
Nota di colore: complimenti agli estensori della chilometrica scheda che Wikipedia dedica ai Wallflowers per essere riusciti a non scrivere mai, neanche incidentalmente, che il loro leader è figlio (il quartogenito, l’unico con l’ardire di seguire le orme paterne) di un recente premio Nobel per la letteratura. Giusto così, giacché Jakob Dylan ha avuto sin dall’inizio della sua lunga carriera l’intelligenza di non confrontarsi direttamente con un talento inarrivabile, di fare sempre la sua cosa. Guadagnandosi così il rispetto anche di un padre che a sua volta ha avuto il buon senso di non metter mai bocca, né di incrociare la sua strada e quella del rampollo se non in un isolato concerto nel 1997, ossia quando i Wallflowers ce l’avevano già fatta da soli, un numero 4 USA (con un singolo al numero 2) con il loro secondo album, “Bringing Down The Horse”.
Dici Wallflowers, pensi a un gruppo, ma in realtà (mai la stessa la formazione da un disco al successivo) sono sempre stati il progetto solistico di Jakob (che pure a un certo punto pubblicò un paio di lavori a suo nome e ancora ci si chiede perché). Con “Exit Wounds” interrompono un silenzio di ben nove anni (già il predecessore “Glad All Over” si era fatto aspettare sette) senza deviare dalla solita via: che è quella di un tosto cantautorato rock che deve molto più a Tom Petty, Bruce Springsteen, John Mellencamp che a chi sapete voi. Il problema è il solito: a un sound energico, eppur cesellato a puntino, raramente si accompagnano brani (l’exploit della strepitosa One Headlight è inavvicinato dal ’97) di memorabilità più che media. Qui si fanno ricordare un po’ più del tempo che ci va ad ascoltarle la rock’n’rollistica I Hear The Ocean e la ballata Wrong End Of The Spear.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.435, ottobre 2021.