L’ultima collezione di inediti per il gruppo che esordiva nel 1978 con “Just Another Band From East L.A.” (salvo di fatto debuttare di nuovo cinque anni dopo, non più combo folk ma gruppo rock, con il mini “…And A Time To Dance”) resta “Gates Of Gold”, AD 2015. Non gli dava un seguito nel 2019 “Llego Navidad”, raccolta di brani natalizi uno solo dei quali scritto dalla coppia Hidalgo/Pérez. Farina al solito saporita del loro sacco anche qui un’unica traccia, la quasi omonima Native Son, bluesone un po’ Ben E. King e un po’ di più B.B. King. Le altre tredici sono cover e dunque nemmeno questo disco in senso stretto può essere detto il successore di “Gates Of Gold”. O no? In fondo nell’88 “La pistola y el corazón” era composto in larghissima parte da pezzi della tradizione chicana. Ed è del 2002 il delizioso “Los Lobos Goes Disney”. Decida il lettore, il cultore.
Il primo sappia che naturalmente altri sono gli album da avere dei Losangeleni, qui impegnati in un omaggio alla città che è forse l’unico luogo al mondo in cui avrebbe potuto prender forma un progetto siffatto. Il secondo già avrà apprezzato e sviscerato una scaletta che si muove fra soul (l’accorata Misery che fu di Barry Strong e la struggentemente, rabbiosamente epica The World Is A Ghetto che fu dei War) e psichedelia (For What It’s Worth, Buffalo Springfield), rock’n’roll (Flat Top Joint, Blasters) e altri scorci da American Graffiti (Farmer John di Don & Dewey, Where Lovers Go dei Jaguars), rumba (Los Chocos suaves, Lalo Guerrero y Sus Cincos) e latin jazz (Dichoso, Willie Bobo). Che conferma sfrenatamente errebì i Thee Midniters di Love Special Delivery e inietta di blues e doo wop i Beach Boys di Sail On, Sailor.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.434, settembre 2021.
Detto con il rispetto dovuto a colui che da molti è ritenuto il Vate della critica rock statunitense e di conseguenza mondiale e ne è senz’altro (va per i settantanove) il Decano: certo che ne ha scritte di fesserie Robert Christgau. In special modo riguardo a Lou Reed, del quale a modesto parere del Vostro affezionato non ha mai capito (perdonerà chi mi sta leggendo il francesismo e, anzi, il calabresismo) una beneamata ceppa. Ma proprio niente, a un imbarazzante livello che a dare i voti a lui come da sempre lui li dà agli altri per non infierire troppo toccherebbe rifugiarsi in un giudizio: “non classificabile”. Lo stesso che lui rifilava a “Magic And Loss”, liquidato come uno dei peggiori album dell’artista newyorkese. Addirittura indegno di un riascolto. D’altra parte: stiamo parlando di uno che gratifica con il massimo dei voti, “A”, all’americana, un lavoro sì valido come “The Blue Mask” ma pure il suo mediocre successore “Legendary Hearts” nonché e incredibilmente un LP che con il senno del poi non è che una robina pop nulla più che gradevole quale “New Sensations” (andando a memoria mi pare che al tempo anche io ne scrissi bene; solo che, ecco, non era ancora uscito “New York” e dunque non era stato necessario rimettere in prospettiva non soltanto gli interi anni ’80 di Lou Reed ma la sua carriera solistica tutta fino a quel punto). Che considera “Transformer” inferiore all’omonimo debutto in proprio dell’allora fresco ex-Velvet Underground e massacra (C) “il” capolavoro del nostro uomo, “Berlin”. Imperdonabile. Lungo preambolo per suggerire al lettore con una buona padronanza dell’inglese di recuperare in Rete l’invece impeccabile recensione che firmava all’epoca per “Rolling Stone” David Fricke. Meglio ancora, sul blog “musicaficionado”, un articolo stupendo ed estremamente approfondito di un anonimo sconosciuto. Lì tutto quello che c’è da sapere su “Magic And Loss” che, avendo a disposizione forse un quinto di quello spazio, io mai avrei potuto comprimere in una pagina. Onore al merito pure a Gino Castaldo, che sulle pagine di “La Repubblica” si confrontava in tempo reale, articolo datato 14 gennaio 1992, il giorno stesso dell’uscita del disco, con “Magic And Loss” con stile e acutezza, annotando che “ai canoni della cultura rock, quest’album sta come una specie di ‘Antologia di Spoon River’, dove a parlare (quasi ogni canzone è cantata in prima persona da un diverso personaggio) non sono dei veri e propri fantasmi, quanto piuttosto dei moribondi, degli eroi sconfitti, delle persone annientate, rimpicciolite da tragiche vicende personali. Ma l’effetto è analogo”. Il che non è completamente esatto e però rende assai bene. Di quanta importanza desse l’autore all’aspetto testuale offrono solare evidenza non solamente la voce, sistemata in primo piano nel missaggio e dalla dizione intelligibile come non mai, ma il fatto che chiese e ottenne che tanto nel voluminoso libretto del CD che negli inserti allegati alla versione in vinile le liriche venissero riportate non solo in inglese ma anche tradotte in tedesco, francese, spagnolo e italiano.
Altalenanti gli anni ’80 di Lou Reed. Cominciavano bene con un disco forse troppo arrangiato ma secondo me sottovalutatissimo come “Growing Up” e proseguivano meravigliosamente con il viceversa asciutto, e velvetiano assai, “The Blue Mask” cui andava dietro un “Legendary Hearts” di impostazione analoga ma dalla scrittura sottotono. Seguivano un “Live In Italy” pletorico e testimonianza di un tour che non poteva che lasciare sgomenti gli astanti (ero presente a una tappa; il gruppo era formidabile ma il leader in condizioni fisiche talmente precarie che tornai a casa con l’angosciosa convinzione di avere assistito a uno dei suoi ultimi concerti) e i leggerotti “New Sensations” (comunque ampiamente salvabile) e “Mistrial” (anche no). Il che contribuiva a far salutare “New York” (recentemente ripubblicato in una straordinaria riedizione Super Deluxe di cui ci siamo occupati sul numero dello scorso ottobre) come la più clamorosa forse (o quello, o il coevo “Freedom” di Neil Young) delle resurrezioni nella Storia del rock. E siccome appena quindici mesi dopo Lou Reed sorprendeva ulteriormente rinnovando il sodalizio con John Cale con la struggente messa da requiem laica per Andy Warhol di “Songs For Drella” altissime erano le aspettative per “Magic And Loss”. Pienamente soddisfatte da un’altra opera estremamente sobria. Quietamente monumentale e, di nuovo, di monumento funebre trattavasi, ma contemporaneamente di un inno ─ come da titolo ─ alla magia della vita.
Sono tre i cari estinti celebrati, due sconosciuti (Rotten Rita, stellina del giro della Factory, e Lincoln Swados, compagno di stanza di Reed alla Syracuse University) e uno strafamoso (Doc Pomus, autore con Mort Shuman di innumerevoli successi pop, errebì e rock’n’roll), in un disco che va a collocarsi a un perfetto incrocio fra i due predecessori. Usando gli arnesi del rock o all’incirca ─ fenomenale chitarrista Mike Rathke (che co-firma ben cinque tracce su quattordici) dà un inestimabile contributo ai momenti più di atmosfera con uno strumento synth della Casio; Rob Wasserman suona con gusto perlopiù jazz un basso elettrico a sei corde via di mezzo fra un fretless e un contrabbasso; Michael Blair approccia batteria e percussioni a volte così in punta di bacchette o di mani da perdersi quasi sullo sfondo ─ ma dispiegando soltanto occasionalmente un suono pienamente rock. Accade giusto in una What’s Good dal groove quasi funk, nella tirata e sferzante Warrior King, in una densa, cupa e distorta Gassed And Stoked e nella scorticata e frenetica Power And Glory, Part II. Il maggioritario resto parla la lingua piana e insieme mossa di un’ideale neo-camerismo (per dire: pure in una Cremation che è una piccola Sweet Jane) mai cameristico nel senso classico del termine e con risvolti folk, blues, jazz. Benché non fosse mai stato ripubblicato in vinile dall’epoca della prima uscita, “Magic And Loss” non era mai salito di prezzo. Questa riedizione è benvenuta e preziosa perché distribuisce su tre facciate con gli ovvi benefici che ne conseguono i 58’27” in origine stipati su due. Tiratura limitata però a sole 7.000 copie e gli interessati dunque si affrettino.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.429, marzo 2021. Lou Reed ci lasciava il 27 ottobre 2013, settantunenne.
Dopo una morte che lo coglieva per una tragica fatalità il 21 aprile 2016 e risultava duplicemente intempestiva (non aveva che cinquantasette anni e gli ultimi nove erano stati assai sottotono rispetto a una discografia in precedenza con pochi inciampi e molti capolavori), ci si attendeva con timore più che eccitazione un diluvio di uscite postume dell’uomo nato Prince Rogers Nelson. Uno che come Jimi Hendrix in sala di incisione letteralmente viveva, come niente completava un brano ogni giorno o notte che fosse e altri ne abbozzava e per farlo aveva avuto a disposizione tre decenni in più. Finora ci era però andata di lusso: se dei demo raccolti nel 2018 in “Piano And A Microphone 1983” si sarebbe potuto fare a meno, risultava un’aggiunta preziosa al catalogo nel 2019 la collezione di versioni “Originals” di canzoni scritte per altri e lasciavano a bocca aperta non solo per la quantità mostruosa di inediti recuperati ma per l’eccezionale qualità complessiva le riedizioni superespanse di “1999” e “Sign O’ The Times” (2019 e ’20, cinque e otto CD).
Ci era andata di lusso. Finora. Prince registrava “Welcome 2 America” nel 2010 e poi lo accantonava. Quasi nessuno dei dodici brani è stato mai suonato dal vivo, due ricevevano un minimo di esposizione su radio e TV ma solo i collezionisti più accaniti ne serbavano memoria, altri due finivano (rielaborati) in “HITnRUN Phase Two”. Tutto qui e ci sarà stata una ragione, no? L’unico recupero di cui essere grati è Hot Summer, incrocio Cars/B-52’s tanto fuori tempo massimo quanto irresistibile. Non male una traccia omonima che apre alla Gil Scott-Heron, decenti l’electro-funk Running Game e una petulante, con inserto rap, Same Page, Different Book. Il resto è minutaglia.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.434, settembre 2021.
Bellissimi lineamenti Wanda Jackson, ancora oggi che l’età è di quelle che, avendo a che fare con una piacente signora, non si svelano più, e sotto la gonna due palle grosse così. Immaginate… Se Jerry Lee Lewis fosse stato un chitarrista. Se Elvis fosse stato tenebroso come Roy Orbison e punk come Eddie Cochran. Se Gene Vincent fosse stato uno del Johnny Burnette Trio. Se tutti costoro messi insieme fossero nati donna, ebbene, si sarebbero chiamati Wanda Jackson: la Queen Of Rockabilly, la Fujiyama Mama che per prima fece impazzire per il rock’n’roll – pensate un po’ – i giapponesi, per sette settimane consecutive in ginocchio davanti a lei durante un tour che è poco dire epocale, AD 1957. Nel decennio seguente i tedeschi, se possibile, la adoreranno ancora di più e con questo non si vuole adombrare che non sia stata profetessa in patria, tutt’altro. Fra alti e qualche basso, e soprattutto negli anni dal 1956 al 1963 coperti dalla travolgente e stipatissima (trentacinque brani, ottanta minuti) raccolta su Bear Family “Wanda Rocks”, la popolarità di Wanda fu grande. Né verrà dimenticata.
Nata in Oklahoma ma cresciuta in California, ottima chitarrista e cantante dalla voce sofferta e singolarmente matura per l’età, ma che nondimeno conserva un tono sbarazzino, Wanda LaVonne Jackson – giovanissima – ha un suo programma radio alla KLPR di Bakersfield. Capita di ascoltarla ad Hank Thompson, valente artista country sulla cresta dell’onda in quel momento, che subito offre alla girl un posto nei suoi Brazos Valley Boys. È il 1953. L’anno dopo la Capitol respinge un demo non perché non sia convinta delle doti della ragazza ma soltanto perché è ancora minorenne. La catturerà allo scoccare della maggiore età e nel frattempo è la Decca, che non si pone problemi al riguardo, a contare i dollaroni che quell’estate frutta il duetto con Bill Gray You Can’t Have My Love. Terminata la scuola da quella brava ragazza che è, a dispetto degli ammiccamenti e della grinta di performance infuocate, dall’11 ottobre 1955 sarà fra gli ospiti dell’“Elvis Presley Jamboree” e nulla potrà più fermarla.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.19, autunno 2005. La Regina del Rockabilly compie oggi ottantaquattro anni.
Davvero: non si sa se essere più furiosi con David Crosby per i decenni in cui si buttò via abusando di alcool, eroina, cocaina e quant’altro (ineffabilmente, oggi che in California è legale commercializza con il suo nome una marijuana che gli intenditori considerano fra le migliori sulla piazza) o essere più felici, per lui e per noi, che incredibilmente sia riuscito a sopravvivere a quegli anni folli e ai successivi e gravissimi problemi di salute che l’hanno afflitto come strascico degli stravizi. Che, ancora più incredibilmente, stia vivendo da un decennio in qua (ma prodromi di rinascita si erano manifestati già all’incrocio fra il secolo vecchio e l’attuale con il progetto CPR) una luminosissima… quarta giovinezza.
Per il suo ottantesimo compleanno il vecchio Croz si è regalato, con qualche settimana di anticipo, un album che è sorta di gemello (solo, più conciso: se i brani in scaletta in entrambi sono dieci quello superava i cinquanta minuti, questo non arriva a trentotto) del precedente (2017) “Sky Trails”. Per dire: anche qui il programma comprende una cover dell’amica di sempre Joni Mitchell (tocca stavolta a una pianistica For Free, che ha pure l’onore di intitolare il disco). Anche qui ci sono brani di impronta Steely Dan e curiosamente lo è di più Ships In The Night che non Rodriguez For A Night, cui Donald Fagen ha offerto il proprio apporto compositivo. E il resto sono meraviglie da un Laurel Canyon dell’anima: su tutte una I Think che potrebbe giungerci dai primi due LP in trio con Crosby e Nash e una Shot At Me che sarebbe potuta stare su “If I Could Only Remember My Name”. Addirittura. L’unico cruccio è che il tempo inevitabilmente, inesorabilmente scorre.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.434, settembre 2021.
È in edicola da alcuni giorni il numero di ottobre di “Audio Review”. Miei contributi: recensioni dei nuovi album di Dot Allison, Damon & Naomi, Drug Store Romeos, Liars, LUMP, James McMurtry, Laura Mvula, Brian Setzer, Suuns, Torres, Tropical Fuck Storm, Umbrellas e Wallflowers e delle ristampe espanse di “Rings Around The World” dei Super Furry Animals e di “Buena Vista Social Club”. E in più: una pagina intera dedicata a “The Shape Of Jazz To Come” di Ornette Coleman (e a come ci arrivò). E ancora: un terzo di pagina per quello che fu l’omonimo esordio di Ry Cooder e resta forse il suo album più sottovalutato.
Sfogliando l’ultimo numero di “Blow Up” apprendo con grande ritardo e dispiacere che lo scorso 13 agosto ci ha lasciato, oltretutto alquanto prematuramente, un’autrice e interprete della quale mi capitò spesso di scrivere e sono difatti ben cinque le recensioni che posso recuperare dai miei archivi. Non giungo ad annoverare Nanci Griffith fra le artiste che mi hanno cambiato la vita ma per certo mi ha donato ore piacevoli, emozioni non da poco.
Lone Star State Of Mind (MCA, 1987)
Da sempre artista più di culto che di massa, apprezzatissima da colleghi e colleghe cui ha regalato più successi di quanti non ne abbia avuti lei in prima persona (uno per tutti: Listen To The Radio, portato in classifica da Kathy Mattea), Nanci Griffith si muove nell’ambito di un country con poco a che vedere con gli stereotipi nashvilliani, senza un eccesso negli arrangiamenti, più prossimo a Steve Earle o a Lyle Lovett che a Garth Brooks, memore della lezione di Gram Parsons, che si è abbeverato e tuttora si abbevera alle fonti di Bob Dylan e John Prine e ha aperto la strada a interpreti moderni quali Wilco e 16 Horsepower. Fra i diversi articoli di livello di un catalogo senza cadute, abbiamo scelto quello che fu il primo di quattro LP per la MCA. Disponibile dal 2003, oltre che singolarmente, in un economico doppio, “The Complete MCA Studio Recordings”.
Pubblicato per la prima volta su “Extra” n.19, autunno 2005.
The Complete MCA Studio Recordings (MCA Nashville, 2003)
Festeggia bene i suoi cinquant’anni benissimo portati Nanci Griffith, con un doppio CD che a parte un live raduna tutto quanto pubblicò, in quattro album, per la MCA fra il 1987 e il 1991, con la gradita aggiunta di tre rarità fra cui una brillante Wooden Heart tratta dal tributo a Presley (“The Last Temptation Of Elvis”) organizzato dal “New Musical Express”. Artista più “di culto” che di successo vero, la Griffith, e difatti dopo l’esperienza major, cui giungeva dopo un poker di LP per piccole quando non minuscole case specializzate, tornerà in alveo indipendente dove tuttora naviga: nondimeno apprezzatissima, oltre che dallo zoccolo duro del fandom, da colleghi e colleghe che spesso e volentieri hanno pescato nel suo repertorio talvolta tramutandolo in oro (ci pensava ad esempio Kathy Mattea a portare in classifica Listen To The Radio), o di cui ha a sua volta ripreso (l’interprete vale non meno dell’autrice, cioè parecchio) qualche brano. Ci si imbatte in nomi importanti scorrendo i crediti di “The Complete MCA Studio Recordings”: Phil Everly, Billy Joe Walker, Bernie Leadon, Albert Lee, Jerry Donahue, Tanita Tikaram.
L’ambito è quello di un country che a dispetto della ragione sociale dell’etichetta che riedita queste quarantasei canzoni ha in realtà poco a che vedere con gli stereotipi nashvilliani. Sobrio negli arrangiamenti, devoto a Gram Parsons come a John Prine, prossimo a Steve Earle e Lyle Lovett per citare campioni di una generazione successiva, sa porgersi con una grazia che non ne depotenzia l’intensità.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.238, settembre 2003.
Winter Marquee (Rounder, 2002)
Racconta la Griffith nel libretto di questo live (non il primo in una carriera del resto ormai venticinquennale) di avere imparato a suonare la chitarra da bambina guardando un programma in TV. La prima canzone che apprese? La sigla della trasmissione, un pezzo di quell’irrisolto e tragico Bob Dylan + Che Guevara che fu Phil Ochs, What’s That I Hear. Incredibile, ma vero, è che non ne avesse mai inciso una versione finora, e dire che della sua folta discografia fanno parte due album tutti di materiali altrui. Si trattava allora di pagare un debito e si cominciò a registrare i concerti del tour della scorsa primavera giusto per mettere su nastro quella canzone lì. Avrete inteso come è andata a finire: un CD discretamente pieno (quattordici brani e quasi un’ora di durata; deplorevole però che la versione in DVD contenga quattro canzoni in più, una delle quali inedita) che può essere un’ottima introduzione, con il suo sapiente alternare cover, classici conclamati e brani ingiustamente poco considerati oppure nuovi, a questa signora del country meno appiattito sui suoi stereotipi.
What’s That I Hear, di cui vengono esaltate le qualità melodiche, è il penultimo titolo in scaletta e precede il caracollante passo di White Freight Liner dell’amatissimo Townes Van Zandt. Le altre tre cover presenti sono una languida e calorosa Speed Of The Sound Of Loneliness di John Prine, una Boots Of Spanish Leather di Bob Dylan di sommessa epicità e la sognante Good Night, New York di Julie Gold (Emmylou Harris vi è ospite). Il resto sono originali di spigliata cantabilità (più di tutti Listen To The Radio) e sentimento ed eleganza sommi. Un disco delizioso.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.512, 3 dicembre 2002.
Hearts In Mind (New Door/Universal, 2004)
Se dopo essere sembrata per una vita una ragazzina Nanci Griffith sulla copertina di “Hearts In Mind” comincia per la prima volta a dimostrare gli anni che ha, e che non sono pochi (essendo io un gentiluomo e lei una signora non vi dirò quanti; solo che il primo LP risale al 1978), l’album con cui torna in area major dopo avere trovato ospitalità alla Rounder per il precedente “Winter Marquee” non evidenzia viceversa ruga alcuna: maturo come ha da essere il lavoro di chi fa dischi da un quarto di secolo, però con una vivacità da esordiente.
In Italia la Griffith è poco conosciuta, un prezioso segreto per quanti frequentano quel cantautorato che può essere iscritto in area country ma del country nashvilliano, per noi indigeribile quanto di enorme successo là, rigetta stereotipi e orpelli. Un po’ diversamente vanno le cose negli Stati Uniti, se è vero che, fra due soggiorni in ambito indipendente, per tre lustri filati è stata domiciliata presso due diverse multinazionali e ora ritrova casa presso una terza. “Hearts In Mind” ha le carte in regola per propiziarne il rilancio, generoso com’è di brani immediatamente memorabili e da subito, dalla ballatona Simple Life, che persino sulle radio più conservatrici (che Nancy l’hanno in uggia anche per certe sue prese di posizione) potrebbe trovare frequenti passaggi. Il che non toglie che delle tredici canzoni in programma sia quella cui si potrebbe rinunciare senza grandi rimpianti, mentre al contrario spiacerebbe davvero fare a meno di una Angels di fragranze ispaniche, di una Heart Of Indochine che ricorda Norah Jones come di una Beautiful che rimanda all’altra Jones, Rickie Lee, di una scintillante e gigiona I Love This Town o del tex-mex Last Train Home. Ad esempio.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.252, dicembre 2004.
Ruby’s Torch (Rounder, 2006)
Fra poco trentennale la carriera di Nanci Griffith, quarantennale se si conta dacché cominciò a cantare in locali di Austin nei quali legalmente nemmeno avrebbe avuto il diritto – dal basso dei suoi entusiastici quattordici anni – di entrare. Tutto questo tempo e diciassette album in studio e due dal vivo dopo (con una prevalenza di uscite major ma anche diverse in alveo indipendente, questa compresa) la Griffith sa ancora stupire e deliziare. Tutto questo tempo dopo resta nel cuore soprattutto una fan, e dunque un’interprete, e in seconda battuta un’autrice sopraffina con il curioso destino di cogliere i successi più grandi – lei che Nashville non ha mai accettato del tutto, lei che meriterebbe di vedersi annoverata fra le influenze dell’alt-country e invece no – per interposta persona. Era ad esempio Kathy Mattea a portare in classifica prima Love At The Five & Dime, poi Listen To The Radio, mentre a rendere una hit Outbound Plane provvedeva Suzy Bogguss. Già due i suoi dischi fatti interamente di rivisitazioni di “Other Voices” e altre le ha sparse un po’ ovunque. “Ruby’s Torch” è quasi – delle undici canzoni che allinea Nanci ne ha scritte due – il terzo. Indice di continuità? Un’altra celebrazione delle radici folk? Uno squisito esperimento invece, “un sogno fattosi realtà”, spiega nel libretto.
Lo avrete intuito dal titolo. È una raccolta di “torch songs”, fra le altre ben tre di Tom Waits e la classicissima In The Wee Small Hours Of The Morning (che conoscerete da Sinatra), rese con raffinato sentimento. Con archi e ottoni a prevalere per una volta sulle chitarre. Roba che sulla copertina dovrebbero attaccare un adesivo con il nome del whiskey da abbinare.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.275, gennaio 2007.
Nel numero di “Blow Up” appena giunto in edicola la prima puntata (diciotto pagine, al solito venti i dischi esaminati) di un doppio “Essentials” dedicato al krautrock che ho avuto il piacere di curare. Hanno offerto preziosi contributi Antonio Ciarletta, Luca Collepiccolo, Gino Dal Soler e Luca Majer. Gli anni affrontati sono quelli che vanno dal 1969 al 1972. Seconda parte (1973-1980) su novembre. Gute Reise.
Tutti a celebrare oggi i settant’anni di Gordon Matthew Thomas Sumner, in arte Sting. Io che sono un po’ monello lo faccio a modo mio ripescando, non per la prima volta, una stroncatura del terzo LP dei Police tratta dal numero di “Extra” in cui ci divertimmo a redigere una lista di “100 album da evitare”.
The Police – Zenyatta Mondatta (A&M, 1980)
Non c’è due senza tre, giusto? Due titoli insensati e fessacchiotti a battezzare due album solidi e irrestistibili come “Outlandos D’Amour” e “Reggatta De Blanc” ed ecco: declinando il più incisivo reggae bianco di sempre sul lato pop dei Clash, i Police diventano le prime vere superstar espresse dalla new wave. Vale la pena di insistere e allora tirano fuori un titolo che più cretino non si può e anzi sì, visto che il singolo che lo accompagna nei negozi si chiama De Do Do Do, De Da Da Da. Che disdetta che dimentichino di metterci dentro qualche canzone come si deve. Di decente da qui, se si è di bocca assai buona, si può cavare una Driven To Tears che era peraltro stata scartata dai dischi prima e il funkettino Voices Inside My Head. A esagerare, Don’t Stand So Close To Me, orecchiabile ma un’ombra appena di una Roxanne, una Message In A Bottle, una Bring On The Night, una Walking On The Moon. Polveri bagnate, troppo poco reggae, troppa voglia di monetizzare in fretta la fama appena conquistata. “Ghost In The Machine” e “Synchronicity” rimetteranno a posto le cose, prima che Sting cominci a sfornare in proprio lavori che in qualche caso faranno rimpiangere “Zenyatta Mondatta”, che quantomeno non è pretenzioso.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.9, primavera 2003.
“In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro.” (Alberto Arbasino)