
Non vi era alcuna ragione perché questo mese Scritti nell’Anima si occupasse di Stevland Judkins, ovvero Stevie Wonder. Non è uscito un nuovo album (l’ultimo in studio, “Conversation Peace”, è del ’95 e brutto quanto basta a non far bramare un successore), non è stato confezionato un cofanetto a riepilogo di una carriera comunque eccezionale (già fatto, nel ’99), non ha festeggiato un compleanno di quelli adatti alle celebrazioni (i suoi anni saranno cinquantaquattro il 13 maggio). Né c’erano altri anniversari in vista, siccome la scorsa estate mi sono fatto scappare l’occasione di cogliere a pretesto di un’apologia il trentennale dell’incidente automobilistico (no, simpaticoni: non guidava lui) che nella vicenda umana e artistica del Nostro segna uno spartiacque non dissimile da quello marcato per Dylan dalla caduta in moto del ’66. Non vi era alcuna ragione, se non che improvvisamente mi sono reso conto che dal settembre 2000 firmo una rubrica di musica nera e in tutto questo tempo (tolte casuali citazioni) non ho speso una parola per uno degli uomini che più hanno contribuito a formarne il canone. Mi è parso bizzarro. E poi, semplicemente, mi aveva colto la voglia di riascoltare lo Stevie Wonder già negli scaffali e mi urgeva una scusa per cacciare soldi per il mancante. A questo sono ridotto dopo due decenni di esercizio della professione di critico: per togliermi lo sfizio di metter su qualcosa per piacer mio e non per scriverne mi tocca… scriverne. Inventarmi un articolo. E chi poteva prevederlo? Ma non mi lamento, non potrei mentre il tredicenne Little Stevie invita il pubblico ad accompagnare battendo le mani Fingertips e mi viene da fare lo stesso, i piedi che partono come dotati di volontà loro, il primo sorriso che mi si affaccia sulle labbra dopo giorni quando non avrei proprio un cazzo da ridere, ma manco uno piccino così.
Non è però sullo Stevie Wonder enfant prodige del mendacemente titolato (visto che è del ’63) “12 Year Genius” che voglio diffondermi, non sulla stella bambina che collezionò numeri uno R&B e anche pop per tutti i ’60. Non che non fosse bravo, perbacco se lo era, però una puntata a Ray Charles l’ho già dedicata e insomma ci siamo capiti. Lo Stevie Wonder che mi interessa può essere raccontato dal giorno in cui compie ventun anni e quindi, per il sistema legale statunitense dell’epoca, diventa adulto. Non è particolare da poco: il passaggio alla maggiore età invalida i contratti e libera il soggetto da qualunque impegno assunto da minorenne. Chissà se ce l’ha presente Berry Gordy, padre padrone della Motown, quel giorno di maggio del 1971 in cui è anfitrione alla festa organizzata a Detroit per colui che è ancora il più giovane dei suoi talenti. Probabilmente non ci pensa. Che sia uno squalo, e dai denti affilatissimi, è fuori discussione, ma per il ragazzo prova un affetto genuino e, nei limiti della conduzione di una casa che è fabbrica di successi (l’accento va posto su “fabbrica” quanto su “successi”), lo ha sempre trattato bene. Little Stevie è uno di famiglia e in famiglia Gordy ha già chi ─ il cognato Marvin Gaye ─ lo sta stressando con smanie di indipendenza. Il giorno dopo torna a Los Angeles e in ufficio trova la lettera di un avvocato che lo informa di rappresentare l’ex-fanciullo e che costui intende ridiscutere gli accordi e ritiene di avanzare congrui crediti. Allibito alza il telefono. Risponde la moglie di Stevie, Syreeta Wright, già segretaria presso la Motown, e cade dalle nuvole. No che non sa niente della faccenda; sì, dev’essere un equivoco; Stevie è uscito ma appena torna ti chiama. Gordy aspetterà quella telefonata sei mesi. Ha trovato un pesce che intende mangiare, non essere mangiato, nemesi che deve parergli un incubo a occhi aperti.
Prosegue per altre 7.007 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.68, gennaio 2004. Il 6 agosto 1973 Stevie Wonder restava coinvolto un incidente stradale le cui conseguenze per qualche giorno facevano temere per la sua vita.