
Quando il chitarrista Buddy Guy e l’armonicista Junior Wells, originari di Louisiana e Arkansas, incrociano per la prima volta le loro strade in uno studio di registrazione hanno rispettivamente ventinove anni e trentuno, risiedono da tempo a Chicago, hanno fiancheggiato questo e quello dei nomi di spicco della fiorente scena cittadina che ruota attorno a numerosi locali ed etichette, prima fra le quali la Chess. Proprio su Chess ha visto la luce la più parte della decina fra singoli ed EP che ha pubblicato fino a quel punto Guy, mentre Wells vanta una discografia lunga il doppio ma su marchi di profilo modesto. Rappresenta un deciso salto di categoria l’approdo nel 1965 alla Delmark. Eternato il 22 e 23 settembre e dato alle stampe in novembre attribuito alla Junior Wells’ Chicago Blues Band, “Hoodoo Man Blues” gode tuttora di vasta e meritata fama fra storici e appassionati della materia. Forse il primo disco, fra l’altro inciso assai bene per gli standard dell’epoca, a riprodurre plausibilmente in uno studio di registrazione l’atmosfera fumosa e lubrica tipica di un club, forte della partecipazione di musicisti formidabili e di una scaletta inappuntabile, con cinque brani composti dal titolare dell’album, quattro trad e una cover di Hound Dog di Big Mama Thornton. Fa dieci. Le due tracce restanti (In The Wee Wee Hours, in realtà rielaborazione di un Big Bill Broonzy di annata, e We’re Ready) sono state scritte a quattro mani da armonicista e chitarrista, che con il bassista Jack Myers e il batterista Billy Warren costituisce il nucleo dalla band, ma per un equivoco con la Chess appare sotto pseudonimo, Friendly Chap. Le stampe successive (l’ultima di pochi mesi fa, su doppio 45 giri Analogue Productions che non ho avuto il piacere di ascoltare) rimetteranno le cose a posto, con il nome di Guy non solo nei crediti ma spesso sul davanti di copertina. Per i nostri eroi, che non per questo accantoneranno le carriere solistiche, il disco segna l’inizio di una collaborazione che frutterà altri nove album, ultimo dei quali “Better Off With The Blues”, uscito nel 1993, cinque anni prima della prematura dipartita per assortiti problemi di salute dell’armonicista. E per quanto a contarli i dischi in proprio rappresentino la grande maggioranza dei cospicui repertori (alla sua bella età Buddy Guy è ancora sulle scene e artisticamente inappuntabile, come ha certificato nel 2018 “The Blues Is Alive And Well”) nella storia maggiore della musica del diavolo, versante elettrico, i due vengono immancabilmente citati insieme.
Accolti con entusiasmo dal pubblico del rock ─ fra gli sponsor Jimi Hendrix e i Rolling Stones, per i quali si ritroveranno ad aprire diversi concerti e il cui bassista Bill Wyman suonerà con loro al “Montreux Jazz Festival” del ’74 ─ senza che per questo la platea nera li rinneghi, Buddy Guy e Junior Wells sono nel 1970 a un apice di popolarità. Fra i fans più sfegatati della coppia figura Eric Clapton, che convince il boss della Atlantic Ahmet Ertegun ad affidargli la produzione di un album. Ci si ritrova in ottobre ai Criteria Studios di Miami, Florida, e a elencare i musicisti convocati manca il fiato: oltre a Clapton, che significativamente lascia le parti da solista a Guy e suona chitarra ritmica e bottleneck, si presentano il sassofonista A.C. Reed, il tastierista Mike Utley, il bassista Leroy Stuart e il batterista Roosevelt Shaw. Gente richiestissima e che non può esserci sempre ed ecco allora che in tre brani a sostituire Utley provvede nientemeno che Dr. John e in uno la sezione ritmica è quella di Delaney & Bonnie, Carl Radle e Jim Gordon. Considerate che dietro al mixer con Slowhand (che ha da pochi giorni completato in quella stessa sala la realizzazione del capolavoro a nome Derek & The Dominos “Layla And Other Assorted Love Songs”) siedono spesso lo stesso Ertegun e Tom Dowd e… wow! Peccato che sulle registrazioni si allunghi l’ombra luttuosa della morte di Hendrix appena poche settimane prima. Peccato che Clapton, oltre che devastato dalla scomparsa del rivale e amico, sia stremato da un quinquennio in cui non si è preso quasi pause e stia portando troppo oltre il flirt con le droghe pesanti. Sarà pure per quello che Ertegun e Dowd sono con lui, per tenerlo d’occhio? Ad ascoltarlo non si direbbe che “Play The Blues” abbia avuto una lavorazione tanto sofferta. Clamorosa la prima facciata. Apre con piglio funk A Man Of Many Words (di Buddy Guy), si prosegue con una travolgente (da Sonny Boy Williamson) My Baby She Left Me (She Left Me A Mule To Ride) e con il medley (di Wells) Come On In This House/Have Mercy Baby, dondolante e (in)dolente prima di strappare e infiltrarsi di soul. Suggellano il lato un esuberante T-Bone Shuffle, cavallo di battaglia di T-Bone Walker che da qui in poi lo sarà almeno altrettanto pure per Buddy Guy, e A Poor Man’s Plea di Junior Wells, che è una Baby Please Don’t Go minore ma non troppo. Delle cinque tracce che costituiscono la seconda facciata giusto tre arrivano dalle stesse sedute. Una Messin’ With The Kid (da Mel London) ficcante e iniettata di errebì, una scintillante I Don’t Know (da Willie Mabon) con l’armonica particolarmente mattatrice e una gigiona a dispetto dell’argomento Bad Bad Whiskey (da Thomas Davis). E a quel punto, con Clapton sempre meno affidabile e infine latitante, i lavori si fermavano e con neanche mezz’ora di musica Ertegun, ritenendo di non avere fra le mani un LP, accantonava il tutto. Fortunatamente da lì a due anni l’aggiunta di una canzone di Buddy Guy, la festosa This Old Fool, e del serrato, ossessivo strumentale Honeydripper (da Joe Liggins) con ad accompagnare i due titolari la J. Geils Band completeranno un album che è fra le pietre miliari del blues-rock.
Uscito a suo tempo su ATCO, “Play The Blues” torna disponibile su vinile dopo decenni grazie alla sempre inappuntabile Speakers Corner. Che però per una volta avrebbe fatto bene a non essere filologica come suo solito e ad aggiungere su un secondo disco le ben tredici outtake che integrano le riedizioni “Deluxe” in CD Rhino (2005) e Friday Music (2014). Lì a chiudere è Sweet Home Chicago, sulle cui note Buddy Guy si ritroverà a duettare nel febbraio 2012 con tal Barak Obama. Non male come Blues Brother sostitutivo.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.425, novembre 2020.
A meta` degli anni 90 ero abbastanza ignorante riguardo al blues. Tutto cio` che conoscevo erano le influenze blues di gruppi come LED ZEPPELIN e ROLLING STONES o di artisti come ERIC CLAPTON (tutti e tre curiosamente debitori di un signore di nome ROBERT JOHNSON).In seguito, grazie ai consigli di un negoziante particolarmente esperto mi procurai in tempi brevi cose come un Intero cofanetto di HOWLIN WOLF, lo splendido LIVE AT CAFE AU GO GO di JOHN LEE HOOKER, la magica colonna sonora di HOT SPOT e , dulcis in fundo, HOODOO MAN BLUES. Questa, in sintesi, la mia iniziazione a un genere che, nonostante i cambiamenti, continua ad essere una delle matrici principali della musica moderna . Sarebbe bello se un giorno qualcuno approfondisse le origini di una musica che, sotto il profilo metrico e armonico, e` molto piu` complessa di quanto sostengano certi critici di matrice eurocentrica.