Sulla carta è tutto sbagliato. Perché ci sta che una band che ha fatto la storia del rock nel lontano ultimo decennio dello scorso secolo torni insieme e a tal riguardo si possono fare diversi esempi di rimpatriate dagli esiti eccellenti: Ride e Slowdive, per limitarsi a due nomi e restando in Gran Bretagna e a all’interno di una scena, quella dello shoegaze, della quale i Boo Radleys furono fra gli esponenti di punta. Ma… riformarsi senza Martin Carr che non solo ne era il leader ma ne firmò il 99% del repertorio? È come immaginarsi dei Talking Heads che danno alle stampe un album nuovo e David Byrne non c’è. Una follia, sulla carta. E invece…
E invece ad ascoltare il primo lavoro in studio dei Boo Radleys (settimo in tutto) pubblicato a ventiquattro anni da “Kingsize” senza sapere dell’assenza di Carr (al sottoscritto è successo: l’ho scoperto quando ho cominciato a cercare informazioni prima di fargli fare un secondo giro) si tira un sospiro di sollievo: naturalmente non avvicina le vette olimpiche del capolavoro del 1993 “Giant Steps”, è godibile ma non irresistibile quanto quel “Wake Up” che nel ’95 era un numero 1 UK, e però vale almeno gli ultimi due dischi della formazione storica e pure l’acerbo debutto del ’90 “Ichabod And I”. Dei due grandi album summenzionati prova a fare sinossi, inclinando un po’ più verso il secondo: declinando allora un pop estroso, con armonie vocali spumeggianti, arrangiamenti orchestrali importanti, accostamenti di stili spericolati. Sono 100% Boo Radleys canzoni come I Say A Lot Of Things (riff rock, fiati errebì, archi bacharachiani e un accenno di reggae), Here She Comes Again (John Lennon in botta dub), Alone Together (Stereolab e Oasis in collisione).
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.
C’era una volta il futuro, si potrebbe dire, e dopo Blade Runner non c’è più. Mai fantascienza è invecchiata così bene e anzi per nulla, mai ha saputo fondersi nel presente con tale gradualità da sfumare ogni differenza. Ti guardi attorno e la società multietnica fotografata da Ridley Scott è… tutto intorno a noi, come il disastro climatico montante, la pubblicità onnipervasiva, i computer su cui a ogni livello basiamo sempre più le nostre vite. Quali le differenze fra la metropoli in cui si muovevano un quarto di secolo fa i replicanti e il loro cacciatore e certo Estremo Oriente? Ma non è solo su questo che il capolavoro di Scott fonda insieme la sua persistente attualità e un collocarsi fuori dal tempo. È che pone quelle domande che mai potremo eludere e alle quali mai potremo dare risposte compiute che non siano fideistiche: chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando. Questo il nucleo. Ma non si può dire siano mero contorno né suggestioni visive che ridisegnavano il nostro immaginario come a nessun film è mai riuscito né quelle di una colonna sonora che, più che commentare, si fa protagonista. Spesso mattatrice assoluta.
Come il film, anche la colonna sonora ha avuto più versioni ed è giusto così, perché ci sono storie che racconteremo fino a un attimo prima di estinguerci. Una apocrifa della New American Orchestra già nell’82 e paradossalmente quella originale firmata da Vangelis solo nel ’94. Questa “Trilogy” è forse quella definitiva, con tutte le musiche che avevamo potuto ascoltare al cinema e altre nuove miracolosamente capaci di reggere il confronto, intercambiabili, fra cyberjazz e lounge di macchine, Orienti e autunni dell’anima e un’elettronica di un’umanità che ti fa sciogliere in lacrime nella pioggia e non sai perché.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.287, febbraio 2008. Blade Runner usciva nelle sale americane il 25 giugno 1982. Vangelis è scomparso lo scorso 17 maggio, settantanovenne.
Con qualche giorno di ritardo dovuto alla scelta di offrire subito ai lettori un ampissimo reportage sulla fiera dell’alta fedeltà tenutasi a Monaco di Baviera dal 19 al 22 maggio, è in edicola da inizio settimana il nuovo numero di “Audio Review”. La sezione musicale contiene mie recensioni degli ultimi album di 50 Foot Wave, Horace Andy, Bloc Party, Ghost Power, Girlpool, Melody’s Echo Chamber, Kevin Morby, Willie Nelson, Old Crow Medicine Show, Porridge Radio, Eli “Paperboy” Reed, Spiritualized, Kurt Vile e Zola Jesus e di recenti ristampe di Norah Jones e Scritti Politti. Nella rubrica del vinile ho scritto in lungo (una pagina) dei Pearl Jam e più in breve degli Who.
Devo sfortunatamente segnalare un (raro; l’ultimo analogo risale a diversi anni fa) refuso: il voto allo splendido disco dei Ghost Power è diventato in sede di impaginazione “7”, da “8” che era.
Mentre stiamo scrivendo queste righe l’Algeria ha appena celebrato – cade il 3 luglio – il trentesimo anniversario dell’indipendenza. L’ha fatto in un’atmosfera che l’assassinio del suo presidente, a pochi mesi di distanza da un golpe militare, ha reso, se possibile, ancora più carica di tensione, con i carri armati a presidiare ministeri, radio, televisione, moschee e gli incroci chiave delle città principali, a salvaguardia della democrazia. È esemplare del paradosso algerino questa situazione sconcertante: le forze armate fedeli a quella classe politica che dopo avere sottratto il paese al giogo coloniale lo ha portato, imponendo un regime filosocialista, a tappe forzate nel XX secolo, e che poi è riuscita miracolosamente ad autoriformarsi prima di venire del tutto corrotta dal decennale esercizio del potere e a trasformare la nazione in senso liberale, si trovano a difendere con la forza la neonata democrazia da un fondamentalismo islamico che vuole distruggerla nel nome dell’unica legge che riconosce, quella del Corano. Dopo essere stato perseguitato a lungo nel più totale dispregio delle regole del gioco democratico (vorrebbe essere dall’altra parte della barricata, oggi) e dopo avere vinto regolari elezioni, si badi bene.
È davvero tutta una contraddizione l’Algeria, sospesa com’è fra medioevo e modernità, fra pulsioni nazionalistiche e voglia di Europa, ricca di risorse ma con un reddito medio da Terzo Mondo che, combinandosi con un coefficiente di natalità da capogiro (4% annuo: ne consegue che ci si trova di fronte a un paese ove gli “under 30” sono la maggioranza), alimenta imponenti flussi migratori verso la madre matrigna francese e gli stati del Golfo in primo luogo, ma anche verso l’Italia.
Camminano fra noi i fratelli algerini (e Roma è più vicina ad Algeri che non a Londra o a Berlino), eppure di loro sappiamo poco e quel che è peggio è che, succubi come siamo di una visione eurocentrica della storia, non ci impegniamo come dovremmo a cercare di comprenderli meglio. La scarsa conoscenza alimenta il pregiudizio e cresce il rischio che i fermenti razzisti da striscianti si facciano rampanti.
Chissà che la musica non compia il prodigio di lanciare un ponte, fra noi e loro.
Il raï
Una borghesia illuminata e colta e masse schiave dell’ignoranza (dicono le statistiche che gli analfabeti rappresentano il 50,4% della popolazione). Casalinghe con il viso coperto dal chador e finissime intellettuali femministe. Una sessuofobia (che accomuna la dottrina islamica e il moralismo dei vecchi rivoluzionari) largamente diffusa e sui tetti, magari a fianco di un minareto, antenne paraboliche puntate verso l’Italia a carpire dalle nostre emittenti visioni di nudo. Tutto questo è l’Algeria e una musica come il raï solo qui poteva nascere. Anzi, solo in una certa località che ha caratteristiche che la rendono unica. Si chiama Orano ed è un mondo a sé rispetto al resto del paese per via delle sue larghe vedute in fatto di costumi, lascito di un passato di città-bordello per le truppe spagnole di stanza nel vicino Marocco. In questa sorta di porto-franco la vita culturale è vivacissima e la tradizione musicale araba ha trovato terreno fertile quando, a partire dai tardi anni ’60, ha cominciato a fondersi con i ritmi del rhythm’n’blues e del rock e poi, nel decennio seguente, del reggae, del funky e della disco. Qui le mode di importazione e la musica popolare urbana algerina (la cui nascita si può datare intorno agli anni ’30 e che è già essa musica di fusione, fra la tradizione rurale autoctona e influenze francesi, spagnole e dell’Africa Nera) si sono pian piano amalgamate, complice la sempre più larga diffusione degli strumenti elettrici, e poi elettronici, in un qualcosa di assolutamente inedito ed esplosivo, che ha preso possesso del paese intero ed è quindi dilagato nel resto del Nord Africa e, usando la Francia come testa di ponte, in Europa.
È cento cose insieme, il raï. È innanzitutto uno straordinario portavoce generazionale, ché nei testi (tanto semplici quanto incisivi e densi di pathos, come è proprio del blues e del soul) dei tanti “cheb” e delle quasi altrettanto numerose “chaba” si riconoscono le moltitudini dei giovani algerini, quelli che ancora vivono in patria e ancora più quelli che hanno dovuto abbandonarla per sfuggire alla povertà (del resto, parecchi dei musicisti raï hanno conosciuto in prima persona – seppure, è ovvio, da una posizione privilegiata – l’esperienza dell’emigrazione). Come il punk è insieme urlo di rivolta e presa di coscienza. Come il reggae è cronaca popolare, da piazza del mercato. Come l’hip hop è arte di strada praticabile da chiunque ne percepisca il feeling. Come il jazz dà largo spazio all’improvvisazione. Come il pop migliore sa essere epidermico senza scadere nella banalità. Ed è musica dalla fisicità travolgente, come il funky.
Niente di meglio, per accostarvisi, che portarsi a casa la capitale raccolta “Raï Rebels”, datata 1988 e marchiata Earthworks/Virgin. Sulla cui copertina campeggia una bella foto di Cheb Khaled, immortalato in azione in un qualche night. Omaggio sacrosanto: se mai il raï avrà il suo Bob Marley – ossia un personaggio di tale statura artistica e di così grande carisma da farlo diventare, da fenomeno ancora prevalentemente regionale quale è (e quale era una volta il reggae), parte importante del patrimonio musicale planetario – questi non potrà essere altri che il Nostro.
Piace Khaled, al di là della sua bravura, per la simpatia che ispira con i suoi atteggiamenti deliziosamente guasconi, per quella carica iconoclasta che ha senza forse nemmeno rendersene conto e ne fa una sorta di Johnny Rotten arabo, senza però il furore nichilista dell’ex-Sex Pistols. Campione di scapigliata doppiezza, professa fedeltà alla religione musulmana ed è capace di presentarsi a una conferenza stampa brandendo una bottiglia di champagne. In pieno Ramadan oltretutto! Abilissimo nel barcamenarsi fra autorità civili e religiose, conquistandosi la benevolenza almeno delle prime, la sua El Harba Wine è stata nell’autunno ’88 la colonna sonora della tragica rivolta del pane di Algeri (forse ricorderete: cinquecento morti).
È un po’ Sam Cooke – la voce morbida e sensuale, la sobria eleganza – e un po’ James Brown, come ebbero modo di scoprire quanti accorsero (numerosi: al meneghino Palatrussardi novemila; oltre millecinquecento, con conseguente “tutto esaurito”, al torinese Big Club) ai suoi primi concerti nel Bel Paese, due anni or sono, e si trovarono di fronte una band dal drive micidiale. Roba da Famous Flames, appunto.
Faccenda ardua dispensare consigli per gli acquisti a coloro che, incantati dalla più recente uscita (di cui si dirà fra poco) del nostro eroe, volessero ripercorrerne a ritroso la carriera. Compilare qualcosa che somigli anche vagamente a una seria discografia in ambito raï è impresa disperata, poiché come è norma nel Terzo Mondo è una musica che viene diffusa nei luoghi di origine usando come supporto esclusivamente le cassette, che vengono assemblate e riassemblate (spesso con l’assenso, quando non la complicità, degli stessi artisti) da schiere di etichette più o meno legali e poi piratate a tutto spiano. Accade così che del medesimo lavoro circolino decine di versioni, con copertine, scalette e missaggi differenti l’una dalle altre. Ogni tanto, qualcosa viene acchiappato da case discografiche occidentali, stampato anche su vinile e CD e diffuso nel nostro mercato.
Previa ricerca non delle più facili, è possibile catturare una mezza dozzina di album del re del raï. Da evitare “Kutché” (Music Zone), a quattro mani con il jazzista Safi Boutella, esperimento di crossover ardito ma dagli esiti infelici. Tutto sommato dispensabili anche “Duo” (Hamedi), in coppia con Cheb Kada, sei canzoni non male tenute in ostaggio dal synth prevaricatore di Jean-Marc Bourel, e “Moule El Kouchì” (Celluloid), interessante ma acerbo. Buono invece “Fuir, mais où?” (Celluloid), che contiene la succitata, celeberrima El Harba Wine, e stupendo “Hada Raykoum” (Triple Earth), un’autentica pietra miliare. Opera che fino a ieri l’altro avremmo scommesso insuperabile.
La nuova frontiera
Ci ha fatto cambiare idea il portentoso “Khaled” (come avrete notato, il prefisso “Cheb”, che significa “giovane”, è caduto: ha passato la boa dei trent’anni il Nostro), dato alle stampe in primavera inoltrata dalla Barclay. Registrato fra Los Angeles e Bruxelles, con due produttori prestigiosi quali Don Was e Michael Brook, è un LP che fin d’ora si può etichettare “epocale”, perché è il più riuscito tentativo di fusione fra melodie magrebine, funky, jazz e pop occidentale che si sia mai ascoltato. Uno squarcio di abbacinante fulgore di un futuro, più che possibile, sicuro.
Va dritta alle gambe questa musica ma sa parlare pure, come tutta la grande arte, a cuore e intelletto. È commerciale, nel senso di “facilmente vendibile”, ma anche di altissima qualità, al punto che non vi è un titolo, fra gli undici che compongono “Khaled”, cui si potrebbe rinunciare. Cosa scegliere fra il passo funkeggiante e i bei fraseggi di tromba di Didi e le venature jazz di Liah Liah, soffice e sinuosa? Fra l’incredibile connubio fra raï e scenari di pop-rock alla Steely Dan di El Arbi e quello fra chitarre latineggianti e fisarmoniche da Lungo Senna di Wahrane? Che dire di Mauvais sang, che prende le mosse araba al quadrato e decolla sulle ali di una scansione percussiva hip hop e un basso ultrafunky? O dei fiati rhythm’n’blues di El Ghatli?
È un capolavoro “Khaled”, e pure qualcosa di più: è il simbolo di un avvenire possibile, se abbastanza uomini di buona volontà lo desidereranno, di pace, rispetto reciproco, armoniosa unione per i popoli del pianeta tutto e per quelli che si affacciano sul Mediterraneo in particolare. Vi pare poco, per un disco?
Pubblicato per la prima volta su “Dance Music Magazine”, settembre 1992. “Khaled” era arrivato nei negozi il 16 giugno.
Registrato fra Bologna, New York, Chicago e Montreal e con vari ospiti stranieri (per limitarsi ai due di più alto profilo: l’ispano-americana Xenia Rubinos, il cui recente “Una rosa” è stato lodato pochi mesi fa su queste pagine, e il jazzista di confine Colin Stetson) nel lungo elenco dei crediti, il terzo album dei C’Mon Tigre ne ribadisce valore e profilo internazionale. Ne conferma, a partire dalla splendida copertina che rimanda al debutto omonimo del 2014 e al seguito datato 2019 “Racines”, la capacità di restare inconfondibili aggiustando ogni volta il tiro, aggiungendo elementi, spostando le coordinate. “La nostra ricerca è una parabola variabile che è partita dall’Africa e ha poggiato i piedi in Asia”, raccontavano lo scorso anno in un’intervista ad “Alias”, aggiungendo che “per il prossimo disco abbiamo altre mete, imprevedibili”. Dichiarazione di intenti che “Scenario” vidima.
È musica continuamente in viaggio: enorme la distanza che separa i 55” per oud e synth tremolante dell’inaugurale Deserving My Devotion dalla dance a cassa dritta del congedo Sleeping Beauties, che sarebbe spiazzante non l’avesse anticipata qualche traccia prima una fulminea incursione in area Underworld chiamata Burning Down. Eppure tutto si tiene e fluisce armoniosamente, in special modo in una prima facciata che all’electro-afrobeat di Twist Into Any Shape fa andare dietro la brasiliana e cinematografica Kids Are Electric, a una Supernatural che evoca Tricky una Automatic Control dalla orchestrazione alla Portishead. Prima facciata, ecco: per ora “Scenario” è previsto che esca solo in vinile. L’auspicio è che, come accadde con “Racines”, si provveda in seguito a renderlo disponibile pure in CD.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.441, aprile 2022.
“Leggenda vivente ma poco praticante almeno dall’esilarante cameo datato 1980 in Blues Brothers, dove veste i panni di un venditore di strumenti musicali, l’artista georgiano ha caratterizzato i suoi anni ’80 e ’90, dopo che già i ’70 non erano stati memorabili, con album commerciali nel senso più deteriore del termine e una lunga serie di comparsate in dischi di gente non alla sua altezza, da Billy Joel agli INXS, dai Take 6 a Barbra Streisand. Di tutto ciò ha pagato il fio proprio venendo invece sottovalutato, vedendo la sua figura spostarsi da quel centro della scena che gli spetterebbe in rievocazioni di assieme del soul sulle quali la miseria dell’evo moderno pesa più di quanto dovrebbe. Non essendo scomparso anzitempo come Cooke o Redding, essendo la memoria delle sue imprese meno fresca di quelle nel bene e nel male congiurate da James Brown, non avendo vissuto seconde giovinezze né tantomeno potendone vantare una terza come Burke o magari una quarta come i Blind Boys Of Alabama, perché il mondo si ricordi perché venne chiamato The Genius può scegliere: potrebbe confezionare un suo ‘Don’t Give Up On Me’, o morire.”
Mai stato così (involontariamente) tempestivo, “sulla notizia” come si suol dire, in ventidue anni di onorata carriera: da me scritte sul finire del 2003, in una trattazione sui classici di soul e rhythm’n’blues, queste righe diventavano di pubblico dominio nella seconda settimana di giugno dell’anno successivo, quando il volume suddetto andava in libreria. Sapete quando è morto Ray Charles? Il 10 giugno 2004. Inevitabile che alla luttuosa nuova un’agra risata mi salisse alle labbra. Da allora ho scoperto di essere stato anche più preveggente di quanto non mi fosse parso sul subito: non solo con il postumo “Genius Loves Company”, registrato in circostanze drammatiche mentre la malattia incalzava, il nostro eroe ha scalato le classifiche, come non succedeva da parecchio, ma il film che ne racconta la straordinaria vita ha raccolto notevolissimi consensi sia di critica che di pubblico negli Stati Uniti e in tanti lo prevedono fra i protagonisti della corsa agli Oscar. Vedremo. Per intanto le ovazioni per l’ultimo sforzo (davvero) di Brother Ray più riascolto il disco, uscito in settembre, e più mi lasciano perplesso: decisamente, non un “Don’t Give Up On Me” (l’inatteso capolavoro che nel 2002 rilanciò Solomon Burke). Un album che commuove, questo sì, registrato da un uomo che se ne sta andando ma ancora c’è. Ti fa salire un groppo in gola sentire una delle voci più inconfondibili di sempre ridotta a un filo costantemente sul punto di spezzarsi, prevaricata, senza che probabilmente nessuno di costoro lo volesse, dalla folla di ospiti convocata per una collezione di duetti, di solito il trucco finale (ciao, Old Blue Eyes) di chi non ha più nulla da dire. Se la freschezza di Norah Jones ha la meglio in una Here We Go Again cui dona innocenza ineffabile, Elton John domina totalmente una Sorry Seems To Be The Hardest Word che resta la più soulful delle sue creazioni, Bonnie Raitt fa piangere e pungere magistralmente la slide in Do I Ever Cross Your Mind? e fra i tanti persino quell’altro defunto per ora in metafora di Van Morrison fa la sua porca figura al confronto, come non gli accadeva da ere giurassiche, riesumando Crazy Love. Ma il disco non sarebbe stato (oltre che un sì grande successo mercantile) indimenticabile ─ carino, al massimo ─ nel senso giusto del termine nemmeno con il padrone di casa al top, figurarsi così, spettacolo patetico, imbarazzante, che fa pornografia della morte e rende furiosi per il cinismo di uno showbiz prontissimo a monetizzare l’emozione per l’uscita di scena di un gigante. Soltanto un brano dei dodici in programma giustifica appieno, artisticamente, la sua esistenza ed è Sinner’s Prayer, blues energico ed elegante in cui trilla la chitarra di B.B. King e le mani di Ray Charles corrono sulla tastiera come ai tempi belli, evidentemente non ridotte dal cancro ai minimi termini come le corde vocali.
Ma forse no, forse sbaglio tutto, forse non ho capito niente. Il film era in lavorazione da molto prima che il male (che ha progredito velocemente) si manifestasse ed è una coincidenza ─ fortunata o sfortunata, fate voi ─ che sia uscito a tragedia compiutasi. Magari, gli applausi sarebbero stati lo stesso scroscianti. E quanto all’album c’è un altro modo di vederlo: un supremo sforzo di volontà di un uomo che nell’ultima uscita pubblica, lo scorso aprile (l’occasione la proclamazione degli studi al 2107 di West Washington Boulevard, Los Angeles, in cui ha lavorato per decenni a monumento storico), portato sul podio per il discorso di ringraziamento su una sedia a rotelle, dopo qualche frase di circostanza ha raccolto le energie residue per dire agli astanti che “sono debole, ma mi sto rimettendo in forze”. Ray Charles è morto come ha vissuto: rifiutando di arrendersi a una sorte oltraggiosa. Ha cantato e suonato finché non ne ha avuto più e in ogni caso “Genius Loves Company” è nella media, non fenomenale, delle produzioni dell’ultimo trentennio. Forse, lievemente sopra.
Prosegue per altre 27.729 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.81, febbraio 2005.Ricorre oggi il diciottesimo anniversario della scomparsa dell’artista.
Che bello potersi entusiasmare per un semi-esordio (pubblicato nel dicembre 2020, con i suoi sei brani per complessivi trenta minuti “Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine” in altri decenni sarebbe stato considerato debutto in lungo) quale è questo dei King Hannah, duo domiciliato a Liverpool formato dalla cantante e chitarrista gallese Hannah Merrick e dal chitarrista Craig Whittle. È che trasmette una freschezza che sconfina nell’innocenza che inevitabilmente intenerisce. È che la scaletta è benissimo congegnata, con due interludi che sono in realtà introduzioni ai brani in cui sfumano e le dieci canzoni vere che lo compongono che alternano sapientemente atmosfere ed emozioni creando un fluire armonioso. Spostane una e non è che verrebbe giù tutto ma ecco, pur restando un ottimo album “I’m Not Sorry, I Was Just Being Me” non sembrerebbe più il piccolo miracolo che è. Giacché i dettagli sono parte integrante della grandezza. Sempre.
A non essere un dettaglio è come mettendo a nudo i loro cuori ragazza e ragazzo risultino disarmanti anche per il più cinico dei navigatori di lungo corso dei mari del pop. Il che fa sì che l’elenco delle influenze non si trasformi nel solito argomento del “tutto già sentito”. Perché no, perché persino nell’omaggio smaccato ai Portishead di “Dummy” di Foolius Caesar i King Hannah riescono a essere unici. Lo sono a maggior ragione quando squadernano il blocchetto degli appunti: distillando doom dalla prima PJ Harvey in A Well Made Woman, evocando lo Springsteen devoto ai Suicide in Big Big Baby, gettando un ponte fra il Neil Young di On The Beach e quello di Cortez The Killer in The Moods That I Get In, giocando nella traccia omonima lui a far Nick Cave, lei Kylie Minogue.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.441, aprile 2022.
Stroncato da un infarto Dr. John, al secolo Malcolm John Rebennack Jr, ci lasciava il 6 giugno 2019. Anziano ma non troppo, settantasettenne, e in ogni caso e per quanto fosse “pulito” da trent’anni un miracolo sia arrivato alla terza età uno che si trascinò un serio problema di dipendenza dall’eroina per quasi altrettanto tempo e dunque dacché era appena un ragazzo. Problema che in gioventù gli costò un paio di anni nelle patrie galere, quando già nella “sua” New Orleans era uno dei nomi di spicco della scena cittadina. Però: è morto da vivo, che visto che tutti dobbiamo andarcene è il miglior modo per farlo. Fulgida seconda giovinezza, il suo XXI secolo è stato scandito da una marea di dischi e fra essi alcuni dei migliori di una vicenda principiata nel 1959 con la hit locale Storm Warning: si segnalano nel folto novero splendide raccolte tributo a Duke Ellington, Johnny Mercer e Louis Armstrong e poi “N’Awlinz: Dis Dat Or D’Udda”, diviso fra standard e composizioni autografe, e soprattutto “Locked Down”. AD 2012. L’ultimo capolavoro, strepitoso nel riassumere un suono e una carriera, perfetta chiusura di cerchio rispetto agli album di cui state per leggere. Dopo di che ci sarà tempo per un Ultimo Valzer, “The Musical Mojo of Dr. John: Celebrating Mac and His Music” (registrato nel 2014, pubblicato nel 2016), per chi all’Ultimo Valzer originale, quello di The Band, aveva partecipato con una memorabile Such A Night.
All’esordio a 33 giri “Gris-Gris” Dr.John (The Night Tripper, aggiunge l’oscura e un po’ inquietante copertina) approda dopo lunga e tumultuosa gavetta dalla quale si potrebbe trarre un film se non una serie TV. Appassionatosi inevitabilmente alla musica, essendo il padre un patito di jazz proprietario di un emporio in cui vende anche dischi e avendo fratelli, cugini, zii e zie che si dilettano a suonare, ha scelto come strumento la chitarra ma ha dovuto ripiegare prima sul basso e poi sul pianoforte dopo che in una rissa scoppiata in un club in cui stava esibendosi qualcuno ha estratto una pistola, ferendolo all’anulare della sinistra. È il 1960 e il giovanotto oltre al piccolo successo summenzionato ha già in cv un altro brano (Lights Out) che ha scalato le classifiche regionali sebbene nell’interpretazione del rocker Jerry Byrne, la militanza in diverse band, un impiego da produttore alla Ace ottenuto quando ancora frequentava un liceo gestito da gesuiti che, venuti a sapere che un allievo frequentava locali malfamati e, non bastasse, una cerchia di amicizie in massima parte di colore, procedevano tosto a espellerlo. Ignorando, gli ingenui, che già integrava i guadagni da musicista gestendo, nella più gloriosa tradizione dei bassifondi di Crescent City, un bordello e trafficando in sostanze stupefacenti. Ne era viceversa a conoscenza la polizia, scattavano le manette e al rilascio dal carcere nel 1965 il giovanotto scopriva che del sottobosco di bar che gli aveva in precedenza dato in vari modi da vivere il comune aveva nel frattempo fatto piazza pulita. Si trasferiva a Los Angeles e in breve diveniva uno dei turnisti più ricercati (dei suoi servigi usufruivano da Sonny & Cher a Frank Zappa passando per i Canned Heat) nella Mecca dell’industria discografica USA. Nell’ordine delle cose che qualcuno gli offrisse un contratto da solista ed era la ATCO, per cui vedranno la luce tutti gli album qui affrontati. “Gris-Gris”, allora. Originalissimo ─ inaudito, addirittura ─ persino in un anno, il 1968, che in opere originalissime e inaudite non lesinò. Ovvero: il rhythm’n’blues di New Orleans approcciato con uno spirito che trascende la psichedelia facendosi rito vudù. Sciamanico e licantropo, dal bluesaccio, Gris-Gris Gumbo Ya Ya, che lo inaugura beefheartiano e con un uso dell’eco che strabiliantemente anticipa tecniche che saranno del dub, a una I Walk On Guilded Splinters in cui già abita Tom Waits e non il cantore confidenziale di notti in night e hotel di infimo ordine della prima, romantica parte di carriera bensì quello che con “Swordfishtrombones” ─ mancano quindici anni! ─ svolterà astratto, spigoloso, mercuriale. Debutto pazzesco, che indifferentemente mette in fila una Danse Kalinda Ba Doom profumata di Africa e Mediterraneo e una Mama Roux da Little Feat (che ancora non esistono) sversi, che al weird folk di Croker Courtbullion fa andar dietro il festoso errebì Jump Sturdy. Il successivo di un anno “Babylon” lascerebbe altrettanto a bocca aperta, sin dal talking-free jazz della traccia iniziale e omonima, se solo non dovesse fare i conti con cotanto predecessore. Ma nella sua follia c’è molto metodo e ne è parte il percorrere sentieri nuovi, si tratti di un’ipotesi di Sly & The Family Experience chiamata Black Widow Spider o di una zappiana non soltanto nel titolo The Lonesome Guitar Strangler, che procede a strappi fra Nord Africa e India prima di citare inopinatamente i Cream e precipitare Henry Mancini in un trip lisergico. In mezzo, tanto soul, del gospel pagano e un country-funk, The Patriotic Flag Waver, con coro di voci bianche e alla fine insertino di America The Beautiful. Da non crederci e ci sta che nel 1970 “Remedies” segni un po’ il passo e tuttavia i minacciosi 17’35” del suggello Angola Anthem bastano a giustificarne l’acquisto. Si torna in quota già prima che l’anno finisca con “The Sun, Moon & Herbs”, magico ma stavolta è per lo più magia bianca, benevola, fra parate da marching band e pigri rhythm’n’blues, almeno fino al caotico finale di Pots On Flyo… e a una Zu Zu Mamou che è ellingtoniana prima di farsi letargica e orrorosa. Il terreno è pronto per “Gumbo”, del 1972 e per la giurisprudenza “il” disco di Dr. John da avere. Qui si concorda, ma a patto che a questa collezione spumeggiante e solare di classici di Crescent City, omaggio del Nostro, che firma giusto un pezzo su dodici, al magistero blues e proto-rock’n’roll di Professor Longhair, si aggiunga “Gris-Gris”.
Fuori catalogo da tempo immemore “Remedies”, il vinilomane di “Gris-Gris” e “The Sun, Moon & Herbs” ha a disposizione stampe Speakers Corner del 2018 e 2020. Di “Babylon” è fresca una riedizione su Music On Vinyl, stesso marchio che si appresta a riportare nei negozi “Gumbo” in una tiratura color turchese limitata a 1.500 copie.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.420, maggio/giugno 2020. Dr. John ci lasciava tre anni fa.
Dapprincipio i bostoniani Lemonheads sono gruppo vero, per quanto non riescano a pubblicare due dischi con lo stesso batterista. Al basso c’è però sempre Jesse Peretz, mentre a dividersi parti vocali e chitarristiche, crediti e insomma la leadership sono Evan Dando e Ben Deily, che all’altezza del secondo LP, “Creator”, del 1988, parrebbe prendere il sopravvento. È un fuoco di paglia. In “Lick” l’anno dopo il suo apporto compositivo è di sole tre canzoni e una era un pezzo rimasto fuori dal debutto dell’87 “Hate Your Friends”. A dispetto o forse proprio per via dell’essere raccogliticcia (pochi i brani scritti appositamente, i restanti sono ripescaggi e lati b) è la loro prova fino a quel punto migliore, capace di andare oltre il cliché Hüsker Dü dei predecessori. Ma è soprattutto l’album con dentro una cover punkizzata di Luka di Suzanne Vega che impazza sulle college radio e attira le attenzioni della Atlantic. Ed è così che nel 1990 dalla hardcore Taang! i Lemonheads, senza più Deily, con Peretz ai saluti e che da lì in poi saranno un alias per Dando, passano a una major un anno e mezzo prima che il boom di “Nevermind” terremoti l’industria discografica USA e mondiale. Più che altro alla Atlantic puntano sul cantante in quanto prototipo di idolo adolescenziale, scommessa che porterà dividendi modesti.
Come fatto nel 2020 per “Lovey” la Fire ristampa “It’s A Shame About Ray” per il trentennale in un’edizione espansa che in realtà poco aggiunge a una del 2008 su Rhino. Manca a “It’s A Shame…” un apice quale era nel disco prima lo stupendo apocrifo R.E.M. Ride With Me, ma il riascolto lo svela migliore che nei ricordi: prodigo di melodie solari, riff incisivi, toccanti ritratti di gioventù spaesata.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.441, aprile 2022.
“In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro.” (Alberto Arbasino)