Archivi del mese: giugno 2021

Daniel Lanois – Heavy Sun (eOne)

Canadese con New Orleans nel cuore, Daniel Lanois da sempre deriva la più parte di redditi e fama dall’essere innanzitutto produttore. D’altra parte: non aveva che diciannove anni quando nel 1970 assemblava nella lavanderia materna (ad Hamilton, Ontario) uno studio di incisione dove cominciava a registrare band locali. Il suo cv era arrivato ad annoverare una quindicina di lavori quando nell’83 Brian Eno lo prendeva sotto la sua ala protettrice. Prima di stupire esordendo in proprio nell’89 con “Acadie”, debutto di tale abbagliante bellezza da mettere un po’ in ombra tutto quanto ha pubblicato in seguito (un peccato), aveva già messo la firma su capolavori quali “The Unforgettable Fire” e “The Joshua Tree” degli U2, “So” di Peter Gabriel e l’omonimo primo album da solista di Robbie Robertson, mentre in quello stesso favoloso anno curava la regia anche di “Oh Mercy” di Bob Dylan e “Yellow Moon” dei Neville Brothers. Da allora ha contribuito a forgiare diversi altri classici. Ma non lo è pure il summenzionato “Acadie”?

Prematuro etichettare come tale anche “Heavy Sun” e tuttavia che sia uno dei vertici di un catalogo di rara consistenza appare subito indiscutibile. È il disco gospel del Nostro, passione antica che naturalmente consolidò e affinò lavorando con gli immensi Neville Brothers il cui modello di funkitudine caratterizza “Heavy Sun” sin dall’iniziale, programmatica Dance On. Che suoni da paura va da sé, ma a renderlo un’esperienza d’ascolto esaltante sono la scrittura e le voci. Un organo che svisa con senso del groove irresistibile. Gli incastri di una ritmica che gioca a rimpiattino fra percussioni “vere” ed elettroniche, Africa, Louisiana e Brasile. La chitarra che jazzeggia. Tutto, insomma.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.431, maggio 2021.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Posseduto – Il Van Morrison di “Astral Weeks”

Non avrai altro Van Morrison all’infuori di questo? Un’opzione. Per quanto se ne possa trovare di memorabile in una produzione che per vent’anni si manterrà immacolata, qualche capolavoro ancora, diversi titoli eccelsi e anche nei meno riusciti una straordinaria ordinaria amministrazione, un guizzo o due o tre di trascendenza. Questione di alterità più che di superiorità, giacché paragoni e classifiche si fanno fra affini e non vi è altro Van Morrison che possa essere sistemato nella casella di “Astral Weeks”. Tant’è che per lunghissimo tempo, fin quando nel quarantennale dell’uscita l’autore non deciderà di proporlo integralmente (mischiandone però il programma) in una serie di spettacoli che diverranno anche un disco, nelle scalette dei concerti un unico fra i suoi otto brani – Cyprus Avenue – troverà spazio, immancabilmente come congedo. Tant’è che nei vari “Best Of” (quelli seri, quelli a loro volta classici) soltanto Sweet Thing verrà ripresa e questa però mi è sempre parsa una bizzarria: perché non anche The Way Young Lovers Do? Che il massimo esegeta di Van Morrison – Greil Marcus, per il quale “Astral Weeks” è l’album della vita; lo era pure per Lester Bangs e in simile compagnia mi sento nano sulle spalle di giganti – ha sempre schifato. Jazzetto nei dintorni della lounge, disdegna, e non glielo si può perdonare. Nondimeno è posizione coerente per uno che ha da ridire anche su Brown Eyed Girl, che per me è “la” canzone di Van The Man che era allora Van The Boy. Più che un 45 giri, quello che ne inaugurava la carriera solistica, una pozione magica la cui assunzione quotidiana propugno come ideale per mantenersi per sempre giovani e in buona salute, nell’anima; probabilmente anche nel corpo, visto il tuffo al cuore che invariabilmente mi coglie alle prime battute e sul serio è come se il muscolo cardiaco improvvisamente si ossigenasse meglio. Avete presente che effetto vi fece la prima volta vedere Lei o Lui? Ecco. Nel battito di mani e nel trillare della chitarra elettrica, nella melodia ascendente a incrociare la linea di basso, nel ritornello che deflagra dolcissimo e impossibilmente esuberante, Brown Eyed Girl racchiude l’eccitazione del più spensierato dei primi amori come a ben poche altre canzoni è mai riuscito. Quando poi non è nemmeno “caro diario” ma già ricordo e rimpianto. Basterebbe da sola – da sola! – a guadagnare al cowboy di Belfast un posticino nell’Olimpo dei grandi del pop-rock e, fermandosi alla scintillante superficie, Marcus non coglie che la ragazza è una versione sedicenne della quattordicenne di Cyprus Avenue, della diciottenne di The Way Young Lovers Do, della ventenne di Astral Weeks la canzone, della ventitreenne che alla fine di “Astral Weeks” l’album allungherà un’ombra di morte su Slim Slow Slider. Una ex-sweet little sixteen definitivamente corrotta dal suo grown up blues e quel vecchio pervertito di Chuck Berry era uno che la sapeva lunga.

Ma mi sto contraddicendo? Sì e no e non più di un Greil Marcus che, consciamente o meno, anela ad “Astral Weeks” in ogni altro Van Morrison esistito e quando in effetti c’è a volte non se ne accorge. È chiaro che a cercarne tracce le trovi – ovviamente, essendo l’artefice lo stesso – e tuttavia e come intuito da subito, per quanto confusamente, dall’artista medesimo, che con la sua creazione suprema impiegherà decenni a venire a patti, è questa un’opera che fa categoria a sé. Nell’intero canone di una popular music che non annovera altri dischi capaci di intrecciare così inestricabilmente folk, blues, jazz e cameristica e testi che optano in più frangenti per lo stream of consciousness. In quello del nostro uomo, che gli elementi di cui sopra non smetterà più di usarli ma alterando le proporzioni, aggiungendo vaudeville, rhythm’n’blues, soul, rock di varia natura, ricercando – e nei suoi momenti più felici trovando – equilibri affatto diversi. C’è “Astral Weeks” e c’è tutto l’altro Van Morrison. Dovendo proprio naufragare sull’isola che non c’è, potendo mi metterei in borsa anche Brown Eyed Girl, “Moondance”, “Saint Dominic’s Preview”, “It’s Too Late To Stop Now…”. Naturalmente i Them. Potendo. Se no, datemi “Astral Weeks” e amen. Non conosco altri album – di nessuno – nei quali si parli in lingue.

A volte non sei altro che uno strumento in mano a forze indefinibili. Accade in taluni canti nomadi come nelle musiche primitive africane. Sei come posseduto.” (Van Morrison, in una conversazione del 1977 con Ritchie Yorke)

…è un disco con al centro persone completamente sopraffatte dalla vita, imprigionate nei loro stessi corpi, nei loro anni, nel loro essere più intimo, paralizzate dall’enormità di quanto, in una visione di un attimo, sono riuscite ad afferrare.” (Lester Bangs, da Stranded: Rock And Roll For A Desert Island, 1979)

A proposito di isole deserte e di Lester Bangs (e dopo avere annotato, en passant,che in quella storica antologia nella quale venti critici americani venivano chiamati a raccontare il loro album da salvare Van Morrison era l’unico artista a comparire con due titoli: M. Mark sceglieva “It’s Too Late To Stop Now…”): riferisce Lester di essere più di una volta quasi venuto alle mani con questo o quell’amico per avere sostenuto come una tematica pedofila sottenda una parte consistente della produzione giovanile del cantautore irlandese. L’argomento è scabroso, il terreno scivoloso e spero di non essere equivocato. Tecnicamente parlando, aveva ragione. Non si scappa e basti rileggere quanto scrivevo poche righe fa. Ricordando però che ogni epoca e cultura assegnano limiti diversi alla liceità di amore e sesso fra chi è adulto e chi adulto non è. Che il nostro George Ivan aveva lui stesso diciannove anni al tempo di Gloria, ventidue quando pubblicava Brown Eyed Girl, ventitré appena compiuti quando metteva mano ad “Astral Weeks”. Sebbene già avesse vissuto esistenze intere e non possa dirsi giovane l’uomo che fa la posta, seduto in un’auto in un viale di Belfast, alla ragazzina “so young and bold”. Sua salvezza e dannazione insieme che non riuscirà mai a dichiararsi e, per quanto il suo “my t-tongue gets tied every, every, every time I try to speak” possa richiamare il parimenti indimenticabile “the tip of the tongue taking a trip of three steps down the palate to tap, at three, on the teeth. Lo. Lee. Ta” di Nabokov, siamo all’esatto opposto: estasi e terrore contro voluttà. Non concretizzandosi, addirittura non appalesandosi mai, l’amore di Cyprus Avenue si conserverà suo malgrado puro, ineffabile, laddove Lolita è un precipitare negli abissi che sappiamo, l’inferno in terra prima di un inferno altrove. Quell’uomo che forse è il nostro uomo e forse no patirà un dolore diverso, mai in transito dalla disperazione all’abiezione.

Prosegue per altre 17.662 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.180, maggio 2013.

9 commenti

Archiviato in Hip & Pop

Godspeed You! Black Emperor – G_d’s Pee At State’s End (Constellation)

Sul davanti di copertina del settimo album del collettivo di Montreal ─ quarto episodio della seconda parte di una saga principiata nel 1997 per interrompersi nel 2002 e riprendere dopo un decennale silenzio; solo che costoro ripartivano rielaborando materiali di dieci anni prima e allora questo si potrebbe contare come terzo ─ campeggia un’illustrazione floreale del concetto di yin e yang. Sul retro, tre bombolette di gas lacrimogeno. Acquistarlo in CD è l’opzione più comoda oltre che economica giacché, composto come i tre lavori precedenti da due suite intorno ai venti minuti con a completare due brani sui sei, per ascoltarlo in vinile nella sequenza corretta non dovrete soltanto cambiare tre volte facciata ma alternare il 12” al 10”. Come dire che questi anarco-punk che suonano, potendoselo permettere giacché musicisti formidabili, un inafferrabile miscuglio di progressive (a volte pochi gradi di separazione distanziano l’Imperatore Nero dal Re Cremisi) e post-rock, coprendo nel farlo molto se non tutto di quanto sta in mezzo, da certo folk “apocalittico” ai Pink Floyd e al math-rock, via Morricone, non ti rendono mai la vita facile.

A scrivere per esteso gli astrusi e chilometrici titoli delle due tracce più lunghe, la prima e la terza, si finirebbe lo spazio. Basti dire che una dopo un attacco letteralmente innodico riparte sommessa per svilupparsi con un crescendo deflagrantemente wagneriano e l’altra, rarefatta e sequestrata dagli archi, ha invece passo lento. Laddove Fire At Static Valley si muove in territori dark-folk fra il solenne e il mesto e Our Side Has To Win (For D.H.) evoca altri evidenti numi tutelari, i Popol Vuh al servizio di Herzog. Sono i “soliti” GYBE: come al solito unici.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.431, maggio 2021.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Audio Review n.432

È in edicola da inizio settimana il numero di giugno di “Audio Review”, cui ho contribuito recensendo i nuovi album di Tony Allen, Birdy, Coral, Steve Cropper, Field Music, Flying Lotus, Damien Jurado, Motorpsycho, Polyphonic Spree, Sons Of Kemet, Squid, Matt Sweeney & Bonnie Prince Billy e Tony Joe White e recenti ristampe di Selecter e Spiritualized. Rubrica del vinile dedicata questo mese ai Roots.

2 commenti

Archiviato in riviste

Teenage Fanclub – Endless Arcade (PeMa)

Album che sulla carta segnerebbe una cesura importante in una vicenda artistica ultratrentennale, questo che per i Teenage Fanclub è il tredicesimo (non proprio degli stakanovisti i “ragazzi”: OK il Covid ma “Endless Arcade” lo abbiamo atteso cinque anni; comunque uno meno  di “Here”): è che è il primo senza il dimissionario (nel 2018; nessun contrasto artistico o dissapore alla base di una decisione sofferta, solo il desiderio di non passare troppo tempo in giro per il mondo, lontano dalla famiglia: ironico, eh?) Gerard Love. Che negli equilibri del quintetto scozzese non era uno qualunque, dacché da sempre con due degli altri tre fondatori ancora in squadra (il batterista Francis Macdonald a un certo punto lasciò, ma è poi tornato), i cantanti e chitarristi Norman Blake e Raymond McGinley, si divideva in parti eguali l’autorialità del repertorio. Verificate per credere pescando un disco a caso fra quelli che hanno preceduto “Endless Arcade”: quasi tutti contengono dodici brani, in quasi tutti i tre di cui sopra ne firmano quattro a testa.

Eppure si va avanti, come i R.E.M. quando se ne andò Bill Berry. Senza scossoni, con la sola differenza che Blake e McGinley hanno offerto al programma stavolta sei canzoni cadauno, Dave McGowan è passato al basso e alle tastiere lo ha rilevato Euros Childs, ex-Gorky’s Zygotic Mynci. All’ascolto la defezione di cui sopra risulta indolore, altissimo al solito il livello medio di un programma che mischia con sentimento e vigoria folk-rock di scuola americana (se un brano stupisce un minimo è allora The Sun Won’t Shine On Me, in cui risuona un’eco di Fairport Convention) e power pop. Imperdibile per i cultori, mentre tutti gli altri non sanno cosa si perdono.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.430, aprile 2021.

1 Commento

Archiviato in archivi, recensioni

Nick Waterhouse – Promenade Blue (Innovative Leisure)

Attacco la recensione del quinto album dell’artista californiano sapendo che a scriverla impiegherò meno tempo di quanto ne abbia dedicato (invano) a cercare di risolvere il mistero delle due tracce in coda al promo lossless in mio possesso assenti dalle scalette di CD e 33 giri, fuori dal 9 aprile. Saranno dei lati B? Sia come sia, che peccato che il nostro uomo (non nuovo a scelte autolesionistiche: anni fa pubblicava una stupenda rilettura “vintage” di Smooth Operator di Sade solo in formato liquido) non abbia incluso nel “Promenade Blue” che potrete ascoltare le sue versioni ─ la prima piuttosto fedele all’originale, con un tocco di raffinatezza in più che non le sottrae un’oncia di energia; la seconda viceversa a stento riconoscibile, rivisitata com’è alla Ben E. King ─ del classico garage-punk dei Seeds Pushing Too Hard e di Spanish Is The Loving Tongue di Bob Dylan.

Anche nella versione di undici brani (che dovrebbero essere tutti autografi) “Promenade Blue” è in ogni caso raccomandabile a chiunque, avendo in casa i capisaldi del soul dell’era aurea, apprezzi il filone revivalista cui l’oggi trentacinquenne Nick Waterhouse si iscriveva sin dal debutto del 2012 “Time’s All Gone”. Risultandone da subito uno dei migliori esponenti per la sapienza con cui miscela senza richiamarsi a nessuno in particolare le più varie influenze (aggiungendo blues e jazz q.b.) e per una penna spesso assai ispirata. Qui in particolare in una Place Names che reinventa Brian Wilson in chiave Phil Spector, nello sferzante errebì Vincentine, nella latina Silver Bracelet, nello stiloso strumentale jazzato Promène bleu e in B. Santa Ana, 1986, dal micidiale groove tastieristico. Ai dischi prima avevo sempre dato 7,5. Questo sarebbe stato da 8 se solo…

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.430, aprile 2021.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Patti Smith – So You Want To Be A Rock’n’Roll Star




Certamente i Jefferson Airplane hanno realizzato album migliori di “Bark”, non bruttino come il successivo “Long John Silver”, con il quale non a caso il loro volo si concludeva con un atterraggio di semi-emergenza, e però un chiaro indizio che stava diventando difficile mantenere, per i disaccordi fra i membri dell’equipaggio, quota e rotta. Nondimeno sta proprio in “Bark” una delle loro canzoni più memorabili e (con Lather) la più toccante, il malinconico quadretto di Third Week In The Chelsea. Induce un curioso effetto di dislocazione ideologica ascoltare coloro che appena due anni prima, in un barricadero 1969, avevano chiamato a raccolta i volontari d’America per inscenare una Rivoluzione ripiegare così apertamente nel privato. E induce un al pari bizzarro effetto di dislocazione geografica che uno dei gruppi più quintessenzialmente californiani di sempre ambienti uno dei suoi rari brani a nervi emotivi scoperti in un luogo mitologico dell’arte e in particolare del rock’n’roll newyorkesi. Ove non sorprenderà affatto, tre ulteriori anni più tardi, che un ebreo (dunque errante per definizione) canadese con il nome dell’albergo al 222 di West 23rd Street addirittura la intitoli una sua canzone: la più lubrica e struggente di tutte, resoconto dell’incontro fra lui, Leonard Cohen, e un’altra habitué di quegli appartamenti, quelle stanze, quei corridoi, quel bar. Tal Janis Joplin.

E adesso facciamole scorrere di nuovo all’indietro, le lancette del tempo, fino ad arrivare a un imprecisato giorno dell’autunno 1969. Una giovane donna filiforme, dall’aria un po’ androgina e che dimostra meno dei ventitré anni che sta per compiere, si aggira nella hall del Chelsea Hotel. Si sente chiamare. “Dove hai imparato a camminare in quel modo?” “Non dove ma da chi: da Dylan in Don’t Look Back.” L’uomo scoppia a ridere. “Che è quel quaderno?” “Lo porto sempre con me. Ci scrivo poesie.” “Me ne fai leggere una?”. Nelle settimane seguenti Bob Neuwirth presenterà Patti Smith a tutte le celebrità di cui è amico e che risiedono saltuariamente o stabilmente nell’albergo: la Joplin, Roger McGuinn, Kris Kristofferson, William S. Burroughs e con lui mezza Beat Generation, tutto il giro ─ Velvet Underground compresi ─ di Andy Warhol. Sfortunatamente, non passa mai da quelle parti nei pochi mesi in cui Patti fa base al Chelsea, in una camera affittata con il fotografo Robert Mapplethorpe, l’amico di Neuwirth più amico e più celebre di tutti: Bob Dylan. I due non arriveranno a incrociarsi che il 26 giugno 1975, quando lui andrà a uno spettacolo di lei all’Other End per toccare con orecchio come sia la prima donna battezzata “un nuovo Dylan”. Dopo, nei camerini, con davanti a sé per la prima volta colui che fra i viventi più di tutti ha contribuito a renderla ciò che è, la Smith sarà scostante ai limiti dell’offensivo. “C’è qualche poeta da queste parti?” “Non mi piace più la poesia. Mi fa cagare.” Così lei stessa racconterà lo storico incontro, venti tondi anni dopo, a Thurston Moore dei Sonic Youth. Insieme ancora vergognosa e divertita.

Tempo di anniversari, per Patricia Lee Smith. Quarant’anni dal fatidico scambio di battute con Bob Neuwirth e venti dalla scomparsa di Robert Mapplethorpe: prima di un’incredibile serie di morti premature che ha fatto il deserto attorno alla Jersey Girl, ultima delle quali (proprio nei giorni in cui mettevo mano a questo articolo) quella del Catholic Boy Jim Carroll. Nel perfetto mezzo il trentennale dei due spettacoli italiani, Bologna e Firenze, che suggellarono la prima metà della vicenda che qui si narra. Patti ha rinnovato il ricordo di quelle adunate oceaniche tornando sul luogo del delitto, non solo da musicista (in Piazza Santa Croce in luogo che all’Artemio Franchi) ma anche, e forse a questo punto specialmente, da artista completa, rinascimentale nella città rinascimentale per antonomasia. La sua mostra “Fotografie per Firenze” sarebbe dovuta durare fino al 9 ottobre, ma tale è stato il successo di critica e tanta l’affluenza dei visitatori che mentre scrivo già è ufficiale che si prolunga, fino al 10 gennaio. Vedere i quotidiani dedicarle pagine su pagine nei loro inserti culturali non stupisce. Non era già accaduto trent’anni fa? Spiazza al limite, creando magari qualche disagio agli estimatori di più vecchia data, che per intervistare “la mamma del rock” (titolo tremendo, domande accettabili) si sia scomodata addirittura “Famiglia Cristiana”. E però non è un cerchio che si chiude? Nelle note interne di “Easter” figurava una citazione dal Nuovo Testamento e proprio al concerto fiorentino del 10 settembre ’79 la diffusione dagli altoparlanti della voce di Albino Luciani, Papa Giovanni Paolo I, aveva provocato l’unica bordata di fischi della serata. Questa è per intero una storia di cerchi che si chiudono. Piace allora ipotizzare, piace sperare che un’ennesima ricorrenza che incombe ─ nel giugno 1980 la Smith si esibiva a Detroit in uno spettacolo a metà fra il reading e il concerto destinato a restare per un decennio la sua ultima apparizione pubblica ─ venga celebrata con l’uscita ─ finalmente! ─ di un live dell’Età Aurea. Basterebbe ripulire qualcuno dei tanti bootleg che circolavano all’epoca e contribuirono almeno quanto i dischi per la Arista a diffondere la leggenda di un gruppo perlopiù di semidilettanti che, uno show dopo l’altro, seppe trasformarsi in una delle più gioiose macchine da guerra che mai abbiano calcato i palchi del rock’n’roll. Basterebbe recuperare l’audio di un favoloso spettacolo ripreso dalla TV tedesca proprio del tour di “Wave” che non vi sarà difficile rintracciare in Rete: un’ora e mezza indimenticabile fra l’accordo iniziale di So You Want To Be (A Rock’n’Roll Star) e l’ultimo scroscio di feedback di My Generation.

A proposito dell’inno degli Who… Un live ufficiale di Patti Smith in realtà esiste, però recente. Nel 2005 veniva invitata ad assumere la direzione artistica dell’annuale “Meltdown Festival” e naturalmente si esibiva anche lei. Eccezionalmente prestigiose cornice e ribalta, quella della londinese Royal Festival Hall, il concerto non poteva essere qualunque. Veniva eseguito integralmente “Horses”, pure la scaletta quella primigenia eccettuato il post-scritto di una “My Generation” che, tre decenni prima, non era stata che il retro di un singolo. Entro fine anno la registrazione dell’evento vedeva la luce come secondo CD della “Deluxe Edition” proprio di “Horses” e quasi tutti storcevano la bocca. Quasi tutti lamentavano che non si fosse invece optato per un live coevo delle incisioni in studio. Non facevo eccezione e adesso vado a Canossa, perché avendo orecchie per intendere non si può non cogliere come l’operazione fosse tutt’altro che meramente commerciale e, al contrario, squisitamente artistica. E allora vi dico che: le interpretazioni, tanto vocali che strumentali, come minimo pareggiano per intensità gli originali e almeno in un clamoroso caso ─ la suite raddoppiata in durata Land/Horses/Land Of A Thousand Dances/La mer (de), con successiva ripresa di Gloria ─ si va ben oltre. E allora vi dico che: ci si diverte ─ perché è pur sempre rock da estasi e da battaglia e poi fa ridere che alla fine di Free Money si annunci “Side two!” ─ e ci si commuove, all’elenco di cari estinti che sfilano in quella Elegie che era stata scritta per Jimi Hendrix. E allora vi dico che: l’intera parabola artistica e umana di una donna letteralmente straordinaria si offre da questo osservatorio con prospettive, se non completamente inedite, fresche. Cerchi che si chiudono: la perentorietà di due versi definitivi quali “Jesus died for somebody’s sins/but not mine” trasformata nell’interrogarsi dolente di “Jesus died for somebody’s sins/why not mine?”; la chiamata alle armi in calce a My Generation ─ “We created it, let’s take it over” ─ che si fa concione sferzante sui sogni traditi che hanno generato un George Bush (il figlio, allora presidente USA). Per quindi diventare invito ai giovani di oggi a sognare i sogni che furono dei Sixties e a trasformarli ─ loro sì ─ in realtà. Lo stesso tema di People Have The Power, no? Patti Smith è viva e lotta ancora insieme a noi.

Sono nata a Chicago, ho vissuto in un allevamento di pecore nel Tennessee per poi infine trasferirmi nel South Jersey, che è molto diverso dal North Jersey. Mio padre ci ha insegnato a non essere pedine nel gioco di Dio. Era un fiero bestemmiatore ed è stato lui a trasmettermi l’avversione per le religioni. Ma nel contempo ne sono anche attratta e questo mi viene da mia madre, che al contrario è religiosissima. Ho cominciato a interessarmi all’arte non perché avessi particolari pulsioni creative ma perché mi sono innamorata degli artisti. Quando venni qui a New York, il piano non era quello di diventare un’artista, quanto piuttosto l’amante di uno. Inizialmente l’arte per me non era uno strumento per esprimermi in prima persona, bensì una scorciatoia per allearmi con degli eroi. Non riuscendo a stabilire un contatto con un Essere Supremo ne cercavo uno con dei semidei: Brian Jones, Edie Sedgwick, Rimbaud… Che sono certo individui superiori ma in ogni caso più vicini a noi, più accessibili. Ci sono i loro lavori, puoi ascoltarne le voci, conoscerne i volti. Ma adesso non ho più eroi. Sono anch’essi mortali e allora sono diventata io l’eroe di me stessa. Da quando, da un anno in qua, la mia produzione si è fatta più solida posso specchiarmi e adorare la mia di immagine. Quasi non leggo più versi che non siano i miei.” (dichiarazioni raccolte da Penny Green per la rivista edita da Andy Warhol “Interview”, 1973)

Prosegue per altre 50.223 battute su Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.32, autunno 2009. Foto di Robert Mapplethorpe. Patti Smith sarà in tour in Italia (quattro le date previste) dal 10 al 14 luglio prossimi.

Lascia un commento

Archiviato in Hip & Pop