
Sulla carta è tutto sbagliato. Perché ci sta che una band che ha fatto la storia del rock nel lontano ultimo decennio dello scorso secolo torni insieme e a tal riguardo si possono fare diversi esempi di rimpatriate dagli esiti eccellenti: Ride e Slowdive, per limitarsi a due nomi e restando in Gran Bretagna e a all’interno di una scena, quella dello shoegaze, della quale i Boo Radleys furono fra gli esponenti di punta. Ma… riformarsi senza Martin Carr che non solo ne era il leader ma ne firmò il 99% del repertorio? È come immaginarsi dei Talking Heads che danno alle stampe un album nuovo e David Byrne non c’è. Una follia, sulla carta. E invece…
E invece ad ascoltare il primo lavoro in studio dei Boo Radleys (settimo in tutto) pubblicato a ventiquattro anni da “Kingsize” senza sapere dell’assenza di Carr (al sottoscritto è successo: l’ho scoperto quando ho cominciato a cercare informazioni prima di fargli fare un secondo giro) si tira un sospiro di sollievo: naturalmente non avvicina le vette olimpiche del capolavoro del 1993 “Giant Steps”, è godibile ma non irresistibile quanto quel “Wake Up” che nel ’95 era un numero 1 UK, e però vale almeno gli ultimi due dischi della formazione storica e pure l’acerbo debutto del ’90 “Ichabod And I”. Dei due grandi album summenzionati prova a fare sinossi, inclinando un po’ più verso il secondo: declinando allora un pop estroso, con armonie vocali spumeggianti, arrangiamenti orchestrali importanti, accostamenti di stili spericolati. Sono 100% Boo Radleys canzoni come I Say A Lot Of Things (riff rock, fiati errebì, archi bacharachiani e un accenno di reggae), Here She Comes Again (John Lennon in botta dub), Alone Together (Stereolab e Oasis in collisione).
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.442, maggio 2022.