
Sceglie un titolo appropriato per la prima sortita in undici anni Martina Topley-Bird: album che è il suo quinto ma bisogna ricordarsi che il secondo (“Anything””, del 2004) non era che l’edizione americana scorciata di tre canzoni del primo (“Quixotic”, del 2003) e il quarto (“Some Place Simple”, per l’appunto del 2010) una collezione “unplugged” di undici pezzi già noti con a integrarla appena quattro altrimenti inediti. È insomma un catalogo assai smilzo quello di colei che inconsapevolmente si consegnava per sempre agli annali del pop (pop?) del Novecento facendo da ambiguamente angelico contraltare al demonio Tricky nell’esordio capolavoro di costui “Maxinquaye” (1995; Martina aveva vent’anni e la collaborazione era avviata da due) e nei successivi, quasi altrettanto memorabili ed epocali, “Nearly God”, “Pre-Millennium Tension” e “Angels With Dirty Faces”. Relazione che oltre che artistica era sentimentale e da cui nasceva una figlia, scomparsa suicida nel 2019, ventiquattrenne.
Tragedia che non sembra riverberarsi, per il semplice fatto che il disco era allora già in larghissima parte composto e (parrebbe; a parte che alcuni arrangiamenti sono opera di Robert del Naja dei Massive Attack e tolti i nomi di alcuni altri ospiti non ci sono informazioni al riguardo) anche registrato in precedenza. È un disco di livello con il piccolo torto di uscire come da una capsula temporale (metà ’90, ovvio). Paga inoltre il suo avere pochi cambi di passo: un unico vero, con la danzabile Game a separare il soul-blues dagli inferi Love dalla cupa narcolessia di Free. Proprio alla fine arriva però una canzone straordinaria, Rain, per voce e quartetto d’archi. Da sola gli fa guadagnare almeno mezzo voto in più.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.436, novembre 2021.