
Mentre stiamo scrivendo queste righe l’Algeria ha appena celebrato – cade il 3 luglio – il trentesimo anniversario dell’indipendenza. L’ha fatto in un’atmosfera che l’assassinio del suo presidente, a pochi mesi di distanza da un golpe militare, ha reso, se possibile, ancora più carica di tensione, con i carri armati a presidiare ministeri, radio, televisione, moschee e gli incroci chiave delle città principali, a salvaguardia della democrazia. È esemplare del paradosso algerino questa situazione sconcertante: le forze armate fedeli a quella classe politica che dopo avere sottratto il paese al giogo coloniale lo ha portato, imponendo un regime filosocialista, a tappe forzate nel XX secolo, e che poi è riuscita miracolosamente ad autoriformarsi prima di venire del tutto corrotta dal decennale esercizio del potere e a trasformare la nazione in senso liberale, si trovano a difendere con la forza la neonata democrazia da un fondamentalismo islamico che vuole distruggerla nel nome dell’unica legge che riconosce, quella del Corano. Dopo essere stato perseguitato a lungo nel più totale dispregio delle regole del gioco democratico (vorrebbe essere dall’altra parte della barricata, oggi) e dopo avere vinto regolari elezioni, si badi bene.
È davvero tutta una contraddizione l’Algeria, sospesa com’è fra medioevo e modernità, fra pulsioni nazionalistiche e voglia di Europa, ricca di risorse ma con un reddito medio da Terzo Mondo che, combinandosi con un coefficiente di natalità da capogiro (4% annuo: ne consegue che ci si trova di fronte a un paese ove gli “under 30” sono la maggioranza), alimenta imponenti flussi migratori verso la madre matrigna francese e gli stati del Golfo in primo luogo, ma anche verso l’Italia.
Camminano fra noi i fratelli algerini (e Roma è più vicina ad Algeri che non a Londra o a Berlino), eppure di loro sappiamo poco e quel che è peggio è che, succubi come siamo di una visione eurocentrica della storia, non ci impegniamo come dovremmo a cercare di comprenderli meglio. La scarsa conoscenza alimenta il pregiudizio e cresce il rischio che i fermenti razzisti da striscianti si facciano rampanti.
Chissà che la musica non compia il prodigio di lanciare un ponte, fra noi e loro.

Il raï
Una borghesia illuminata e colta e masse schiave dell’ignoranza (dicono le statistiche che gli analfabeti rappresentano il 50,4% della popolazione). Casalinghe con il viso coperto dal chador e finissime intellettuali femministe. Una sessuofobia (che accomuna la dottrina islamica e il moralismo dei vecchi rivoluzionari) largamente diffusa e sui tetti, magari a fianco di un minareto, antenne paraboliche puntate verso l’Italia a carpire dalle nostre emittenti visioni di nudo. Tutto questo è l’Algeria e una musica come il raï solo qui poteva nascere. Anzi, solo in una certa località che ha caratteristiche che la rendono unica. Si chiama Orano ed è un mondo a sé rispetto al resto del paese per via delle sue larghe vedute in fatto di costumi, lascito di un passato di città-bordello per le truppe spagnole di stanza nel vicino Marocco. In questa sorta di porto-franco la vita culturale è vivacissima e la tradizione musicale araba ha trovato terreno fertile quando, a partire dai tardi anni ’60, ha cominciato a fondersi con i ritmi del rhythm’n’blues e del rock e poi, nel decennio seguente, del reggae, del funky e della disco. Qui le mode di importazione e la musica popolare urbana algerina (la cui nascita si può datare intorno agli anni ’30 e che è già essa musica di fusione, fra la tradizione rurale autoctona e influenze francesi, spagnole e dell’Africa Nera) si sono pian piano amalgamate, complice la sempre più larga diffusione degli strumenti elettrici, e poi elettronici, in un qualcosa di assolutamente inedito ed esplosivo, che ha preso possesso del paese intero ed è quindi dilagato nel resto del Nord Africa e, usando la Francia come testa di ponte, in Europa.
È cento cose insieme, il raï. È innanzitutto uno straordinario portavoce generazionale, ché nei testi (tanto semplici quanto incisivi e densi di pathos, come è proprio del blues e del soul) dei tanti “cheb” e delle quasi altrettanto numerose “chaba” si riconoscono le moltitudini dei giovani algerini, quelli che ancora vivono in patria e ancora più quelli che hanno dovuto abbandonarla per sfuggire alla povertà (del resto, parecchi dei musicisti raï hanno conosciuto in prima persona – seppure, è ovvio, da una posizione privilegiata – l’esperienza dell’emigrazione). Come il punk è insieme urlo di rivolta e presa di coscienza. Come il reggae è cronaca popolare, da piazza del mercato. Come l’hip hop è arte di strada praticabile da chiunque ne percepisca il feeling. Come il jazz dà largo spazio all’improvvisazione. Come il pop migliore sa essere epidermico senza scadere nella banalità. Ed è musica dalla fisicità travolgente, come il funky.
Niente di meglio, per accostarvisi, che portarsi a casa la capitale raccolta “Raï Rebels”, datata 1988 e marchiata Earthworks/Virgin. Sulla cui copertina campeggia una bella foto di Cheb Khaled, immortalato in azione in un qualche night. Omaggio sacrosanto: se mai il raï avrà il suo Bob Marley – ossia un personaggio di tale statura artistica e di così grande carisma da farlo diventare, da fenomeno ancora prevalentemente regionale quale è (e quale era una volta il reggae), parte importante del patrimonio musicale planetario – questi non potrà essere altri che il Nostro.
Piace Khaled, al di là della sua bravura, per la simpatia che ispira con i suoi atteggiamenti deliziosamente guasconi, per quella carica iconoclasta che ha senza forse nemmeno rendersene conto e ne fa una sorta di Johnny Rotten arabo, senza però il furore nichilista dell’ex-Sex Pistols. Campione di scapigliata doppiezza, professa fedeltà alla religione musulmana ed è capace di presentarsi a una conferenza stampa brandendo una bottiglia di champagne. In pieno Ramadan oltretutto! Abilissimo nel barcamenarsi fra autorità civili e religiose, conquistandosi la benevolenza almeno delle prime, la sua El Harba Wine è stata nell’autunno ’88 la colonna sonora della tragica rivolta del pane di Algeri (forse ricorderete: cinquecento morti).
È un po’ Sam Cooke – la voce morbida e sensuale, la sobria eleganza – e un po’ James Brown, come ebbero modo di scoprire quanti accorsero (numerosi: al meneghino Palatrussardi novemila; oltre millecinquecento, con conseguente “tutto esaurito”, al torinese Big Club) ai suoi primi concerti nel Bel Paese, due anni or sono, e si trovarono di fronte una band dal drive micidiale. Roba da Famous Flames, appunto.
Faccenda ardua dispensare consigli per gli acquisti a coloro che, incantati dalla più recente uscita (di cui si dirà fra poco) del nostro eroe, volessero ripercorrerne a ritroso la carriera. Compilare qualcosa che somigli anche vagamente a una seria discografia in ambito raï è impresa disperata, poiché come è norma nel Terzo Mondo è una musica che viene diffusa nei luoghi di origine usando come supporto esclusivamente le cassette, che vengono assemblate e riassemblate (spesso con l’assenso, quando non la complicità, degli stessi artisti) da schiere di etichette più o meno legali e poi piratate a tutto spiano. Accade così che del medesimo lavoro circolino decine di versioni, con copertine, scalette e missaggi differenti l’una dalle altre. Ogni tanto, qualcosa viene acchiappato da case discografiche occidentali, stampato anche su vinile e CD e diffuso nel nostro mercato.
Previa ricerca non delle più facili, è possibile catturare una mezza dozzina di album del re del raï. Da evitare “Kutché” (Music Zone), a quattro mani con il jazzista Safi Boutella, esperimento di crossover ardito ma dagli esiti infelici. Tutto sommato dispensabili anche “Duo” (Hamedi), in coppia con Cheb Kada, sei canzoni non male tenute in ostaggio dal synth prevaricatore di Jean-Marc Bourel, e “Moule El Kouchì” (Celluloid), interessante ma acerbo. Buono invece “Fuir, mais où?” (Celluloid), che contiene la succitata, celeberrima El Harba Wine, e stupendo “Hada Raykoum” (Triple Earth), un’autentica pietra miliare. Opera che fino a ieri l’altro avremmo scommesso insuperabile.

La nuova frontiera
Ci ha fatto cambiare idea il portentoso “Khaled” (come avrete notato, il prefisso “Cheb”, che significa “giovane”, è caduto: ha passato la boa dei trent’anni il Nostro), dato alle stampe in primavera inoltrata dalla Barclay. Registrato fra Los Angeles e Bruxelles, con due produttori prestigiosi quali Don Was e Michael Brook, è un LP che fin d’ora si può etichettare “epocale”, perché è il più riuscito tentativo di fusione fra melodie magrebine, funky, jazz e pop occidentale che si sia mai ascoltato. Uno squarcio di abbacinante fulgore di un futuro, più che possibile, sicuro.
Va dritta alle gambe questa musica ma sa parlare pure, come tutta la grande arte, a cuore e intelletto. È commerciale, nel senso di “facilmente vendibile”, ma anche di altissima qualità, al punto che non vi è un titolo, fra gli undici che compongono “Khaled”, cui si potrebbe rinunciare. Cosa scegliere fra il passo funkeggiante e i bei fraseggi di tromba di Didi e le venature jazz di Liah Liah, soffice e sinuosa? Fra l’incredibile connubio fra raï e scenari di pop-rock alla Steely Dan di El Arbi e quello fra chitarre latineggianti e fisarmoniche da Lungo Senna di Wahrane? Che dire di Mauvais sang, che prende le mosse araba al quadrato e decolla sulle ali di una scansione percussiva hip hop e un basso ultrafunky? O dei fiati rhythm’n’blues di El Ghatli?
È un capolavoro “Khaled”, e pure qualcosa di più: è il simbolo di un avvenire possibile, se abbastanza uomini di buona volontà lo desidereranno, di pace, rispetto reciproco, armoniosa unione per i popoli del pianeta tutto e per quelli che si affacciano sul Mediterraneo in particolare. Vi pare poco, per un disco?
Pubblicato per la prima volta su “Dance Music Magazine”, settembre 1992. “Khaled” era arrivato nei negozi il 16 giugno.