Alla ricerca della bellezza assoluta – La PJ Harvey ecumenica di “Stories From The City, Stories From The Sea”

È parecchio diverso dal mio primo paio di album, di gran lunga più melodico, con un suono più tondo e pieno. Quei miei primi lavori erano per così dire in bianco e nero, decisamente estremi. Questo è molto più sofisticato. È come se avessi preso tutti i dischi precedenti e li avessi sintetizzati in uno”: così PJ Harvey raccontava il suo quinto lavoro in studio, “Stories From The City, Stories From The Sea”, a Steve Appleford del “Los Angeles Times” in un’intervista pubblicata il 29 ottobre 2000, probabilmente la prima ad apparire sulla carta stampata visto che l’album non aveva raggiunto i negozi che il 24 di quello stesso mese. Fotografando piuttosto accuratamente (convenientemente non sottolineava che, ancor più che riassunto delle puntate precedenti, il disco si porgeva come il suo primo iscrivibile a un canone di rock “classico”) un album distante ben più che rispettivamente otto e sette anni dai ruvidi quanto epocali “Dry” e “Rid Of Me”, ma non così tanto da “To Bring You My Love” del ’95. Laddove a “Is This Desire?”, del ’98, tutti appiccicano l’etichetta “interlocutorio” e ci sarà un perché. Così come evidentemente c’è un perché se a oggi proprio “To Bring You My Love” e “Stories From The City, Stories From The Sea” risultano i due titoli più venduti di Polly Jean: intorno al milione di copie cadauno. Era dunque pure un po’ un mettere le mani avanti quello dell’allora trentunenne cantautrice del Somerset, anticipando il senso di delusione che coglieva tanti dei cultori della prim’ora di fronte a un disco che, passo avanti o a seconda dei punti di vista indietro, le guadagnava sì nuovi estimatori ma gliene faceva perdere di vecchi. Da lì a qualche mese parlando con il mensile britannico “Q”, probabilmente confortata dal buon riscontro di pubblico a fronte di una critica per la prima volta non unanimemente apologetica, PJ era più esplicita: “Desideravo che avesse un impatto piacevole. Se in ‘Is This Desire?’ e ‘To Bring You My Love’, che sono più oscuri, inquietanti, se vuoi respingenti, avevo sperimentato sonorità disturbanti, con ‘Stories…’ ho cercato di fare l’opposto. Ho pensato, no, voglio la bellezza assoluta. Voglio che questo disco canti, e voli, e sia pieno di riverbero e ricchi strati di melodia. Voglio che sia il mio lavoro più sontuoso e adorabile”. Impresa portata a compimento e dell’essere riuscito alla Harvey di passare dall’universo “alternative” al mainstream senza perdere credibilità dava riscontro la candidatura dell’album (peraltro la terza per la titolare) al Mercury Prize. Vittoriosa e non potrà mai dimenticare il momento in cui riceveva la telefonata con cui glielo comunicavano. In tour negli Stati Uniti, alloggiata quel giorno in un albergo a Washington DC con vista sul Pentagono, apprendeva la notizia mentre incredula come il resto del mondo ma lei da poche centinaia di metri osservava l’edificio suddetto in fiamme, appena colpito da un aereo civile dirottato. Avrà inteso il lettore: era l’11 settembre 2001.

Da lì a undici anni PJ Harvey si aggiudicherà di nuovo, con “Let England Shake”, il prestigioso riconoscimento e finora, nella quasi trentennale storia del Mercury, il suo nome è l’unico a figurare per due volte nell’albo d’oro. Ormai autentica istituzione culturale a quel punto e strano che il successivo e parimenti magnifico “The Hope Six Demolition Project”, del 2016, non sia stato inserito a suo tempo nell’elenco dei contendenti. Ancora attendiamo un seguito, con qualche timore dovuto all’impressione che i tanti interessi che coltiva stiano portando l’artista non diremmo lontana dalla musica ma a considerarla solo uno dei tanti fronti su cui impegnarsi. O, piuttosto, che l’ispirazione si stia inaridendo. Che la consapevolezza di doversi confrontare ogni volta con un catalogo di fenomenale consistenza media stia inibendo Polly Jean dall’aggiungervi articoli che difficilmente potrebbero rientrare fra i più rilevanti. Sia come sia: da un anno in qua è in corso un’operazione di restauro del suddetto catalogo che procede di pari passo con la pubblicazione per la prima volta, in separata sede, dei demo che ogni volta funsero da punto di partenza per ciascun disco. L’esegeta si sarà già messo in casa, con quelli dei predecessori, i provini di “Stories From The City, Stories From The Sea”. Il semplice vinilomane non disponibile a sborsare i minimo cento euro che costa un esemplare d’epoca dell’album regolare sarà invece lieto di apprendere che adesso per meno di trenta (che comunque non sono pochi, eh? soprattutto considerando che il CD te lo tirano dietro a cinque) potrà aggiungere alla sua discoteca una copia (non cambia la griffe: Island) splendidamente suonante.

Non è questo l’album migliore di PJ Harvey (la giurisprudenza si divide al riguardo fra “Rid Of Me” e “To Bring You My Love”), ma è certamente quello che si porge in maniera più ecumenica, che pure l’appassionato di rock legato ai suoi stilemi più consolidati può apprezzare. Da subito, da una Big Exit marcatamente Patti Smith, la più innodica, e da un’ancora più orecchiabile Good Fortune che potrebbe essere dei Pretenders e nel cantato l’omaggio appare esplicito. Proseguendo con la romantica A Place Called Home, la sospesa e sferzante insieme One Line e lo scheletrico folk per chitarra, voci (in entrambi i brani la seconda è Thom Yorke) e ambienza Beautiful Feeling e una viceversa rabbiosa e granitica (e in tal senso un tuffo nel passato dell’artefice) The Whores Hustle And The Hustlers Whore. Fine della prima facciata. La seconda si apre con la dolcissima This Mess We’re In (terza e ultima ospitata del cantante dei Radiohead) e dopo la vivace ballata in zona R.E.M. You Said Something concede un altro ritorno sui suoi passi alla riot grrrl che fu con la scorticata Kamikaze, prima di un ulteriore e stavolta duplice inchino, This Is Love e (persino il titolo ammicca) Horses In My Dreams, a Patti Smith. Peccato per un suggello un filo piatto, We Float, ma a riascoltarlo a oltre vent’anni dall’uscita il disco “newyorkese” (lo concepiva lì, anche se poi lo registrerà in patria) di PJ Harvey risulta non soltanto invecchiato con grazia ma nettamente migliore di quanto non sembrò a molti (compreso chi scrive) quando uscì.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.430, aprile 2021.

1 Commento

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Una risposta a “Alla ricerca della bellezza assoluta – La PJ Harvey ecumenica di “Stories From The City, Stories From The Sea”

  1. Mario78

    Disco molto bello che acquistai al momento della prima uscita. Alcune canzoni porte nella loro semplicità riescono a trovare un posto ancora oggi nei miei ascolti. Recensione graditissima.

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