
È in edicola da martedì della scorsa settimana il numero di marzo di “Blow Up”. In mezzo al tantissimo resto (le solite innumerevoli rubriche, lunghi articoli su Eric Chenaux, Susana Baca, Not Moving, Nick Drake, Lemonheads e l’usuale spropositata quantità di recensioni) si cela (nella corposa sezione riservata a letteratura e cinema) un mio piccolo, piccolissimo, infinitesimale contributo: tremila battute dedicate a quello che fu, nel 1970, il primo romanzo di Gil Scott-Heron, solo oggi infine tradotto in italiano.