I migliori album del 2021 (9): Black Country, New Road – For The First Time (Ninja Tune)

Se ti occupi professionalmente di musica non puoi non avere una preferenza per l’articolo. Più o meno lungo che sia, si tratti di una monografia o dell’investigazione di una scena o un fenomeno, di racconto storiografico o cronaca. Hai agio di ascoltare e soprattutto riascoltare, documentarti, meditare. Va da sé: dovrai dedicarci tempo e sarà faticoso, però alla fine appagante. Tutt’altra faccenda le recensioni, che ti piombano fra capo e collo e con una data di consegna che è in genere ieri e, insomma, per quanta esperienza tu possa avere il rischio di sopravvalutare o sottovalutare (può essere peggio: metti che quell’album da lì a qualche anno sia ritenuto unanimemente un capolavoro) anche grossolanamente un disco è sempre in agguato. Sola consolazione che ne escano così tanti, e che l’attenzione del pubblico sia di conseguenza volatile come non mai, che difficilmente qualcuno se ne ricorderà. Ora: al netto di una solidarietà di categoria, da semplice appassionato non mi capacito che sulle colonne di una testata di grande autorevolezza quale “The Independent” l’esordio dei Black Country, New Road sia stato definito “noioso e prevedibile”. Perché se “For The First Time” non ti è piaciuto, ed è legittimo, puoi semmai attaccarlo con motivazioni esattamente opposte: dicendolo artefatto a ragione di un moto perpetuo che può essere inteso come vuota esibizione di enciclopedismo e/o virtuosismo, trovando sul lungo prevedibile proprio la sua imprevedibilità. Ma… noioso? Mi pare una topica imperdonabile e però lo affermo avendo avuto una tantum il privilegio, non essendomi toccato recensirlo, di assaggiarlo appena al momento dell’uscita lo scorso 5 febbraio per poi tornarci su con ascolti distanti anche mesi che gli hanno permesso di sedimentarsi. Nondimeno: posso onestamente affermare che mi ha entusiasmato da subito.

Hanno facce belle e sorridenti da ventenni quali sono i sette componenti (quattro ragazzi, tre ragazze) del combo londinese e già che si tratti di una formazione inusualmente numerosa e che all’armamentario di ordinanza del rock – due chitarre, basso, batteria e tastiere – aggiunge strumenti meno usati quali violino e sassofono mette sull’avviso riguardo all’originalità della proposta. E non potrebbe essere più esplicito in tal senso un brano inaugurale didascalicamente intitolato Instrumental: una trentina di secondi di attacco solo percussivo che fa da incipit a una sarabanda klezmer (“musica da festa che suona triste”, osserva Lewis Evans) infiltrata dai rintocchi di una chitarra psych e con un’anima intimamente free jazz. Questo bisognerebbe chiamare post-punk piuttosto che le rimasticature più o meno creative con le quali dobbiamo di continuo confrontarci. Che poi pure i Black Country, New Road abbiano studiato è evidente, ma vivaddio non gli stessi testi di quasi tutti gli altri (anche quelli, sì, ma aggiungendone di poco o punto frequentati) e che bello che per una volta si possa scrivere di un gruppo giovane senza citare i Fall (ecco, li ho appena citati). Che ascoltando Isaac Wood venga in mente non quel rissoso, irascibile, carissimo e compianto cazzone di Mark E. Smith bensì la nobiltà altera di un Peter Hammill. Ecco: sarà che siamo italiani ma leggiucchiando qui e là mi pare che solo nel Bel Paese siano state colte assonanze – più che altrove lampanti in Science Fair e in una Sunglasses laddove il post-rock incrocia un’epicità prog che il porgersi ossessivo salva dalla prosopopea – con i Van Der Graaf Generator. Al di là della presenza del sax per la foschia che ne avvolge grattuggiamenti, vortici e schiamazzi. Se rimandando ancora più esplicitamente agli Slint e alla loro rivoluzione Athens, France finisce per risultare paradossalmente la traccia più convenzionale delle appena sei che compongono il disco (per quanto: che delizia il sentimento pastorale che la impregna prima che si lasci andare a un riffeggiare di radici hardcore e math), Track X scarta dal massimalismo al minimalismo in ogni senso (mettiamola così: i Radiohead alle prese con Steve Reich). Fungono da congedo i saliscendi vertiginosi di Opus, riallacciandosi a Instrumental ma inserendovi momenti distensivi.

Il 4 febbraio (anniversario quasi esatto) vedrà la luce il seguito, “Ants From Up There”. Prevedibili i fucili puntati. Io attendo fiducioso.

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