L’ultimo album degli ZZ Top data 2012 e venne acclamato come un ritorno alla forma migliore per il trio texano, laddove il precedente “Mescalero” aveva raccolto invece recensioni tiepide, quando non negative, e pure i riscontri commerciali erano stati modesti per un gruppo che da tre decenni collezionava dischi d’oro, platino, persino diamante. Nove anni separarono i due album, da altrettanti attendiamo un successore per “La Futura”. Si materializzerà mai? Non dovesse accadere (i nostri eroi nel 2019 raccontavano in un’intervista radiofonica che ci stavano lavorando e Billy Gibbons, contattato da un quotidiano l’anno dopo, confermava; più nessuna notizia da allora) non sarà forse un male. Per due ragioni: una è che come suggello di una vicenda così importante “La Futura” sarebbe perfetto; l’altra è che se il frontman ci regala dischi come questo… be’, possiamo serenamente consegnarli alla Storia del rock, gli ZZ Top.
Per Gibbons è la terza uscita da solista, dopo il tanto atipico (contraddistinto da inedite influenze cubane) quanto poco convincente “Perfectamundo” (2015) e il più convenzionale, non indimenticabile ma gradevole, “The Big Bad Blues” (2018). Forte di undici solidi originali e una spumeggiante cover del classico tex-mex dei Texas Tornados Hey Baby, Que Paso, “Hardware” si posiziona una spanna o due sopra, non molto distante insomma da “La Futura” di cui, fosse uscito con il marchio della band, sarebbe stato degno seguito. Avrebbero fatto un figurone anche lì tracce come la scorticata My Lucky Card, una Shuffle, Step & Slide in scia all’immortale La Grange, il bluesone con organo soul Vagabond Man, una West Coast Junkie molto Link Wray, o il Morricone western Desert High.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.433, luglio/agosto 2021.
Formatisi nel Michigan nel 1967, Commander Cody (al secolo George Frayne) e i suoi Lost Planet Airmen (sigla prelevata da una serie che include classici del cinema di serie D quali Zombies Of The Stratosphere) devono trasferirsi a San Francisco per rimediare infine, nel 1971, un contratto (appropriatamente con un’etichetta, la Paramount, diramazione di un noto studio di Hollywood). L’esordio con il singolo Hot Rod Lincoln è in compenso col botto, visto che il brano entra nei Top 10 di “Billboard”. A dare sostanza alla fama del gruppo più che i comunque apprezzabili “Lost In The Ozone”, “Hot Licks, Cold Steel & Truckers’ Favorites” e “Country Casanova” provvedono concerti allegri e incandescenti in cui western swing ed errebì, blues e rockabilly, honky tonk e boogie si fondono indissolubilmente. Che nei ragazzi batta un cuore texano è evidente e non è quindi un caso che lo stato della Stella Solitaria li adotti con entusiasmo. Registrato nel novembre 1973 agli Armadillo World Headquarters di Austin e pubblicato nel marzo dell’anno dopo “Live From Deep In The Heart Of Texas” è memorabile in toto, a partire dalla copertina.
Scritto per Rock: 1000 dischi fondamentali, Giunti, 2012, ma poi escluso dalla lista finale. Il Comandante ci ha lasciati ieri, settantasettenne.
Oltre a “Nevermind” dei Nirvana il 24 settembre di trent’anni fa arrivavano nei negozi “Blood Sugar Sex Magik” dei Red Hot Chili Peppers, “Badmotorfinger” dei Soundgarden e “The Low End Theory” degli A Tribe Called Quest. Il giorno prima i Primal Scream avevano pubblicato “Screamadelica” (i Pixies “Trompe le monde”). Otto dopo, Prince darà alle stampe “Diamonds And Pearls” e i Public Enemy “Apocalipse 91… The Enemy Strikes Black”.
A Tribe Called Quest – The Low End Theory (Jive)
Gli ultimi saranno i primi? Capita agli A Tribe Called Quest, da New York (per la precisione dal Queens) e della variopinta tribù Native Tongues, che segna in profondità l’hip hop di fine ’80 depurandolo dai machismi e infiltrandolo di una vena umoristicamente psichedelica, quelli che ci mettono di più ad affacciarsi alla ribalta maggiore. Il formidabile “People’s Instinctive Travels And The Paths Of Rhythm” vede la luce nel 1990 e dunque abbondantemente dopo gli esordi adulti di Jungle Brothers (1988), De La Soul e Queen Latifah (1989). Quasi le mascotte della compagnia, Q-Tip, Ali Shaheed Muhammed e Phife Dawg – il quarto, Jarobi, li lascia dopo il debutto – dapprima dimostrano che la gavetta più lunga li ha rodati, esaltandone un eclettismo che va oltre quello pur notevole dei già famosi amici. Si costruiscono poi una carriera che supererà per consistenza quella dei fratelli – e della sorella – maggiori. Più coerenti nella loro evoluzione dei De La Soul, non patiranno come costoro l’entusiastico abbraccio del pubblico del rock, mai costretti a giravolte o ad acidi (non nel senso lisergico del termine) proclami per mantenere il contatto con la platea nera. Rispetto ai Jungle Brothers evidenzieranno la capacità di risultare immediatamente seducenti in forza più che a dispetto di proposte di rara raffinatezza e a volte complessità. E dureranno anche di più: dieci tondi anni. Al contrario di Queen Latifah non si faranno distrarre da TV e cinema, benché Q-Tip (al secolo Jonathan Davis) esordisca sul grande schermo già nel ’93, in Poetic Justice di John Singleton.
“The Low End Theory” è il disco che non ti aspetti dopo il successone di un singolo come Can I Kick It?, propulso dal basso della Walk On The Wild Side di Lou Reed. Qui il basso (e anzi il contrabbasso) è quello di Ron Carter, storico collaboratore di Miles Davis, e il jazz non è più la spezia che insaporiva il disco prima ma uno degli ingredienti del piatto. Qui il jazz oltre che un suono è una filosofia ed è la prima volta che due musiche in apparenza distanti, ma con un comune fondamento nella pratica dell’improvvisazione, si confrontano e confondono. Con una naturalezza e uno swing che rendono straordinariamente piacevole l’incontro.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.26, estate 2007.
Nirvana – Nevermind (DGC)
La gestazione del secondo album dei Nirvana è lunga e travagliata. I lavori cominciano nell’aprile 1990, ben diciassette mesi prima che il disco raggiunga i negozi. Se dietro la batteria siede ancora il Pete Best del grunge Chad Channing, che troverà un rimpiazzo definitivo solo in settembre in Dave Grohl, dietro il mixer c’è già Butch Vig. Ancora sconosciuto al grande pubblico, costui è uno dei produttori più capaci dell’underground americano. Ove il pur bravo Jack Endino nel predecessore “Bleach” si era limitato, anche per la modestia estrema del budget a disposizione, a cercare di riprodurre così come si manifestava dal vivo il suono di un gruppo ancora molto devoto a Black Sabbath e Melvins, e non particolarmente generoso di melodie memorabili, Vig fa molto di più: cura il particolare, aggiunge contrasto, dà un contributo importante ad arrangiamenti più rifiniti. Cobain e Novoselic ne sono soddisfatti e il primo persuade la Geffen, che ha rilevato il gruppo dalla Sub Pop, a confermarlo. A registrazioni ultimate tuttavia il discografico Gary Gersh, ritenendo che difettino in dinamica e profondità, affida i nastri alle cure di Andy Wallace. Noto soprattutto per il suo lavoro con gli Slayer, Wallace smorza gli spigoli e incrementa la brillantezza. Cobain non perdonerà mai né Gersh né lui, sbagliando: questo intervento in extremis fu probabilmente fondamentale per fare raggiungere a “Nevermind” il magico, irripetibile equilibrio dell’album epocale.
Ripulito quanto basta per essere accettabile per le radio senza che ciò nulla gli sottragga in impatto, il secondo Nirvana centra in un mese il bersaglio che la Geffen si era proposta di raggiungere in un anno, la conquista del disco d’oro, e milione di copie dopo milione di copie procede a rivoluzionare l’industria discografica americana cancellando i confini fra underground e mainstream. Finisce così per diventare qualcosa di più grande della pur rilevantissima somma delle sue canzoni, quasi tutte della statura dei classici e più di tutte la prima, Smells Like Teen Spirit. Nella storia del rock, forse nessun altro brano ha singolarmente definito e rappresentato così mirabilmente un’era.
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.191, aprile 2014.
Red Hot Chili Peppers – Red Sugar Sex Magik (Warner Bros)
Fino alla pubblicazione di quest’album, il quinto e a quel momento nettamente il più cospicuo in termini di minutaggio, la relativa fama (siamo poco oltre il livello di culto esteso) di cui godono i Peppers risulta incomprensibile per chi non abbia avuto modo di assistere a uno dei loro fenomenali concerti, maratone di fisicità tanto spinta da essere quasi irreale in cui la funkadelia viene riesumata e aggiornata (con tecnica strumentale di prim’ordine) con massicce dosi di rap e una monellesca attitudine punk. Sessuale, più che sensuale, la loro musica. Animalesca, ma in una maniera gioiosa, non con l’attitudine torva di tanto altro metal o anche dell’hardcore, da cui il bassista Flea proviene essendo stato nei Fear. Ma tutto ciò dal vivo, visto che i lavori in studio hanno puntualmente fallito l’impresa di ricreare fra quattro mura l’energia che esplode sul palco. La EMI molla il colpo, la Warner subentra e al produttore Rick Rubin riesce ciò che nemmeno a George Clinton era riuscito. Lo aiuta naturalmente che le canzoni siano le migliori e più varie di sempre, per la prima volta persino delle ballate e sono quelle a lanciare il disco in orbita, numero 3 nella graduatoria USA nonostante abbia visto la luce nello stesso giorno incredibile che ci regalò “Nevermind” e “Badmotorfinger”.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.16, autunno 2005.
Soundgarden – Badmotorfinger (A&M)
Benché contenga alcuni degli articoli più celebri e celebrati del catalogo Soundgarden, su tutti l’urlante cavalcata postmetal (un incrocio fra il Dirigibile e i Killing Joke) di Jesus Christ Pose, “Badmotorfinger” è il primo album dei Soundgarden che ne stabilizza lo stile anziché espanderne ulteriormente gli orizzonti. Forse perché è il primo con Ben Shepherd e il gruppo vuole per l’occasione restare in ambiti conosciuti, forse perché è quello che dovrebbe (e lo farà, seppure più a fatica del previsto) fare entrare i Nostri nella serie A anche commerciale del rock. Fatto sta che soffia sui suoi solchi un vento di normalizzazione che impedisce di apprezzare appieno canzoni che pure, prese una per una, valgono parecchio. Da segnalare il trio di cover (Devo, Black Sabbath e Rolling Stones) sgranato su due differenti edizioni del singolo Outshined. Consigliabili non solo ai collezionisti.
Pubblicato per la prima volta in Grunge, Giunti, 1999.
Il 2002 si segnalava come un anno propizio come pochi per celebrare l’uomo di Freehold nato per correre. Lo si sarebbe potuto fare sul numero estivo di “Extra”, prendendo a spunto il trentennale dell’incisione del suo primo 33 giri, oppure su quello invernale se a data simbolo dell’inizio di una storia capace tuttora di esaltare si fosse voluta designare quella della pubblicazione (5 gennaio 1973) di “Greetings From Asbury Park”. A toglierci dall’imbarazzo ha provveduto qualche mese fa la notizia che un nuovo album del nostro uomo era in uscita a metà estate. È stato giusto attenderlo. Ed è stato magnifico scoprire che il ritorno in studio con la E Street Band a diciotto anni da “Born In The U.S.A.” ha saputo regalarci (già lo aveva fatto l’eccellente live newyorkese dello scorso anno, ma quello era più che altro una parata di bei ricordi) lo Springsteen che a un certo punto dubitammo che avremmo più ascoltato: l’ultimo romantico del rock’n’roll, l’ultimo custode autorizzato del suo Verbo. E l’ha fatto alla maniera di Bruce, uno la cui musica ha sempre vissuto più di evoluzioni che di rivoluzioni. “The Rising” si inserisce perfettamente nel suo canone e nel contempo lo aggiorna. La forza di Springsteen (cosa tanto più notevole per un tradizionalista come lui) è che non è mai rimasto fermo. La forza di Springsteen è che è stato capace di crescere e che con lui sono cresciuti quanti, ascoltandolo, l’hanno inteso. Non una faccenda che lo riguardi il complesso di Peter Pan che storicamente affligge una musica che si ostina a volere essere detta “giovane”.
My City Of Ruins
Sarà che mai si era ascoltato tanto Springsteen “ufficiale” come nel triennio 1998-2001: prima i quattro CD di “Tracks”, con sessantasei brani di cui cinquantasei mai licenziati in precedenza con i crismi della legalità (con l’appendice ancora di tre canzoni non presenti altrove incluse nel sunto in un solo compact del cofanetto); poi i due del “Live In New York City” e anche qui, fra la ventina di articoli in catalogo, un paio di preziosi inediti, freschi di conio stavolta, e alcuni cavalli di battaglia tanto trasfigurati da sembrare composizioni nuove. Fatto è che “The Ghost Of Tom Joad” pareva una faccenda di ieri l’altro e invece sette anni sono trascorsi dacché venne pubblicato, due in più di quelli che separarono “Tunnel Of Love”dall’accoppiata “Human Touch”/“Lucky Town” e dunque il periodo più lungo lasciato trascorrere dal nostro uomo fra un album e il suo successore. Che diamine! Un arco di tempo che, da solo, rappresenta quasi un quarto della sua carriera discografica. Lo stesso che gli bastò per arrivare dall’esordio “Greetings From Asbury Park” a “The River”, LP numero cinque e doppio per di più e vogliamo dire della querelle con Mike Appel che lo tenne fermo un anno e di due dischi “perduti”? Attesa infinita dunque, anche se non è sembrato, ma che è valso la pena consumare inseguendo giorni di gloria per poi scoprire che Bruce Springsteen si rifiuta ancora di vivere di nostalgie e resta un personaggio centrale per il rock e per l’America, con tanto da dire, oggi come vent’anni fa e con in più l’autorevolezza datagli da una vicenda biografica di straordinarie linearità e coerenza. Quando “The Rising” alla nostalgia avrebbe potuto facilmente arrendersi, visto che era rimpatriata di vecchi compagni, amici, quasi fratelli.
A uno sguardo superficiale parrebbe antipodico rispetto al predecessore, un altro universo almeno quanto “Born In The U.S.A.” rapportato a “Nebraska”. Solo che si scoprì, poi, che quei due album erano frutto della stessa ispirazione, il secondo per gran parte concepito insieme al primo e anche se non fosse stato i legami che li univano a una seconda lettura erano evidenti, al di là della diversissima forma: acustico e depresso l’uno, elettrico e perlopiù esuberante l’altro. Ma abbiamo da allora gustate Atlantic City elettrica e No Surrender e Born In The U.S.A. acustiche e una certa prossimità musicale, al di là di quella (ben più notevole) tematica, è emersa. Come atmosfere “The Ghost Of Tom Joad” e “The Rising” sono anche più lontani, il primo squisitamente folk (ove “Nebraska” era piuttosto rock’n’roll asciugato all’osso), il secondo un ritorno allo spumeggiante rock iniettato di latinità e di soul e ossessionato da Phil Spector di “Born To Run” (e ancora più indietro, fino a “The Wild, The Innocent & The E Street Shuffle”), temperato dall’amarezza con una speranza di redenzione di “Darkness On The Edge Of Town”. Chilometrici i testi di quello, fino a prevalere su spartiti che si mettono volutamente in secondo piano, innodici e scarni come forse mai in precedenza quelli di questo ove, alla maniera del blues, tocca alla musica gonfiare di significati parole semplici, piane. Entrambi però, ed è ciò che li rende due facce della medesima medaglia, sono disamine sul pessimo stato di salute del Sogno Americano. Nel 1995 Springsteen raccontava dell’umanità reietta che dal Messico preme sugli Stati Uniti, di povertà e disperazione oltre il sopportabile. Nel 2002 si aggira fra le strade della New York post-11 settembre cercando di trovare ancora, fra le rovine, una ragione per credere. “The Rising” non ha la presunzione di offrire risposte e nemmeno pone domande se non fra le righe. Constata per allusioni l’accaduto, descrive il senso di vuoto e di angoscia del day after e il solo eroismo che celebra è quello del quotidiano. Non fa per Springsteen la retorica patriottarda e quale fastidio dovette provare a vedere tanto mistificata Born In The U.S.A. Accadrà di nuovo, vano farsi illusioni, e basti vedere come è stata fraintesa l’invocazione “come on, rise up” nella drammatica My City Of Ruins cantata al “A Tribute To Heroes” mentre ancora le macerie delle Torri fumavano. Canzone per inciso scritta due anni prima, con in testa la suburbia del New Jersey distrutta dal tracollo delle industrie locali e ditemi voi se non è una tremenda ironia che le sue liriche si prestino perfettamente a descrivere Ground Zero e dintorni. Servirà forse a fare tornare il figlio di Freehold nelle grazie di quanti avevano appena finito di indignarsi per American Skin (41 Shots) o magari no, siccome costoro avranno probabilmente da ridire sul gruppo qawwali pakistano che inaspettatamente, incongruamente, sublimemente apre Worlds Apart e ne conserva fino alla fine, pur fra elettriche spiegate, il possesso. Il nemico portato in casa.
Siderale la distanza che separa il Bruce Springsteen odierno ─ nondimeno: medesimo il pudore ─ da quello che nel 1979 accettava di partecipare al raduno antinucleare “No Nukes” ma non eseguiva nell’occasione la furiosa Roulette, scritta sull’onda dell’emozione suscitata dalla tragedia sfiorata a Three Mile Island, registrata per l’album che sarebbe diventato “The River” ma esclusa dalla scaletta finale e riemersa solo anni dopo, come lato B di un singolo. Il suo schierarsi politicamente, in maniera non ideologica e del tutto a-partitica, sarà accelerato dal maldestro tentativo di sfruttare una popolarità ad apici senza confronti per il rock degli ’80 compiuto da Ronald Reagan nel corso della campagna presidenziale del 1984. Springsteen si divincolerà dall’interessato abbraccio e seguiranno imponenti donazioni a sindacati e associazioni benefiche e ambientaliste, il tour a sostegno di Amnesty International nel 1988 e più in generale un impegno continuo in parole e opere a favore dei lasciati indietro, degli stritolati dagli ingranaggi produttivi. Fino a “The Ghost Of Tom Joad”. Fino alla cronachistica American Skin, resoconto dell’omicidio andato impunito da parte della polizia della Big Apple di un immigrato africano, colpevole soltanto di avere infilato una mano in tasca alla ricerca del portafoglio quando gli erano stati chiesti i documenti. “Credevamo avesse una pistola”, si giustificheranno gli assassini dopo avergli cacciato in corpo quarantuno pallottole. Riconciliatosi con il suo essere un personaggio pubblico, il nostro uomo non ha avuto paura di esporsi alle rabbiose invettive e agli inviti al boicottaggio di settori estesi delle forze del cosiddetto ordine. Puoi chiamarti Ice-T o Bruce Springsteen, ma se negli Stati Uniti tocchi la questione della razza proveranno in ogni modo a fartene pentire.
Sono partito dall’oggi, e mi tocca ora naturalmente tornare indietro e raccontare una sfilza di ieri. Provo un certo imbarazzo a farlo. Un po’ perché già molto mi sono speso in passato per l’eroe di questa storia e in un paio di occasioni (nel 1995, quando collaborai a un numero monografico del bimestrale “Satisfaction”; nel 1998, quando curai un volume della collana “Compact Rock” della Giunti) in maniera parecchio estesa e che posso inventarmi di nuovo? Un po’ perché in tantissimi ne hanno scritto e uno in maniera tanto autorevole, e osservandolo da un punto di vista privilegiato, da rendere superflua qualsiasi trattazione successiva che non si limiti al semplice aggiornamento. Davvero: che dire che non sia già stato detto una-dieci-cento-mille volte? A chi può interessare, quando è poi questo un artista rispetto al quale da sempre le posizioni sono inusualmente nette: si è dei convertiti oppure no. Però ci penso su e mi viene in mente che i diciottenni di oggi erano appena nati quando uscì “Born In The U.S.A.”, che tanti di coloro che mi stanno leggendo andavano all’asilo o alle elementari al tempo di “The River” o di “Nebraska” e non è poi così sicuro che questa vicenda la conoscano. È a uso e consumo del giovin lettore che racconterò e commenterò allora, pur con la speranza di non annoiare il vecchio ed esperto. Ma non dà un infantile piacere risentire favole già note e vedersi confermati nelle proprie convinzioni?
Prosegue per altre 63.672 battute su Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.7, autunno 2002.Bruce Springsteen festeggia oggi il settantaduesimo compleanno.
Predestinati alla gloria: l’esordio dei Wolf Alice “My Love Is Cool” nel 2015 era un numero 2 UK e riceveva candidature sia ai Grammy Awards che al Mercury Prize, e due anni dopo “Visions Of A Life” non soltanto ne replicava la performance commerciale ma, anch’esso selezionato per il Mercury Prize, se lo aggiudicava. Lungamente atteso, il fresco di pubblicazione “Blue Weekend” in questo momento è l’album più venduto in Gran Bretagna. Non male. Soprattutto perché l’ancora giovane quartetto londinese ─ democrazia in cui tutti offrono il loro contributo a livello compositivo ma da cui, prima inter pares, si staglia la figura di Ellie Roswell, voce eterea che sa farsi ruggente e carisma indiscutibile ─ pare disporre di ampi margini di miglioramento sia artistici che commerciali. Prossimo mercato da conquistare il più importante, gli USA, dove è matura l’uscita dal recinto alternative.
Sono figli esemplari degli anni ’10, questa ragazza e i suoi sodali, di un tempo in cui qualsivoglia scibile è a portata di clic e un gruppo può farsi influenzare da epoche e scene musicalmente distantissime fra loro. Paradigmatica a tal riguardo la sequenza composta dalle tracce dalla quarta all’ottava di un lavoro che ne offre undici essendo però le canzoni solo dieci, con una The Beach pronta per gli stadi divisa in due parti ad aprire e chiudere: all’esplosivo crossover con tanto di rap di Smile vanno dietro una Safe From The Hearbreak che ipotizza una dimensione in cui a incidere “Rumours” sono stati i Fairport Convention, i Cocteau Twins inusualmente pop di How Can I Make It OK? e il petulante quanto travolgente assalto punk di Play The Greatest Hits. Sulla carta sembrerebbe non avere alcun senso, all’ascolto sì.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.433, luglio/agosto 2021.
Probabilmente mai copertina, prima e dopo, ha rappresentato lo spirito di un gruppo e l’essenza di un sound come quella del primo e omonimo Black Sabbath. In piedi, in mezzo a una palude vestita dei colori dell’autunno e immersa in una luce di sangue, una misteriosa signora in nero. Alle sue spalle una casa che nel contesto pare non meno sinistra. Appollaiato su un mozzicone d’albero morto un corvo osserva la scena. È una foto, ma la lieve sovraesposizione la fa parere un quadro. Avrebbe potuto immaginarselo Edgar Allan Poe fra i fumi dell’oppio. Avrebbe potuto dipingerlo Dante Gabriel Rossetti per illustrare dei versi della sorella Christina. E Roger Corman o Mario Bava (da un cui film del 1963, I tre volti della paura, distribuito nel Regno Unito come Black Sabbath il quartetto di Birmingham aveva preso il nome abbandonando per strada una prima, anonima ─ Earth ─ ragione sociale), non avrebbero potuto fare di meglio come prima inquadratura di uno dei loro film “de paura”. Che nelle colonne sonore un tema conduttore della potenza e della suggestione di Black Sabbath, la canzone che oltre a ─ ahem ─ battezzarlo apre l’album d’esordio datato febbraio 1970 del quartetto formato dal cantante Ozzy Osbourne, dal chitarrista Tony Iommi, dal bassista Geezeer Butler e dal batterista Bill Ward non lo hanno mai dispiegato: tuoni; uno scrosciare di pioggia; campane; un riff si leva lento e squassante, quietamente brutale e così possono suonare giusto le porte dell’inferno che si spalancano. Non penso di esagerare se affermo che con una confezione meno indovinata il debutto del complesso di Birmingham non si sarebbe rivelato altrettanto epocale. Eppure: una felice scelta di un qualche oscuro discografico, come svelerà già in una delle prime interviste Butler ammettendo che il gruppo si era limitato ad approvarla. Proprio da lì, almeno quanto dal riff di cui sopra e dalle atmosfere plumbee che permeano il disco, nasceva la leggenda dei Black Sabbath satanisti. Giustappunto poco più che una leggenda, operazione di marketing da inquadrare in quello che era il programma del quartetto, ossia forgiare una musica dalle apparenze malvagie capace di indurre in chi ascolta il medesimo, artificiale senso di paura causato da un film dell’orrore. È tutta rappresentazione ─ rientravano nel piano il vestirsi rigorosamente in nero e i crocefissi portati al collo e a lungo messi in bella mostra ─ ma a scorrere il repertorio storico del gruppo i peana al Diavolo risultano tutt’altro che maggioritari.
Anche di “Paranoid”, registrato in una pausa del “never ending tour” allora in corso nel giugno di quello stesso incredibile 1970 ai Regent Sound in Denmark Street, Londra, e nei negozi già in settembre si potrebbe dire che vanti una copertina indimenticabile, ma al contrario. Tanto è suggestiva quella del predecessore quanto risulta grottesca questa, con un tizio che salta fuori da un bosco immerso nel buio brandendo una sciabola lampantemente di plastica, un casco da motorino sulla testa, uno scombinato abbigliamento che vorrebbe essere da guerriero o supereroe ed è da deficiente. Dando a Cesare quel che è di Cesare: questa la idearono i nostri tamarri Fab Four, quando si pensava che l’album si sarebbe chiamato, come la prima canzone, War Pigs. La casa discografica statunitense (Warner Bros) poneva però il veto, quella britannica (Vertigo) lo appoggiava e così era dal secondo pezzo in scaletta che il 33 giri prendeva il titolo: un capolavoro per così dire involontario, buttato giù in venti minuti per fare numero e paradossalmente assurto a brano simbolo del quartetto. Paradossalmente perché, se con il procedere da bulldozer ci siamo, dura assai meno (2’48”) di qualunque altra canzone significativa dei Black Sabbath e non vanta né l’articolazione né gli scarti dinamici che caratterizzano invariabilmente le altre. Butler nemmeno l’avrebbe voluta sul disco, parendogli troppo zeppelliniana, una Communication Breakdown minore. Per la seconda volta nell’ancora breve saga del Sabba il caso giocava allora un ruolo decisivo nell’ascesa alla fama e nella costruzione del Mito. “Black Sabbath” resterà sempre più importante, semplicemente perché fu il primo, ma è questa la pietra miliare che Osbourne, Iommi, Butler e Ward hanno lasciato sulla Route 666 del rock. Dall’invenzione dello slowcore inscenata in partenza da una War Pigs che poi macina implacabile a quella Psychotic Reaction (Count Five; un classico del garage-punk) in versione nibelunga che è Fairies Wear Boots, passando per gli schizzi di Spagna scagliati in orbite extraterrestri di Planet Caravan, il viaggio dalle catacombe al Valhalla di Iron Man, il fosco caos organizzato di Electric Funeral e il ronzante assalto di Rat Salad. Diamante fra i diamanti di abbacinante luce nera Hand Of Doom, più canzoni in una e dentro un assolo da fare studiare a quanti dicono Tony Iommi un chitarrista mediocre. Può darsi. Però efficace ed espressivo mille volte più degli Steve Vai e dei Malmsteen e bisognerebbe allora mettersi d’accordo su cosa voglia dire mediocrità.
Per celebrare il cinquantennale di “Paranoid” la californiana Rhino ha riconfezionato in un lussuosissimo box in vinile (il vero bonus è il libro ora in formato 30×30 e con copertina rigida a corredo) la “Super Deluxe” in quadruplo CD del 2016. Invariate le scalette, i dischi adesso sono cinque, il primo dei quali riproduce pari pari la stampa originale americana, peraltro identica a quella britannica e immagino non ci sia o quasi lettore che già non la possegga. Di maggiore interesse per l’audiofilo è un secondo 33 giri che, discutibilmente ma intrigantemente, offre remixata in stereo la versione quadrifonica del 1974. Laddove per i cultori della band a consigliare un esborso accettabile (siamo un po’ sotto i cento euro) saranno le restanti sei facciate, testimonianza di due concerti tenutisi uno a Montreux, l’altro a Brussels.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.424, ottobre 2020. A oggi sono trascorsi cinquantun anni dalla pubblicazione di “Paranoid”.
Non è che frequentare la BRIT School For Performing Arts & Technology ti porterà per forza a seguire le orme di chi come Adele, Amy Winehouse, Katie Melua e King Krule passato da quelle aule ha poi venduto dischi a decine di milioni. Ciò che l’istituzione londinese ti garantisce è che ne uscirai con una preparazione nel settore scelto di primissimo ordine. A te farla fruttare. I giovanissimi black midi ─ a stento totalizzavano ottant’anni in quattro quando nel 2019 debuttavano con lo strepitoso “Schlagenheim” ─ lo stanno facendo eccome. Modesti finora i riscontri commerciali, quasi insignificanti a fronte di recensioni che pure a questo giro spargono stelle e superlativi, e nondimeno si può affermarlo senza remore: se anche non vedranno mai le zone alte delle classifiche oggi come oggi non c’è in circolazione gruppo rock più entusiasmante.
Severi con se stessi i ragazzi, che nel frattempo hanno quasi perso per strada causa stress uno dei due chitarristi, Matt Kwasniewski-Kelvin, e hanno rimediato in parte facendosi dare una mano in studio dal tastierista e dal sassofonista che li avevano affiancati in tour: del predecessore, frutto di un approccio improvvisativo, si dicono annoiati. In sala di incisione sono entrati con un obiettivo: “stavolta combiniamo qualcosa di buono sul serio”. Rispetto a “Schlagenheim” più che superiore “Cavalcade” è diverso: più strutturato e vario (dal resto del programma si staccano la ballata elettroacustica pregna di jazz Marlene Dietrich e l’oscura epopea post-folk Ascending Forth), più progressivo nell’accezione nobile del termine. Parte dai King Crimson e dai VDGG per arrivare via Primus a Slint e June Of 44. O viceversa. Ma nessuno ha mai suonato esattamente così.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.433, luglio/agosto 2021.
Classe 1941, Michael Chapman pubblica tuttora dischi con cadenze da giovincello, fa concerti e alla fine di ogni tour torna nel remoto villaggio del Northumbria dove vive dacché i proventi dell’album dopo questo, “Fully Qualified Survivor”, gli permisero di acquistarci una cascina. A lungo patrimonio di pochi, gli anni ’10 del nuovo secolo lo hanno visto intervistato a destra e a manca e fatto oggetto di un documentario, lui che già aveva avuto la soddisfazione di scoprire che artisti di altre generazioni (più giovani, tipo Thurston Moore, o parecchio più giovani, come Devendra Banhart) lo considerano un maestro. Può volgersi all’indietro, questo superbo chitarrista usualmente catalogato alla voce “folk progressivo” ma che ha suonato di tutto, fino all’improv più radicale, e guardare con orgoglio al percorso fatto. Prima tappa (datato 1969, griffato Harvest) questo stupendo “Rainmaker”. Assemblato con il cruciale contributo di altri musicisti stellari (per dire: al basso si alternavano Rick Kemp e Danny Thompson, in un paio di brani dietro la batteria sedeva Aynsley Dunbar) il disco parla la lingua di un folk elettrico ed elettrizzante, pregno di blues, disposto a concedersi al country. L’avessero fatta i Led Zeppelin, la traccia che gli dà il titolo la conoscerebbe chiunque.
Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.
Pochi ma ruggenti gli anni vissuti dai Verve (no, le rimpatriate non contano): appena sei fra i primi singoli per i quali la stampa britannica immediatamente impazziva, ma senza convincere più di tanto il pubblico della loro bontà, e lo scioglimento, all’indomani di un tour americano volto a promuovere oltre Atlantico proprio “Urban Hymns”, loro terzo album, che in Gran Bretagna era andato al primo posto in classifica e aveva inoltre fruttato tre top 10 (un numero 2, un uno, un 7) nella graduatoria dei singoli. Lacerata dai contrasti fra il cantante Richard Ashcroft e il chitarrista Nick McCabe, la compagine del Lancashire si congedava all’apice della sua parabola sia artistica che commerciale: il momento migliore per salutare, ma ditelo alla Virgin, che si perdeva dei campioni di vendite in Europa nel preciso istante in cui stavano per divenire campioni di vendite ovunque. Resta un catalogo smilzo ma entrato in percentuale rilevante nella categoria dei sempreverdi, capace di coniugare alla perfezione nei suoi episodi più classici – The Drugs Don’t Work, una Bitter Sweet Symphony adattata su The Last Time dei Rolling Stones – gusto per la melodia insidiosa e attitudine psichedelica.
Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019. Richard Ashcroft festeggia oggi il cinquantesimo compleanno.
A vent’anni la vita è un quaderno pieno di pagine bianche da riempire di sogni e progetti. Con i sessanta incombenti la copertina è sgualcita, il dorso consumato, spazio per scrivere non ne è rimasto molto, né tempo per farlo. Quanti fogli hai strappato, quanti scopri affollati di scarabocchi incomprensibili, chissà se hai infine deciso cosa sia meno peggio fra un rimorso e un rimpianto. Una certezza: You Can’t Go Back, come recita il titolo del primo brano del primo album che gli scozzesi Del Amitri, eroi locali prima di farsi star globali (sei milioni di dischi venduti in giro per il mondo e pare un miracolo pensando a band affini che non hanno avuto un centesimo di un tale successo), consegnano alle stampe da diciannove anni in qua. Si scioglievano poco dopo avere pubblicato lo spiazzante, pieno di synth e batterie elettroniche, “Can You Do Me Good?”, che il pubblico non capiva né gradiva e allora ciao. Nostalgia canaglia: tornavano assieme nel 2013 e due lunghi tour datati 2014 e 2018 certificavano come non fossero stati affatto dimenticati. Tempo di rinfrescare il repertorio.
Vero che pure in gioventù erano opportunità mancate e fallimenti l’argomento preferito di Justin Currie, ma un sentore agro di vissuto sale da una I’m So Scared in cui canta “sono così spaventato dall’idea di lasciarti indietro/ogni giorno cerco di restar vivo/per non farti provare la tristezza di una sedia vuota”. È un disco inaspettatamente splendido che ripropone i Del Amitri più classici. “Suoniamo folk con attitudine rock”, dice Currie, e qui lo fanno al meglio. La ballata Close Your Eyes And Think Of England è una delle loro più belle di sempre, una delle canzoni più struggenti che vi sarà dato di ascoltare quest’anno.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.433, luglio/agosto 2021.
“In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro.” (Alberto Arbasino)