
“Incidemmo la batteria nel settembre 1989, le chitarre tre mesi dopo e il basso nell’aprile del 1990. Poi non lo toccammo più per circa un anno e arrivati a quel punto non c’erano ancora né una traccia vocale né un abbozzo di testo. Il brano nemmeno aveva un titolo, era solo la ‘Canzone 12’. Per quello che posso ricordare la linea melodica venne composta nei primi mesi del ’91. Il pezzo era soltanto strumentale, le parole arrivarono dopo. Se ascolti sembra che cantiamo insieme io e Bilinda ma in realtà c’è un’unica voce ed è la mia, ora rallentata, ora accelerata. Molte parti vocali, non solo in questo brano, in tutto il disco, le abbiamo registrate dalle dieci alle venti volte e poi sovrapposte ed è per questo che possono risultare incomprensibili. Ci sono canzoni in cui non ho idea di cosa canti Bilinda e credo non lo sappia manco lei. Abbiamo lavorato anni a ciascun pezzo, quasi sempre con lunghi intervalli. Ad alcuni ci ho rimesso mano così tante volte e a distanza di così tanto tempo che alla fine non ricordavo più l’accordatura usata all’inizio e tiravo a indovinare”: così Kevin Shields racconta la genesi di When You Sleep, quinta (penultima della prima facciata) delle undici tracce di “Loveless”, l’album che i My Bloody Valentine davano infine alle stampe il 4 novembre 1991, a tre anni meno diciassette giorni dal predecessore “Isn’t Anything”, e che istantaneamente veniva acclamato come un classico. Praticamente unanime la critica al riguardo e chissà quante volte si è autoflagellato da allora chi lo recensì tiepidamente per l’autorevolissimo “Spin”, forse unica voce fuori dal coro laddove sul “Chicago Tribune” Greg Kot appuntava che “è un disco che scrive un nuovo vocabolario per la chitarra e che probabilmente le regalerà altri dieci anni di vita come principale strumento del rock”. Se si sbagliava era per difetto, giacché siamo arrivati a trenta. Sfortunatamente il pubblico non mostrava altrettanto entusiasmo. “Loveless” conquistava sì (come del resto l’album precedente) la vetta della classifica indie UK ma in quella generale non saliva più su della ventiquattresima posizione, negli USA nemmeno ci entrava in classifica e insomma la Creation, per cui vedeva la luce, soltanto per ripagarsi gli stratosferici conti dei diciannove (!) studi nei quali era stato assemblato di anni ne impiegò ben più di tre. Duecentocinquantamila sterline, si dice costò, a fronte di vendite che a oggi vengono calcolate (per uno dei dischi più influenti della storia del rock; ogni epoca ha avuto i suoi Velvet Underground) in mezzo milione di copie. A causa dei My Bloody Valentine l’etichetta di Alan McGee rischiava la bancarotta (il suo socio Dick Green letteralmente incanutiva per lo stress; dice che un giorno telefonò a Shields e scoppiò in singhiozzi implorandolo di dargli “quel cazzo di disco prima che finiamo tutti in mezzo a una strada”) e senza il boom datato ’94 degli Oasis di “Definitely Maybe” (fu così che il pop con le chitarre più conformista degli anni ’90 saldò le spese del più respingente) difficilmente sarebbe mai riuscita a rimettersi in sesto.
Andrà peggio alla Island, che ingaggiava i My Bloody Valentine appena accompagnati alla porta con ferma gentilezza dalla Creation e anticipava al loro leader esattamente la stessa somma, duecentocinquantamila sterline, che Shields subito investiva nell’allestimento di una sala di incisione. Non vedrà mai rientrare il cospicuo investimento e finirà per sciogliere il contratto senza avere ottenuto nulla in cambio. Il terzo My Bloody Valentine, “mbv”, è uscito autoprodotto quando nessuno ci credeva più, nel 2013. Un quarto lo aspettiamo da allora e fossi in voi non tratterrei il fiato. Molto attese sono in compenso le riedizioni in vinile, griffate Domino e nei negozi dal 21 maggio, dei tre album della band anglo-irlandese e della raccolta doppia “EP’s 1988-1991 And Rare Tracks”. Che non varranno a calmierare l’ormai completamente impazzito mercato del collezionismo (una stampa originale di “Loveless” costa diverse centinaia di euro e invece che scendere, come sarebbe stato logico, i prezzi nelle ultime settimane si sono impennati) ma almeno daranno modo a chi questi dischi desidera averli sul più nobile dei supporti fonografici, e al tempo non c’era o era distratto, di non svenarsi troppo.
Certifica quanto fosse avanti “Loveless” che ─ a distanza di tre decenni! ─ il sottoscritto abbia qualche remora a consigliarlo al lettore più tradizionalista in materia di rock. Che potrebbe ricavare maggiori soddisfazioni dal quasi altrettanto colossale ma meno intimidente “Isn’t Anything”. Lì Kevin Shields, Bilinda Butcher e poco rilevanti sodali offrivano una loro personale reinterpretazione di un canone includente folk-rock e noise (fusi in Love My Breath), psichedelia e post-punk (I Can See But I Can’t Feel It), i Velvet come i primi Pink Floyd (Cupid Come perfetta crasi), Dinosaur Jr. e Hüsker Dü (Feed Me With Your Kiss, You Never Should), i Sonic Youth (All I Need, Sueisfine) e una ambient tanto fosca da farsi illbient (No More Sorry). Piazzando nell’iniziale Soft As Snow (But Warm Inside) fra grattuggiamenti di chitarre, un basso wave e una vigorosa batteria una melodia che a risentirla adesso la puoi immaginare ripulita dai Blur di qualche anno dopo e trasformata in una hit planetaria. Laddove con “Loveless” ne creavano uno definitivamente loro di canone, immediatamente imitatissimi ma guardati da lontano anche dagli altri campioni (Ride e Slowdive i maggiori) del cosiddetto shoegaze: qui inaudito incrocio fra “Pet Sounds” e “Metal Machine Music” idealmente prodotto da Phil Spector; qui cuore pop lanciato oltre l’ostacolo di strato su strato di feedback; con all’inizio i Cocteau Twins avvolti in coltri di frastuono di Only Shallow, a fondo corsa la spiazzante danzabilità di Soon e in mezzo altri nove capolavori teneri e assordanti. Il più capolavoro di tutti la When You Sleep narrata in apertura dall’artefice: ascoltatela, intenderete subito perché per Robert Smith “Loveless” è il singolo disco che salverebbe dalla distruzione di tutti gli altri, suoi compresi.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.431, maggio 2021. A oggi sono trascorsi trent’anni dalla pubblicazione di “Loveless”.
Trascorreranno altri trent’anni, io sarò morto e questo magnifico capolavoro continuerà ad influenzare non tantissimi, ma spinti dal sacro fuoco della stratificazione. Pezzo adeguato alla classe del disco 😊