
Alla fine ci riusciranno ─ nel 2013, nel loro terzo e ultimo disco collaborativo, il più sorprendente per un gruppo di musica nera dopo che in “Wake Up” (2010) e “The Movie” (2011) avevano fiancheggiato rispettivamente John Legend e Betty Wright: più roba “loro” ─ a pubblicare un album su Blue Note. Probabile che per qualche lettore “Wise Up Ghost And Other Songs” sia l’unico album dei Roots presente negli scaffali. Per certo lo possiede chi è un cultore del co-intestatario: Elvis Costello, niente di meno. Se non ne ha altri del gruppo o della posse che dir si voglia di Philadelphia è sperabile che sia per una questione di gusti (sempre legittima) e non a causa di un pregiudizio che incredibilmente resiste (a quarant’anni dacché Grandmaster Flash ne offrì una prima plausibile istantanea in Wheels Of Steel!) riguardo all’hip hop in una parte consistente del pubblico del rock come di quello del jazz: che non abbia dignità di musica seria, “vera”, ciò che viene spesso assemblato partendo da frammenti, talvolta rielaborati ma talaltra ripresi pari pari, di brani pre-esistenti. Come se non ci volessero una maestria, una manualità eccezionali a usare il giradischi come uno strumento. Come se non servissero una profonda comprensione dei materiali scelti per creare cosa nuova magari recuperando pochi secondi appena, cultura, gusto, ingegno, se è invece un campionatore che si adopera. Però, ecco, persino chi la pensa così se si concedesse di fare la conoscenza di Questlove, Black Thought e variabili compagni (un paio di dozzine dagli inizi a oggi) potrebbe non dico cambiare idea ma provare del sacro rispetto per costoro. In particolare per il primo, al secolo Ahmir Khalib Thompson e batterista formidabile che si è sempre circondato di musicisti di grande tecnica oltre che sentimento. Musicisti. Ecco: a stretto rigor di termini i Roots, che a mia memoria raramente hanno usato campionamenti (se è mai capitato loro di far ricorso a qualche… prestito preferendo risuonarlo) e mai hanno avuto un dj, nemmeno andrebbero catalogati alla voce hip hop. Sono una rap band, la prima che ci sia mai stata se non si contano i pionieri Last Poets, che oltre alle voci usavano soltanto percussioni, o Gil Scott-Heron, che… be’, non era una band. Primi e unici, se non si vuole andare a finire nel crossover. E sotto le rime sgranate da Black Thought, al secolo Tarik Luqmaan Trotter, hanno sistemato di tutto in un catalogo di straordinaria consistenza che purtroppo non viene aggiornato dal 2014: dal soul, con quanto ci sta attorno quasi nulla escluso, al jazz e persino all’hardcore punk.
Ma tornando alla Blue Note: è lampante omaggio all’inconfondibile estetica di una delle etichette che hanno fatto la storia del jazz la copertina di “Do You Want More?!!!??!”, che gli allora giovanotti (i leader, coetanei, non hanno che ventiquattro anni) pubblicano nel 1995. È il loro primo album per la DGC di David Geffen (che visti riscontri commerciali modesti per l’ultima età aurea della discografia concederà loro solo un’altra chance; salvo riprenderseli in casa nel 2004 e venire ripagata con “The Tipping Point” da un numero 4 USA) e secondo in assoluto. La gavetta è stata lunga. Thompson e Trotter si sono conosciuti sui banchi di scuola nell’87 e subito hanno cominciato a esibirsi agli angoli di strada del loro quartiere alla maniera dei vecchi complessi doo wop, maturando esperienza e rimediando qualche dollaro dai passanti. Dopo qualche tempo si sono uniti loro un secondo rapper, Malik Abdul Basit, più in breve Malik B., e un bassista, Josh Abrams, e sono arrivati i primi ingaggi da bar e club. Con Abrams rilevato da Leonard Hubbard, Hub per gli amici, che suona indifferentemente basso elettrico e contrabbasso, il gruppo compie un decisivo passo avanti nel processo di definizione di un sound che si perfeziona ulteriormente con l’innesto del tastierista Scott Storch. Strumento di elezione di costui uno stagionato piano elettrico Fender Rhodes e chi legge avrà inteso da che parte ci si butti. Ormai popolari in città e pure a New York i Roots il loro primo album, “Organix”, dovranno però autoprodurselo (Remedy è giusto un marchio che inventano allo scopo), nel ’93, per avere qualcosa da vendere ai concerti. Disco con qualche buono spunto ma acerbo e che letteralmente scompare se lo si raffronta al coevo “Jazzmatazz” di Guru, primo album in cui dopo essersi a lungo corteggiati rap e jazz trovavano un punto di equilibrio. Davvero poco in esso anticipa l’enormità del successore.
All’epoca, quando clamorosamente errando si pensava che il più nobile dei supporti fonografici fosse destinato a estinguersi, su vinile il corposissimo programma, sedici tracce per complessivi settantuno minuti, venne stampato integralmente solamente in Europa, naturalmente su un doppio. Laddove negli USA criminalmente vedeva la luce scorciato di sei pezzi su un singolo. Fa ora giustizia la Geffen, addirittura trasformandolo in un triplo oppure un quadruplo con lussuoso libro a corredo, aggiungendo due oppure quattro facciate di versioni alternative e remix, alla cui selezione ha provveduto in prima persona Questlove. “Rimasterizzato dai nastri originali”, viene garantito, e allora per fortuna non era vero che questi fossero andati distrutti nel 2008 in un incendio, come ancora si legge su Wikipedia. Niente viene in ogni caso aggiunto di irrinunciabile a un programma già in partenza monumentale. Non solo per durata, trattandosi di un capolavoro in cui non si saprebbe dire se a prevalere sia il senso del groove o il gusto per lo swing, basi di eleganza somma su cui passeggiano, si arrampicano, si intrecciano voci con un flow che da allora pochi hanno avvicinato, una batteria micidiale a legare oltre che a scandire. Non potendo citarli tutti mi limito ad alcuni titoli che ho scoperto indelebili nel ricordo: una flemmatica Proceed e la poppissima Mellow My Man, una Datskat di chiara ascendenza Native Tongues e una traccia omonima con tanto di cornamuse (!), la stupefacente performance live Essaywhuman ?!!!??!, una Swept Away sontuosamente soul e ancora Silent Treatment, in levare. Cito anche, per stuzzicare perfidamente il jazzofilo, alcuni ospiti: Steve Coleman (sax), Graham Haynes (tromba), Joshua Roseman (trombone). In unico brano, Cassandra Wilson (voce).
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review” n.432, giugno 2021. Da esattamente otto anni i Roots non danno alle stampe un album nuovo e nel frattempo Malik B. e Hub ci hanno purtroppo prematuramente lasciati. Do we want more? Certo che sì.
Grandissimo articolo di MUSICA su una band che fa musica al 100% come la si voglia mettere e dire, pregno e carico con i link a corredo, da fan prima di Costello che ci ha visto lungo, almeno per principio e intenzioni, nell’occasione della collaborazione Wise up ghost per me un pò sorprendentemente all’epoca su blue note come fu per esempio lo scorso anno We Are di Jon Batiste su Verve, e a sto punto mi toccherebbe approfondire questi gustosi groove su etichetta jazz, poi dei The Roots.
Tra i miei ascolti mi viene in mente Alfa Mist, mentre per quanto riguarda il Rap rock un album nostrano come Conflitto degli Assalti Frontali per approccio strumentale.