We Die Young – La tragica epopea degli Alice In Chains

Nel titolo del primo brano del primo album il presagio di un destino tanto tragico quanto perseguito con attitudine ─ scientemente? ─ nichilista: We Die Young. Dei quattro che lo registrarono non sono da lungi più fra noi né il cantante Layne Staley, stroncato da una overdose di eroina e cocaina combinate presumibilmente il 5 aprile del 2002 (presumibilmente perché il corpo, già in stato di avanzata decomposizione, non veniva scoperto che due settimane dopo), a trentaquattro anni, né il bassista Mike Starr, scomparso quarantaquattrenne l’8 marzo 2011 per un’assunzione scriteriata di farmaci regolarmente acquistati con ricetta medica. Incredibile ma vero: da una band prona a eccessi tossici di ogni tipo Starr era stato allontanato già nel 1993, i sodali che mentivano pietosamente al riguardo sostenendo la versione ufficiale di dimissioni dovute a stress da troppo lavoro quando in realtà era stato accompagnato alla porta perché la sua dipendenza dalle droghe pesanti era fuori controllo. Farsi licenziare dagli Alice In Chains per avere esagerato con assortite polverine! Quanto suona grottesco, oltre che triste. Quando Staley lasciava questo mondo il complesso era in animazione sospesa da quattro anni, in speranzosa attesa che in qualche modo costui riemergesse dagli abissi in cui era sprofondato. Quattro anni dopo ancora, il chitarrista Jerry Cantrell richiamava il batterista originale, Sean Kinney, e il bassista che aveva preso il posto di Starr, Mike Inez, e trovata in William DuVall una voce adeguata alla bisogna rimetteva insieme la band. Gli Alice In Chains Mk II girano ormai da più anni di quanti non durò la prima incarnazione e hanno pubblicato altrettanti lavori in studio (tre): più che dignitosi e dagli ottimi riscontri mercantili (il penultimo, “The Devil Put Dinosaurs Here”, nel 2013 scalava la classifica di “Billboard” fino alla seconda posizione) ma che in verità nulla hanno aggiunto di rilevante a una vicenda che avrebbe potuto tranquillamente chiudersi in gloria nel 1996. Similmente a quella dei Nirvana, con un “MTV Unplugged”. Paradossalmente ma non troppo, e non sorprendentemente siccome i ragazzi fra il primo e il secondo album già avevano sistemato in discografia un EP acustico, “Sap”, con quattro ballate al limite del confessionale e fra il secondo e il terzo il mini di analoga concezione “Jar Of Flies”, l’apice artistico del più classicamente heavy metal dei gruppi della nidiata grunge. O quello o il precedente, omonimo “Alice In Chains”.

È fresco di ristampa, che ne ha celebrato con qualche mese di ritardo (usciva in origine nell’agosto ’90) il trentennale, quello che fu l’esordio a 33 giri del quartetto di Seattle. Ne sarà contento chi all’epoca magari non era ancora nato, o era un bambino, e oggi all’ascolto della musica in formato liquido preferisce (o almeno alterna) il più antico e in auge dei supporti fonografici, il caro vecchio vinile. E giustamente non era disposto a sborsare per l’edizione d’epoca di “Facelift” quei minimo centocinquanta euro che vengono richiesti su eBay o Discogs. Ne sarà contento chi al tempo quella stampa, che circolò pochissimo, non riuscì a procurarsela e dovette comprarsi il CD. E magari e anche di più chi invece ne ha una in casa e può ora, volendo, rivendersela: tecnicamente è nettamente inferiore a questa nuova versione che non soltanto è rimasterizzata ma distribuisce su quattro facciate in luogo che su due i cinquantaquattro minuti che assommano le dodici tracce in scaletta. Con ovvi benefici in termini di nitidezza e soprattutto dinamica. Per trenta euro o anche meno si potrà così godere rimessa a nuovo un’opera che, al di là di limiti che apparvero e restano innegabili per chiunque la ascolti con l’obiettività che non tutti i fans hanno (ma quasi tutti le preferiscono comunque “Dirt”, “Alice In Chains”, “MTV Unplugged”), appartiene per l’impatto che ebbe alla storia maggiore del rock.

A debuttare in lungo i Nostri arrivavano sbucando apparentemente dal nulla per chiunque non abitasse a Seattle, tutta dentro i confini cittadini o negli immediati dintorni una gavetta di un paio di anni di concerti molti dei quali di spalla ai già di una certa fama Mother Love Bone (per chi non li conoscesse: erano nati come i Mudhoney dalle ceneri dei Green River e due di loro daranno vita ai Pearl Jam). Il promoter dei Mother Love Bone, Randy Hauser, passava una cassetta di demo a Kelly Curtis e Susan Silver, manager dei Soundgarden, e tramite quelli una copia arrivava in Columbia. Clamoroso evidentemente il potenziale se non solo il quartetto veniva prontamente messo sotto contratto ma addirittura indicato come una priorità assoluta al reparto marketing. Panico, probabilmente, per una partenza commercialmente stentata, soltanto quarantamila le copie vendute nei primi sei mesi nei negozi, impasse che si sbloccava quando MTV metteva in heavy rotation il video di Man In The Box e l’11 settembre 1991, tredici giorni prima che i Nirvana pubblicassero “Nevermind”, “Facelift” era il primo disco prodotto da una scena grunge che a dire il vero gli Alice In Chains li schiferà sempre un po’, per la totale assenza in loro di qualsivoglia aggancio con il punk, a venire certificato d’oro. Almeno altri tre milioni le copie vendute da allora, di cui metà negli Stati Uniti. Non un capolavoro, si diceva, e però riascoltandolo da una lontanissima ultima volta (’98?) chi scrive lo ha trovato migliore di quanto non ricordasse. Con apici esemplari di un sound già perfettamente formato in una torpida Man In The Box e nelle ancora più sabbathiane Bleed The Freak e It Ain’t Like That, laddove Sea Of Sorrow evoca piuttosto i Led Zeppelin. E deviazioni apprezzabili nella menzionata all’inizio We Die Young, in scia ai primi Metallica, in una Put You dal riffeggiare e dall’ancheggiare rock’n’roll invece alla Aerosmith e nel crossover di marca Red Hot Chili Peppers I Know Somethin (Bout You). Non lo avrei detto: da recuperare.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.427, gennaio 2021. Layne Staley ci lasciava, trentaquattrenne, il 5 aprile 2002. Qui sotto un link a un’intervista concessa dal sottoscritto nel settembre dello scorso anno al canale You Tube “About Grunge”, ideato e gestito dall’ottimo Cristiano Lucidi. Fra il tanto resto, molto dibattemmo proprio degli Alice In Chains.

5 commenti

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5 risposte a “We Die Young – La tragica epopea degli Alice In Chains

  1. Rusty

    Complimenti Eddy, sei molto efficace anche in video: chiarezza espositiva, contenuti, tono e timbro della voce ottimali. Solo nella cialtronesca televisione italiana non se ne sono accorti. Se poi è una tua scelta starne alla larga, chapeau.

    • Paolo Backstreet Iglina

      Figurati, lì preferiscono il “pensiero selvaggio” dell’ex diretur…

    • Non mi sono mai proposto, non mi hanno mai chiamato. Ma mi immagini a fare il pagliaccio a – un programma a caso – “Uno Mattina”? Altra cosa sarebbe una collaborazione con Sky Arte, ma non ho nessun aggancio.

      • Rusty

        Su Sky Arte vedo ogni tanto Guglielmi nella meritoria serie 33 giri Italian Masters, ma lui è di Roma e forse è più facilitato. Comunque concordo, è forse l’unico canale (si dice ancora così?) dove si parla di musica con serietà e approfondimento.

  2. Diana

    La migliore “love hate love” dimenticata a favore di put you down e I know something che sono gli anelli deboli del disco.

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