 ottobre i primi settant’anni. Se ne andava prima di arrivare a cinquanta ma vive ancora. E noi con lei, anche senza saperlo, nel mondo che ha creato.
Di ascendenze russe, polacche, italiane, parte ebrea, parte cattolica, Laura Nyro vedeva idealmente celebrate le sue esequie il 27 ottobre 1997, a sei mesi e mezzo dalla prematura dipartita. Naturalmente in quella New York che non aveva frequentato che occasionalmente dal ’72 in poi ma in cui era nata e che le era sempre rimasta dentro. Perché “sembri una città, ma per me sei come una religione”. Naturalmente con una liturgia laica: un concerto. Appropriatamente, in quel Beacon Theater tanto maestoso quanto fatiscente che l’aveva vista sette anni prima protagonista della cerimonia con la quale era stata introdotta nella New York Music Hall Of Fame. Lì in tempi molto più prossimi aveva assistito a uno spettacolo di Chaka Khan ed era stata l’ultima sua uscita mondana, poche ore di spensieratezza sottratte alla malattia che la stava divorando. Per ricordarla si avvicendavano sul palco collaboratori e collaboratrici di una vita e qualche cantante in rappresentanza delle tante incamminatesi sulle strade che lei per prima aveva percorso. L’amica Alice Coltrane eseguiva insieme al figlio Ravi un brano del marito John, After The Rain, ed era uno dei momenti più toccanti. Ma emozionava ancora di più Rickie Lee Jones, rileggendo due delle canzoni scavate più in profondità da Laura nella miniera della sua anima. Prima You Don’t Love Me When I Cry, quindi quella Been On A Train scritta in irosa, sconfortata memoria di un cugino morto ventunenne di eroina. “No, no, damn you mister!”, scagliava al cielo Rickie Lee fra guaito e ruggito e in quell’attimo ─ testimonia chi c’era ─ fu come se un’altra figura si materializzasse lì, piegata dal dolore sui tasti di un pianoforte.
Conclamata allieva, dell’oggetto di questo panegirico la Jones dice: “la più grande autrice americana di sempre”. Giudizio sul quale sostanzialmente concorda quell’unica altra che potrebbe contenderle lo scettro. Persona notoriamente con un’altissima (giustificata, eh?) opinione di sé, poco propensa a riconoscersi educata da nulla di meno alto di Mozart o di Picasso, in un’intervista del 1998 al mensile britannico “Mojo” Joni Mitchell dichiarava che “Laura Nyro è l’unica artista donna con cui avverto una qualche affinità. Non è sbagliato collocarci una accanto all’altra, era una che seguivo e cui qualche volta sono andata dietro”. Se ogni singola leva di cantautrici “al femminile” susseguitasi dai tardi ’60 ─ forse più di tutte quella che prendeva il potere con Suzanne Vega e Tracy Chapman ─ si è in qualche misura formata alla sua scuola (questione di attitudine e di argomenti più che di spartiti, che restano di inimitabile peculiarità), sono andate a lezione da lei pure figure in apparenza distantissime come Kate Bush o Courtney Love. Facile coglierne l’eredità, magari malriposta, in una Tori Amos che ne è spesso parsa la versione cheap, meno ─ considerando quanto poco ebbe a che fare con il rock ─ nella generazione delle riot grrrls. Nelle Sleater-Kinney come nelle Luscious Jackson. Ma, giusto pochi mesi prima che Laura ci lasciasse, Jill Cunniff, cantante e bassista di queste ultime, ricordava come fosse stata una presenza formativa fondamentale: “La gente parla di lei e di Joni Michell con superficialità, ‘ah, sì, quelle cantautrici confessionali’, intendendo sminuirle con quell’etichetta, ma per quanto mi riguarda ringrazio Dio che ci fosse qualcuna che aveva qualcosa da confessare, perché è di quelle esperienze condivise che mi sono nutrita”.
Se Michael Stipe ha raccontato che la sua vita fu cambiata per sempre dall’incontro con la Patti Smith di “Horses”, Peter Buck rivela che da adolescente era ossessionato da Laura Nyro: “Quei primi quattro album sono un qualcosa di incredibile. Nessuno ha mai prodotto musica così. Non credo che sia mai stata guardata con il rispetto che avrebbe meritato”. Opinione che Elton John sottoscrive: “La idolatravo. L’anima, la passione, l’audacia con cui passa da un ritmo a un altro o con cui modifica una melodia mi sembrarono inaudite”. Lo affermava nel corso di una chiacchierata in uno studio televisivo con Elvis Costello, che annuiva entusiasta. Essendo pure per lui la Nyro una delle autrici e interpreti più ingiustamente neglette negli annali di un pop troppo colto per essere popolare davvero. Mentre dal canto suo Todd Rundgren ha sempre detto che ascoltarla per la prima volta ebbe su di lui un tale effetto da segnare il destino dei Nazz, “perché da un giorno all’altro smisi di comporre canzoni illudendomi di essere gli Who e cominciai a scriverne fantasticando di essere Laura Nyro”.
Prosegue per altre 56.498 battute su Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.221, ottobre 2017. A oggi sono trascorsi ventiquattro anni dalla scomparsa di Laura Nyro.
“In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro.” (Alberto Arbasino)