
Il disco meno “per l’estate” di sempre veniva pubblicato il 18 luglio 1980. La riedizione per il quarantennale è stata resa disponibile in anticipo di un giorno (24 Hours, come recita il titolo della seconda traccia della seconda facciata) rispetto a quando cadeva l’anniversario. “Pressed on crystal clear 180g heavyweight vinyl”, annuncia un adesivo, e non mancheranno i collezionisti che se ne faranno ingolosire, pur essendo l’aspetto marmoreo l’unica peculiarità di una versione che discutibilmente usa il remastering della “Deluxe Edition” in doppio CD del 2007. Ma volete che importi a chi ha in casa le tre diverse varianti delle prime tirature britanniche? Una in canonico vinile nero, le altre due sembrerebbe pure finché non le guardi controluce e scopri che una ha riflessi rossi e l’altra verdi. A chi magari (soprattutto all’estero, ovvio) si è dannato per procurarsi una copia della stampa italiana su Base Record: dove per errore i lati sono scambiati ed è ora d’obbligo una confessione, caro lettore. Proprio quella posseggo. La acquistavo in saldo a un paio di anni dall’uscita e per credo un paio di decenni di uno dei miei album “della vita” ho pensato che fosse sì straordinario ma lo sarebbe stato ancora di più con i lati invertiti. Parendomi avesse assai più senso un percorso con all’inizio lo stridulo, ghiacciato, claustrofobico industrial-funk di Atrocity Exhibition e in fondo una Decades in transito dall’elegia processionale a un synth-pop con già in nuce la metamorfosi dance dei New Order che illo tempore (seconda confessione; ma siamo stati tutti giovani, integralisti e sciocchi) schifai rispetto a quello che da Heart And Soul, ieratica cantilena a passo marziale, porta a A Means To An End, dove gli U2 di “Boy” sarebbero contenuti per intero con qualche mese di anticipo non fosse che qui di innocenza non vi è traccia. Insomma: non sarebbe stato più logico avere una prima facciata in sostanziale continuità, unica eccezione una Isolation decisamente ballabile, con l’ispido predecessore “Unknown Pleasures” e una seconda spalancata invece su nuovi scenari? Ops!
Non mi viene in mente altro gruppo, o solista, con all’attivo una discografia così scarna che abbia esercitato nella storia del rock un’influenza paragonabile ai Joy Division. I Velvet Underground pubblicarono quattro album. Jimi Hendrix tre di cui però uno doppio e si arriva comunque a quattro con “Band Of Gypsys”, che è sì un live ma di inediti. Pure i Nirvana tre a meno, ragionando come per “Band Of Gypsys”, di non aggiungere l’“Unplugged”. Nick Drake? Sempre tre. Ian Curtis e soci, due. Vero che ne tenevano fuori le due canzoni letteralmente più memorabili, uscite soltanto a 45 giri, ossia Transmission e la hit dall’oltretomba Love Will Tear Us Apart. Vero che avevano pubblicato in precedenza l’EP “An Ideal For Living”. Vero che il catalogo postumo annovera una decina di titoli. E tuttavia: con soli due album e il secondo uscito quando già si erano sciolti i Mancuniani hanno gettato sul rock un’ombra tanto lunga da arrivare ai giorni nostri, alla sensazione del momento Fontaines D.C.. Tanto lunga che ci sono oggi band che si ispirano agli Interpol paradossalmente ignorando che i pur ottimi (all’inizio) Newyorkesi dai Joy Division presero tutto ma proprio tutto. Arrivavano venti abbondanti anni dopo e ne sono trascorsi quasi altrettanti. Almeno la prima metà degli ’80, prima che Smiths e R.E.M. facessero cambiare verso alla new wave e anzi sostanzialmente la archiviassero riallacciandosi a quegli anni ’60 disdegnati dalla nouvelle vague del rock, veniva plasmata dall’eredità del gruppo formato nell’estate 1976 da Bernard Sumner e Peter Hook dopo avere assistito a un’esibizione dei Sex Pistols. Il primo si inventava chitarrista, il secondo bassista. Ian Curtis si univa come cantante dopo avere letto un annuncio in un negozio di dischi e con tal Tony Tabac alla batteria in sostituzione di Terry Mason che aveva assunto il ruolo di manager i neonati Warsaw (nome ispirato da un brano di David Bowie, da “Low”) esordivano dal vivo il 29 maggio 1977, spalla dei Buzzcocks all’Electric Circus, fulcro dell’emergente scena cittadina. In agosto Stephen Morris rileverà Tabac e all’inizio dell’anno dopo il quartetto cambiava ragione sociale (offriva lo spunto il romanzo del 1953 House Of Dolls, ambientato in un campo di concentramento nazista) in Joy Division. Il già citato “An Ideal For Living”, punkeggiante come mai più i Nostri saranno, veniva registrato in dicembre. Prima di approdare alla Factory, di cui faranno le fortune, i ragazzi avranno il fegato di autolicenziarsi dalla RCA, per la quale avevano inciso un intero LP rovinato a loro dire dalle interferenze del produttore.
Come provare a raccontare, e che bisogno ce n’è dopo che lo hanno fatto in legioni, due opere monumentali quali “Unknown Pleasures”, che usciva nel giugno 1979 (anch’esso celebrato, lo scorso anno, con una riedizione in vinile per il quarantennale), e “Closer”? Che avevano naturalmente degli antecedenti ─ nei Velvet, nei Doors, nel krautrock di Can e Neu!, nel Bowie berlinese ─ ma risultavano caratterizzati da un sound che prima di trovare orde di imitatori (tristemente tutta la pantomima dark prendeva da lì le mosse, ma fortunatamente ci fu chi seppe metterne a frutto la lezione a sua volta con originalità: Bauhaus, Cure, i primi U2 e pure “la nuova musica italiana cantata in italiano” di Litfiba e Diaframma) apparve inaudito: con il basso a disegnare la melodia, una chitarra spigolosa a giocare di contrappunto nelle retrovie e tutt’intorno una batteria fra il tribale e il motoristico. E sopra la voce ancora più inconfondibile ─ Jim Morrison autenticamente esistenzialista prima di uscire di scena come un giovane Werther fattosi carne ed epilessia ─ di Ian Curtis. Morto suicida il 18 maggio 1980, ventitreenne, alla vigilia della partenza per un primo tour americano che avrebbe reso se possibile i Joy Division ancora più influenti e forse già le star che diventeranno i superstiti Sumner, Hook e Morris nella loro seconda vita artistica come New Order. Debuttavano a 45 giri nel gennaio 1981 con Ceremony, una canzone sotto la quale c’è ancora pure la firma del defunto cantante.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.423, settembre 2020.
Ciao Eddy,
complimenti per questo articolo dal quale traspare una passione smisurata per la band (che io condivido). Nella lista delle “discografie scarne” eccezionali avrei inserito anche Jeff Buckley, il quale è morto dopo un solo capolavoro.
Pietro Coretto
Non l’ho citato perché “Grace”, che è un altro dei miei album “della vita” (probablimente quello, ahimé, di uscita più recente), è rimasto in tutti i sensi un unicum. Credo di potere affermare senza tema di smentite che – diversamente dai Velvet Underground, da Jimi Hendrix, dai Nirvana, da Nick Drake, dai Joy Division – non abbia esercitato influenza alcuna. È un capolavoro isolato, che fa categoria a sé.
Sono d’accordissimo con Te, Pietro su Jeff (ed anche ovviamente sui JD).
Grazie Venerato per questa stupenda ricostruzione!
…e in quanti siamo stati ‘fregati’ dalla stampa italiana che invertiva i lati!
Che tempi…
in quel caso i ”fregati”non sapevano di aver tra le mani una rarità per nulla sminuita da master con l’errore,anzi,dopo poco era più ricercato della riedizione corretta.