
Ho scritto un’infinità di volte di Mark Lanegan, sin da quando era il cantante degli Screaming Trees. Appena meno volte di quelle che l’ho visto dal vivo: la prima, e non solo a ragione di ciò la più indimenticabile, fu proprio con gli Screaming Trees. Di rado morte fu tanto annunciata ma un po’ ci si era illusi, dopo che il nostro uomo lo scorso anno era riuscito a schivare i dardi di una sorte oltraggiosa (potrai mica morire di covid dopo essere stato alcolista, tossicodipendente e, sul fronte della pandemia, negazionista?), che una volta di più potesse risorgere. “Oppressa dal fardello dei mali del mondo, ma pronta a librarsi verso il cielo”: così ebbi a descrivere la sua voce. Era ventun anni fa, suonava già come un epitaffio.

Screaming Trees – Buzz Factory (SST, 1989)
Anno intensissimo il 1988 per gli Screaming Trees. Troppo, tant’è che vanno in crisi e il bassista Van Conner li lascia per alcuni mesi, sostituito da Donna Dresch. Con questo organico e con Vic Makauskas in regia in luogo di Steve Fisk, i ragazzi di Ellensburg registrano un album il cui master va perduto in un passaggio di proprietà dello studio. Sembra un segno del destino. Il cantante Mark Lanegan, il chitarrista Gary Lee Conner e il batterista Mark Pickerel si adeguano e, con Van Conner di nuovo in squadra e Jack Endino al mixer, si mettono a lavorare ex novo. Il risultato è uno dei dischi più intensi dei tardi ’80, ispiratissimo nel suo pasticcio ormai D.O.C. di psichedelia, punk e hard rock. Non avessero scritto che Where The Twain Shall Meet e Black Sun Morning, gli Screaming Trees meriterebbero comunque una citazione nella storia del rock.
Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

Scraps At Midnight (Sub Pop/Beggars Banquet, 1998)
“Terzo album solistico del cantante degli Screaming Trees”, recita l’adesivo sulla bella copertina di “Scraps At Midnight”, quasi dando per scontato ciò che scontato al momento attuale non è, ossia che gli Alberi Urlanti abbiano un futuro o almeno un presente. Immensi questi washingtoniani (lo stato, non la città), fra i primi a tentare quel recupero in chiave moderna dell’hard che andrà sotto il nome di grunge e che loro già praticavano intorno alla metà dello scorso decennio. In anticipo sui tempi all’inizio, un po’ vetusti oggi, mai premiati quanto avrebbero meritato. In un universo parallelo forse i Nirvana sono loro.
Per darvi un’idea del clima che si respira in questo disco, vi invito a ripensare alla rilettura che di Where Did You Sleep Last Night, di Lead Belly, diedero i Nirvana in “Unplugged” (tenendo presente che è vicinissima a quella che quattro anni prima ne offrì Lanegan, spalleggiato dai Nirvana stessi, nella sua prima uscita in proprio): è dunque blues dolente, ai limiti del catacombale, ciò che si ascolta in “Scraps At Midnight” (ove per blues siete pregati di intendere più una condizione dello spirito che le canoniche dodici battute). Pensate a Johnny Cash, a Leonard Cohen, a Nick Cave, a Tom Waits (Bell Black Ocean), allo Springsteen più crepuscolare (Last One In The World). Soltanto nella conclusiva Because Of This il suono si fa più pieno, la ritmica relativamente sostenuta, le elettriche mordono. Non raggi di sole che squarciano un cielo plumbeo, bensì fulmini che annunciano il divampare del temporale.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.185, settembre 1998.

I’ll Take Care Of You (Sub Pop/Beggars Banquet, 1999)
È un album di altri tempi questo “I’ll Take Care Of You”, quarta uscita solistica del cantante degli Screaming Trees. Per umore, durata, scelta del repertorio: una parata di classici e/o dimenticate gemme country, soul e cantautoriali che riporta alla memoria per la rabbrividente intensità l’“Unplugged” dei Nirvana e per le atmosfere quel capolavoro dei Walkabouts, passato del tutto inosservato, chiamato “Satisfied Mind”. Anche quello disco per intero di cover e anche quello capace di esprimere l’essenza di chi lo ha realizzato meglio dei lavori autografi. Passati i giorni del sangue e delle lacrime con cui aveva in abbondanza irrorato i tre predecessori di questa meraviglia, Lanegan si scopre invecchiato e più sereno, o forse solo rassegnato a subire gli oltraggi della vita. Forse anche innamorato del suo ruolo di beautiful loser e, ora che ha rinunciato a essere Cobain, desideroso di studiare da Cohen. Per intanto caccia i fantasmi evocando quelli altrui, facendo Tim Hardin meglio di Tim Hardin in Shiloh Town e Fred Neil meglio di Fred Neil in Badi-Da e omaggiando la memoria di Jeffrey Lee Pierce con una Carry Home che lascia a bocca aperta. Stesso effetto che fa sentire un gruppo mediocre come i Leaving Trains, di cui riprende Creeping Coastline Of Lights, trasformato in uno indimenticabile come i Triffids. O Bobby Bland, Eddie Floyd e O. V. Wright riletti con tanta di quell’anima (in inglese si dice “soul”) che da uno della generazione del grunge non te lo saresti mai aspettato.
Roba di altri tempi, appunto. Inadatta a questi anni distratti, frenetici, superficiali. Se ne accorgeranno in pochi, ma per quei pochi vorrà dire molto.
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.18, novembre 1999.

Field Songs (Sub Pop/Beggars Banquet, 2001)
È una numerosa e composita congrega quella che fiancheggia Mark Lanegan in quello che è già il suo quinto album in proprio. Gente celeberrima come Ben Shepherd, che fu nei Soundgarden, e Duff McKagan, che era nei Guns N’Roses prima che divenissero una farsa. Mentre altri nomi risulteranno familiari soltanto a chi frequenta assiduamente l’underground a stelle e strisce. Tipo – doveroso citarlo dacché nei dischi del nostro uomo è presenza importante e immancabile – Mike Johnson, che fece parte dei Dinosaur Jr. seconda fase e ha all’attivo di suo alcuni pregevoli lavori. Non c’è stavolta, nemmeno nella pur cospicua lista dei ringraziamenti, nessun Screaming Trees ed è un altro segno che la vicenda degli Alberi Urlanti è stata consegnata agli archivi del rock. Settore: non furono mai famosi quanto avrebbero meritato. Questione di tempi sbagliati. Quando sbucarono da Ellensburg – dodicimila abitanti nell’estremo Nordovest degli Stati Uniti, nel pieno del nulla culturale più nulla che sia dato immaginare – al giro di boa degli ’80, il loro mischiare punk, hard e psichedelia, chitarre energiche e liriche e melodie di serpentina seduzione non aveva che poco pubblico e nemmeno un nome. Troverà l’uno e l’altro al passaggio di decennio: grunge. Proprio nell’anno di “Nevermind”, il ’91, agli Screaming Trees veniva offerto un contratto major, per la Epic, dopo che avevano già pubblicato cinque album su SST almeno uno dei quali (l’ultimo, “Buzz Factory”, dell’89) merita la qualifica di capolavoro. Avevano dato. I dischi seguenti li vedranno difendere le posizioni per poi ripiegare salvando in “Dust” (1996) l’onore e poco più. Mentre Lanegan fin dal ’90 intraprendeva una carriera solistica da subito generosa di pagine memorabili. Dovesse passarvi fra le mani (facile individuarlo se siete fans di Van Morrison), catturatelo quell’esordio chiamato “The Winding Sheet”. Sarà pure il meno riuscito della serie ma non fosse che per la penultima di una dozzina di tracce (non che le altre siano malvagie) merita l’acquisto. È una superba lettura di Where Did You Sleep Last Night di Lead Belly che precede di tre anni quella che i Nirvana sceglieranno come suggello del loro “Unplugged”. Doppio inchino, siccome alla versione datane dal Nostro concorse, non accreditato, proprio Kurt Cobain. Sta già tutta in quel blues catacombale la poetica che Lanegan estrinsecherà nelle opere seguenti, asciugando ulteriormente l’elettricità che aveva caratterizzato anche i momenti più accorati degli Screaming Trees.
“Whiskey For The Holy Ghost”, “Scraps At Midnight”, “I’ll Take Care Of You” le tappe successive. Lontanissimo il grunge. Spiriti affini Leonard Cohen, Tom Waits, Nick Cave. Così avrebbe suonato la “Music For A New Society” di John Cale l’avesse ispirata Robert Johnson. Il più grande? Quello che a oggi era l’ultimo. Un po’ paradossalmente, essendo fatto tutto di cover, pure il più personale: sfilata folkie di oscuri classici cantautorali (Tim Hardin, Dave Van Ronk, Tim Rose, tanto per non far nomi) e misconosciuti gioielli black (Bobby Bland, Eddie Floyd, O.V. Wright) accomunati dalla forma della ballata e da una voce sublime. Profonda, calda, dolente. Oppressa dal fardello dei mali del mondo, ma pronta a librarsi verso il cielo.
Ha un unico torto, “Field Songs”, ed è quello di andare dietro a un’opera probabilmente insuperabile, ma è bello quanto basta, cioè un bel po’, a conquistare a Mark Lanegan il secondo “disco del mese” consecutivo su queste pagine. Se avete amato “I’ll Take Care Of You”, amerete anche questo. Se ancora non conoscete Lanegan, bene, potrebbe svelarsi epifanico. Medesima la grana del predecessore, la differenza sta tutta in un minutaggio appena più generoso (siamo poco sopra i quaranta minuti) e nel fatto che i dodici brani sono questa volta autografi. Magari qualcuno scritto con altri ma bisogna andare a leggere i crediti per scoprire ad esempio, commuovendosi, che la morbida e morbosa tristezza di Kimiko’s Dream House è un altro omaggio, dopo quella Carry Home stracciacuore che inaugurava l’album prima, al compianto Jeffrey Lee Pierce. Fra gli apici di un lavoro che ai futuri compilatori di antologie offrirà piacevoli imbarazzi. Per quanto mi riguarda non potrei mai fare a meno della batteria ticchettante e dell’organo liquido e denso di swing di Pill Hill Serenade, del piano luccicante e della chitarra flamencata di Don’t Forget Me, di una Resurrection Song che è pura psichedelia pur essendo fatta, per gran parte del suo incedere, di sola voce e acustica. O del levitare su un bordone di Hammond di Blues For D. O della lamentosa, mesmerica, acida ossessione di Fix. Ma in realtà non potrei rinunciare a nessuna di queste dodici canzoni. Schegge d’Anima Americana fuori dal tempo e dunque destinate a restare immuni ai suoi oltraggi.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 215, luglio/agosto 2001.
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Blues Funeral (4AD, 2012)
Se questo album fosse un singolo e i brani prescelti quelli giusti – ossia i primi in scaletta – già entro la prima metà di febbraio non avrei il minimo dubbio su quale sarebbe a fine 2012 il mio singolo dell’anno. Impossibile – credo – superare l’efficacia a livello contemporaneamente di impatto subitaneo e di capacità di imprimersi nella memoria dell’accoppiata The Gravedigger’s Song/Bleeding Muddy Water. E a decidere il lato A sarebbero esclusivamente le durate, a meno di non pensare di approntare un edit (a costo di sminuirne un po’ l’ipnotica incisività) dei 6’17” della seconda canzone: acida e solenne nenia appesa a una chitarra da brividi e tastiere ricercatamente fuori fuoco. Quanto alla prima è perfetta così, chitarre granitiche e una melodia sinuosa distese su una ritmica incalzante e – insomma – un prodigio di DNA mischiati fra Queens Of The Stone Age e Gun Club. Non che più avanti non ci siano, fra i dieci che completano il programma, altri pezzi che potrebbero funzionare benissimo su radio anche non necessariamente alternative. Due (guarda la combinazione…) in particolare e sono esattamente i due che meno e anzi mai ti saresti atteso dall’ex-cantante degli Screaming Trees. Se la Canzone del becchino pure agli Alberi Urlanti sarebbe potuta appartenere, da dove sbucano Ode To Sad Disco e Harborview Hospital? Sulla prima la dice lunga il titolo: batteria four-on-the-floor e sì, sono i Pet Shop Boys, per quanto alle prese con i Joy Division. La seconda sono gli U2 incrociati con i New Order. Ma tanto tanto tanto…
Per essere uno che formalmente non faceva un disco da leader da otto anni Mark Lanegan in questo lungo iato davvero non è rimasto con le mani in mano: tre gli album divisi con Isobel Campbell, cui bisogna aggiungere i due con i Soulsavers e la partecipazione al progetto Twilight Swingers, più qualche ospitata. Stakanovista magari no, ma slacker men che meno. Avendo frequentato ambiti musicali abbastanza diversi fra loro ci si poteva aspettare che, tornando ad agire da leader, si muovesse sui terreni consolidati da una discografia che prima di questa annovera, in poco più di due decenni, altre sei uscite maggiori. Be’, “Blues Funeral” non somiglia veramente a nessuno dei predecessori e ci sono altri episodi, oltre ai due dianzi menzionati, dei quali individueresti l’artefice giusto per via di quell’inconfondibile voce di ghiaia e catrame, temprata a whiskey e sigarette. Parlo ad esempio di Gray Goes Black e di Tiny Grain Of Truth, entrambe dal passo motoristico, così come St. Louis Elegy che lo bilancia però con suggestioni morriconiane, o dello stentoreo hard di Riot In My House, o ancora del tonitruante glam infiltrato di coretti Stones di Quiver Syndrome. Sicché quando il crepuscolare etno-blues zeppeliniano di Leviathan si affaccia al proscenio il fan di lunga data quasi tira un sospiro di sollievo: ecco infine di nuovo, a mezz’ora dal formidabile dittico d’apertura, qualcosa di familiare. Lanegan ha saputo osare e gliene va dato atto. Che “Blues Funeral” non colga sempre il bersaglio è peccato veniale di fronte a quello capitale della resa agli stereotipi.
Pubblicato per la prima volta su Venerato Maestro Oppure il 10 febbraio 2012.

Imitations (Vagrant, 2013)
Come se un cerchio si chiudesse… Non poteva certo immaginarselo Nick Cave quando nel 1986, stupendo tutti, dava alle stampe una collezione interamente di materiali altrui che stava inaugurando un canone. Da “Kicking Against The Pricks” in avanti di album di cover che, programmaticamente o meno, provano a svelare dell’interprete più di quanto non abbiano mai raccontato le sue opere autografe ne abbiamo ascoltati molti, forse anche troppi e forse giusto un paio parimenti ascrivibili alla categoria dei capolavori: nel ’93 “Satisfied Mind” dei Walkabouts, sei anni dopo “I’ll Take Care Of You” di Mark Lanegan. Passati quattordici ulteriori anni l’ex-voce degli Screaming Trees ci riprova e fra i dodici brani con cui si misura ce n’è uno – guarda un po’ – proprio di Nick Cave. Ammetterò che sul subito non l’ho riconosciuto e, trovandosi l’originale in “The Boatman’s Call”, che considero la cosa migliore prodotta dall’artista australiano nei ’90, scorrendo i crediti mi ha fatto strano. Poi ho riascoltato e ho capito. La Brompton Oratory di Cave è gotica e liturgica, di un’intensità quietamente bruciante. Quella di Lanegan, che pure non è che l’abbia stravolta, è crepuscolare e melò. Quasi non sembra la medesima canzone e dovrebbe essere un bene e invece no, giacché laddove una versione rivela tanto dell’autore l’altra dell’anima dell’interprete nulla fa trapelare. Ce lo certifica capace di arrangiamenti raffinati, ma non è che già non lo sapessimo. Nella distanza fra due messinscene nella prima delle quali ci si gioca la vita mentre nella seconda si gioca e basta si può cominciare a misurare il complessivo fallimento di “Imitations”. Titolo rivelatore e perciò infelice.
Più che a “Kicking Against The Pricks” in un paio di frangenti verso fondo corsa viene da pensare allo sciagurato “Après” di Iggy Pop: superkitsch il recitativo di Élégie funèbre, superorchestrata la superusurata Autumn Leaves. Ma non è che prima siano rose spinose e fiori del male, da sempre quelli che più ci interessano dovendoci fare un mazzo tanto. Se una tintinnante Mack The Knife si guadagna una stentata promozione in forza di una resa che si sgrana rugosa alla Johnny Cash, a una scarnificata You Only Live Twice lo stesso identico trucco non riesce. Se Deepest Shade evidenzia come nei Twilight Singers si possa rinvenire più degli American Music Club che non degli Afghan Whigs, Pretty Colors perde impietosamente il confronto con The Voice. Che ci può stare, laddove non si fa proprio una bella figura a farsi sotterrare – Solitaire, Lonely Street – da un Andy Williams qualunque. E allora? Nulla da salvare o possibilmente da applaudire? Tre-pezzi-tre, che fa un quarto appena del programma: giusto all’inizio, una Flatlands felpata e ipnotica che mi ha fatto ripromettere di riascoltarla Chelsea Wolfe e il delizioso valzer country (da Vern Gosdin) She’s Gone. Più avanti, una dolcissima I’m Not The Loving Kind che a chi la scrisse – John Cale – dovrebbe piacere. È qualcosa, non abbastanza. Lanegan ultimamente si è sovraesposto. Si può comprendere, sono i tempi a richiederlo, ma continuando a produrre a getto continuo materiali non all’altezza delle vertiginose medie d’antan andrà a finire che i suoi dischi cesseranno di essere un ascolto obbligato. Esito opposto rispetto a quello che si vorrebbe ottenere.
Pubblicato per la prima volta su Venerato Maestro Oppure il 24 ottobre 2013.
Una recensione dell’album in coppia con Duke Garwood “Black Pudding”, sempre del 2013, è recuperabile qui.
La notizia della sua morte improvvisa mi ha davvero rattristato. Per me Mark era davvero una leggenda, un eroe. L’ho visto a Roma in concerto con Greg Dully appena formati i Gutter Twins. Le canzoni non erano paragonabili a quelle con gli Screaming Trees e neppure avvicinabili ai suoi album da solista ma quando Mark cantava, quella sera, si illuminava la scena. Mi ricordo Greg molto scherzoso e disponibile con il pubblico dopo il concerto (ha delle manone il simpatico Greg) mentre Mark più defilato era un pezzo di ghiaccio, molto riservato. Era ancora nel suo momento di grazia…ma avrei voluto ascoltare dal vivo le canzoni del suo repertorio maggiore…ora so’ che non ne avrò più la possibilità. R.I.P. grandissimo Mark!!!
terrò cari anche questi due post oltre la sua musica ❤
Pingback: reblog: Mark Lanegan (25/11/1964-22/2/2022) — Venerato Maestro Oppure – Il Canto delle Muse
Non riesco ancora a capacitarmi, cazzo. Sono stato fortunato, l’ho visto in concerto un paio di volte. Una delle più belle voci che abbia mai ascoltato.
E` particolarmente triste che, in Itaia, gente che dice di occuparsi di musica perda tempo a discutere dell’immondizia sanremese invece di analizzare il contributo alla canzone d’autore di personaggi come Mark Lanegan o Nick Cave.
Il problema è che il povero Lanegan in Italia lo conoscono in 4, mentre Giusy Ferreri in milioni. E i giornalisti si adeguano, perché gli editori soffiano sul collo. È ingiusto, ma è cosi.
L’ho visto on stage una volta, con i Twilight Singers: mark era presente fisicamente ma “perso”, se n’è andato dopo due canzoni. Ho amato gli Screaming Trees pre grunge, ma quella era farina del sacco di Gary Lee Conner. Il vero Mark Lanegan è stato quello dei meravigliosi album solisti. Grande voce, grandi canzoni. Ora ha raggiunto Layne, Kristen e Kurt. Troppo presto però.
E` vero, e` ingiusto. In questi casi pero` mi viene da pensare, forse con un po`di snobismo: “a ognuno il suo”.