L’ultimo capolavoro di Lou Reed, che ci lasciava otto anni fa

Detto con il rispetto dovuto a colui che da molti è ritenuto il Vate della critica rock statunitense e di conseguenza mondiale e ne è senz’altro (va per i settantanove) il Decano: certo che ne ha scritte di fesserie Robert Christgau. In special modo riguardo a Lou Reed, del quale a modesto parere del Vostro affezionato non ha mai capito (perdonerà chi mi sta leggendo il francesismo e, anzi, il calabresismo) una beneamata ceppa. Ma proprio niente, a un imbarazzante livello che a dare i voti a lui come da sempre lui li dà agli altri per non infierire troppo toccherebbe rifugiarsi in un giudizio: “non classificabile”. Lo stesso che lui rifilava a “Magic And Loss”, liquidato come uno dei peggiori album dell’artista newyorkese. Addirittura indegno di un riascolto. D’altra parte: stiamo parlando di uno che gratifica con il massimo dei voti, “A”, all’americana, un lavoro sì valido come “The Blue Mask” ma pure il suo mediocre successore “Legendary Hearts” nonché e incredibilmente un LP che con il senno del poi non è che una robina pop nulla più che gradevole quale “New Sensations” (andando a memoria mi pare che al tempo anche io ne scrissi bene; solo che, ecco, non era ancora uscito “New York” e dunque non era stato necessario rimettere in prospettiva non soltanto gli interi anni ’80 di Lou Reed ma la sua carriera solistica tutta fino a quel punto). Che considera “Transformer” inferiore all’omonimo debutto in proprio dell’allora fresco ex-Velvet Underground e massacra (C) “il” capolavoro del nostro uomo, “Berlin”. Imperdonabile. Lungo preambolo per suggerire al lettore con una buona padronanza dell’inglese di recuperare in Rete l’invece impeccabile recensione che firmava all’epoca per “Rolling Stone” David Fricke. Meglio ancora, sul blog “musicaficionado”, un articolo stupendo ed estremamente approfondito di un anonimo sconosciuto. Lì tutto quello che c’è da sapere su “Magic And Loss” che, avendo a disposizione forse un quinto di quello spazio, io mai avrei potuto comprimere in una pagina. Onore al merito pure a Gino Castaldo, che sulle pagine di “La Repubblica” si confrontava in tempo reale, articolo datato 14 gennaio 1992, il giorno stesso dell’uscita del disco, con “Magic And Loss” con stile e acutezza, annotando che “ai canoni della cultura rock, quest’album sta come una specie di ‘Antologia di Spoon River’, dove a parlare (quasi ogni canzone è cantata in prima persona da un diverso personaggio) non sono dei veri e propri fantasmi, quanto piuttosto dei moribondi, degli eroi sconfitti, delle persone annientate, rimpicciolite da tragiche vicende personali. Ma l’effetto è analogo”. Il che non è completamente esatto e però rende assai bene. Di quanta importanza desse l’autore all’aspetto testuale offrono solare evidenza non solamente la voce, sistemata in primo piano nel missaggio e dalla dizione intelligibile come non mai, ma il fatto che chiese e ottenne che tanto nel voluminoso libretto del CD che negli inserti allegati alla versione in vinile le liriche venissero riportate non solo in inglese ma anche tradotte in tedesco, francese, spagnolo e italiano.

Altalenanti gli anni ’80 di Lou Reed. Cominciavano bene con un disco forse troppo arrangiato ma secondo me sottovalutatissimo come “Growing Up” e proseguivano meravigliosamente con il viceversa asciutto, e velvetiano assai, “The Blue Mask” cui andava dietro un “Legendary Hearts” di impostazione analoga ma dalla scrittura sottotono. Seguivano un “Live In Italy” pletorico e testimonianza di un tour che non poteva che lasciare sgomenti gli astanti (ero presente a una tappa; il gruppo era formidabile ma il leader in condizioni fisiche talmente precarie che tornai a casa con l’angosciosa convinzione di avere assistito a uno dei suoi ultimi concerti) e i leggerotti “New Sensations” (comunque ampiamente salvabile) e “Mistrial” (anche no). Il che contribuiva a far salutare “New York” (recentemente ripubblicato in una straordinaria riedizione Super Deluxe di cui ci siamo occupati sul numero dello scorso ottobre) come la più clamorosa forse (o quello, o il coevo “Freedom” di Neil Young) delle resurrezioni nella Storia del rock. E siccome appena quindici mesi dopo Lou Reed sorprendeva ulteriormente rinnovando il sodalizio con John Cale con la struggente messa da requiem laica per Andy Warhol di “Songs For Drella” altissime erano le aspettative per “Magic And Loss”. Pienamente soddisfatte da un’altra opera estremamente sobria. Quietamente monumentale e, di nuovo, di monumento funebre trattavasi, ma contemporaneamente di un inno ─ come da titolo ─ alla magia della vita.

Sono tre i cari estinti celebrati, due sconosciuti (Rotten Rita, stellina del giro della Factory, e Lincoln Swados, compagno di stanza di Reed alla Syracuse University) e uno strafamoso (Doc Pomus, autore con Mort Shuman di innumerevoli successi pop, errebì e rock’n’roll), in un disco che va a collocarsi a un perfetto incrocio fra i due predecessori. Usando gli arnesi del rock o all’incirca ─ fenomenale chitarrista Mike Rathke (che co-firma ben cinque tracce su quattordici) dà un inestimabile contributo ai momenti più di atmosfera con uno strumento synth della Casio; Rob Wasserman suona con gusto perlopiù jazz un basso elettrico a sei corde via di mezzo fra un fretless e un contrabbasso; Michael Blair approccia batteria e percussioni a volte così in punta di bacchette o di mani da perdersi quasi sullo sfondo ─ ma dispiegando soltanto occasionalmente un suono pienamente rock. Accade giusto in una What’s Good dal groove quasi funk, nella tirata e sferzante Warrior King, in una densa, cupa e distorta Gassed And Stoked e nella scorticata e frenetica Power And Glory, Part II. Il maggioritario resto parla la lingua piana e insieme mossa di un’ideale neo-camerismo (per dire: pure in una Cremation che è una piccola Sweet Jane) mai cameristico nel senso classico del termine e con risvolti folk, blues, jazz. Benché non fosse mai stato ripubblicato in vinile dall’epoca della prima uscita, “Magic And Loss” non era mai salito di prezzo. Questa riedizione è benvenuta e preziosa perché distribuisce su tre facciate con gli ovvi benefici che ne conseguono i 58’27” in origine stipati su due. Tiratura limitata però a sole 7.000 copie e gli interessati dunque si affrettino.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.429, marzo 2021. Lou Reed ci lasciava il 27 ottobre 2013, settantunenne.

4 commenti

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4 risposte a “L’ultimo capolavoro di Lou Reed, che ci lasciava otto anni fa

  1. Mario78

    Grandioso Lou! Degli album successivi che cosa salveresti? A me piacciono molto alcune canzoni di Ecstasy, l’album del 2000, Tatters su tutte. Like a possum con la sua ripetitività della musica e la durata monstre la trovo francamente inutile.

    • Amo sia “Set The Twilight Reeling” che “Ecstasy”. “The Raven” un po’ di meno. “Hudson River Wind Meditations” non fa testo. Ho detestato “Lulu” al primo ascolto e anche al secondo. Un terzo non c’è mai stato.

  2. Giampiero

    Il lungo preambolo non è imperdonabile se ben fatto, poi serve a far capire in che oceano di teste di verza ( scusate il lodigianesismo ) ci si deve districare. Grazie come sempre per aver sistemato e ordinato l’elenco dei gioielli di Reed e di aver buttato nell’umido insieme ai resti quotidiani quel che per rispetto a prescindere viene definita recensione di Robert Christgau.

  3. Emmio

    L’ispirato ma un pochetto pretenzioso M&L lo salvo dalla discografia “tarda” di Lou Reed ma è da questo disco che, secondo me, comincia una discesa che porterà fino a lulu. Anche dal vivo; il “tardo” lou non mi convinse appieno: visto in concerto all’Orfeo di Milano (tour M&L) ed alla RAH in quel di Londra per il tour ecstasy ricordi, nel complesso, tiepidi

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