
La prima volta che Jeff Buckley cantò in pubblico fu per una platea di una persona, l’amica Carla Azar che era andato a trovare nella sua casa di Los Angeles. La lasciò stupefatta per cominciare proprio perché era una novità: formidabile chitarrista, Jeff, e con il dono che è di pochi di sapere subito cavare qualcosa da uno strumento che non si è mai maneggiato, ma nessuno lo aveva sentito cantare neppure in sala prove benché di gruppi ne avesse a quel punto già collezionati diversi, in ambiti vari quanto distanti. E che voce stava tirando fuori! Capace di passare in un battito di ciglia da un falsetto esilissimo a calde tonalità tenorili, a uno squassante urlo primordiale. E che bella canzone poi. “Stupenda. L’hai scritta tu? ” “No, è un pezzo di un altro”, fa Jeff, che al solito evasivo non rivela da dove arrivi quel brano, né di chi sia. Cambia discorso.
La seconda volta che Jeff Buckley cantò in pubblico, ma in pubblico davvero, fu mesi dopo, sei o forse otto, e fra le centinaia di spettatori stipati il 26 aprile 1991 nella St. Ann’s Church di Brooklyn, New York, non ve n’era uno che non riconoscesse alle prime note quel medesimo pezzo. E chissà quanti restarono senza fiato non soltanto per quella voce così incredibilmente simile a una familiare e venerata ma per la scelta di cominciarlo così uno struggente omaggio da figlio abbandonato a genitore rimosso. Quel bimbo “fasciato di amare storie e mal di cuore/mendico di un sorriso, anche uno solo” si era fatto grande e cantava la canzone che suo padre aveva scritto a sua madre per giustificare di averli abbandonati entrambi: “Non so nuotare nelle tue acque/né tu camminare nelle mie terre./Navigherò solitario tutti i miei peccati e scalerò le mie paure/e presto, subito spiccherò il volo./Non ho mai chiesto di essere la tua montagna”. Se si può dire che I Never Asked To Be Your Mountain sia una canzone d’amore, e sublime, è solamente nel senso che a tale parola può dare il narcisista, che non può amare con tutto il cuore che se stesso. Nondimeno a fustigare l’ipocrisia di un individuo che fugge dai suoi doveri, accampando scuse puerili, se ne coglie un aspetto che non è il principale. Più ancora di se stesso, Tim Buckley venerava l’Arte e fu fondamentalmente all’Arte che sacrificò Jeff. Forse con la speranza che un giorno avrebbe capito. Capirà. Qui si racconta di due uomini che nacquero vecchi e morirono prima di diventare adulti. Però vivranno per sempre.
Eternal Life
Se questo fosse veramente, come sosteneva Leibniz (Voltaire avrà a che ridire), il migliore dei mondi possibili Tim Buckley quel fatale 29 giugno 1975, una domenica pomeriggio che veniva dopo un sabato in cui aveva colto un trionfo concertistico come non gli accadeva da lungi, si sarebbe fatto dare un passaggio dal bassista Jeff Eyrich dritto fino a casa sua. Avrebbe abbracciato la moglie Judy e chiacchierato un po’ con il figlio di lei (e da cinque anni molto anche di lui) Taylor. Magari l’avrebbe accompagnato al cinema, invece di lasciare l’incombenza alla zia Michelle e a quel Maury Baker già suo batterista. O forse sarebbe andato a dormire per qualche ora per quindi, ritemprato, rimettere mano all’ambizioso progetto da poco posto in pista con il paroliere dei tempi belli, Larry Beckett: un concept ispirato da Joseph Conrad. Ma invece che a Santa Monica si faceva portare a Venice, da Richard Keeling. Etnomusicologo e spacciatore. A casa sua ci arriverà tre ore dopo. Farneticante, a carponi negli ultimi metri. Moriva così un uomo che aveva saputo volare. Prima di cremarne il corpo lo sottoposero ad autopsia e altro che l’infarto di cui si era pietosamente parlato in un succinto comunicato della Associated Press, contenente diverse altre inesattezze e ripreso dal “Los Angeles Times”: era pieno di alcool e soprattutto di eroina.
Se questo fosse sul serio il migliore dei mondi possibili, poi, Jeff Buckley il 29 maggio 1997 non si sarebbe perso girando in furgone (alla guida l’amico Keith Foti) per le strade di Memphis alla ricerca della sala nella quale nelle settimane seguenti avrebbe dovuto rifinire, con il gruppo, i pezzi del secondo album. E di conseguenza non avrebbe mai commesso la triplice imprudenza (i due ragazzi si fermavano a raccogliere le idee) di immergersi nelle acque luride e infide del Wolf River al crepuscolo, vestito, anfibi ai piedi. Sommerso dalla risacca provocata da un incrociarsi di battelli, manco riusciva a chiamare aiuto e furono così le parole di una canzone, Whole Lotta Love, le ultime che gli uscirono di bocca. Se ne andava insomma cantando. Il fiume ne restituirà il cadavere il 4 giugno e ci sarà allora un certificato medico a sanzionare che non aveva bevuto né assunto droghe. Previdente, Mary Guibert prima che le spoglie venissero ridotte in cenere chiedeva un test del DNA. A evitare “cause di presunta paternità a carico della vittima, che aveva viaggiato in tutto il mondo ed era molto popolare in Francia e Australia”. Cuore di mamma!
Nell’ipotetico universo di cui sopra, Tim non avrebbe sniffato quella merda, si sarebbe definitivamente ripulito e avrebbe forse scoperto che era possibile sopravvivere ─ artisticamente ─ a “Goodbye And Hello” e persino a “Starsailor”. Avrebbe spalancato porte e steso tappeti per Jeff, che sarebbe ancora fra noi. Però mai nessuno ha completamente torto o ragione (nemmeno Voltaire) e questo non sarà il miglior mondo possibile ma bisognerebbe sempre ricordarsi che, be’, poteva andare peggio. Tim Buckley poteva non averlo un figlio. Jeff poteva non fallire una almeno fra le tante audizioni cui si sottopose ─ i Murphy’s Law! gli Agnostic Front!! Mick Jagger!!! ─ e oggi sarebbe vivo, sì, ma soltanto un altro stronzo eroe della chitarra.
Nella saga maledetta e magnifica dei Buckley (a tredici anni dalla scomparsa del secondo ci si può azzardare a dirlo: un terzo non c’è, non ci sarà) al di là del valore che si stenta a commensurare del lascito a impressionare sono le similitudini caratteriali: medesimo l’atteggiamento di insofferenza verso l’industria discografica, uguale il confronto conflittuale con una fama insieme corteggiata e respinta, coincidente il rapporto con l’altra metà del cielo ed è il dettaglio che più disturba, dolorosamente. A seguirne le vicende ponendole in parallelo, finisci per confondere Tim e Mary con Jeff e Rebecca, Joan con Judy. Eppure il figlio passò quasi intera l’esistenza a cercare di differenziarsi dal padre. Ci vorrebbe uno psicanalista. Non lo sono. Per quanto possibile in queste pagine parlerò dunque solo di musica. Comunque tanta roba.
Prosegue per altre 55.115 battute su Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.35, inverno 2010. In un mondo migliore del nostro Jeff Buckley compirebbe oggi cinquantacinque anni.
Uno dei due genio vero, l’altro, pur essendo stato uno dei miei idoli adolescenziali, ora lo trovo indistinguibile dalla sirena dei pompieri