
“Nothing’s gonna stop the plan/I chill like Pacino/Kill like De Niro/Black Gambino/Die like a hero/Livin’ on shaky ground too close to the edge/Hopin’ that I know the ledge” (Eric B. & Rakim, Juice, dalla colonna sonora del film omonimo)
Risuona ancora forte nell’hip hop l’eco degli spari che l’8 settembre 1996 misero fine a Las Vegas (il decesso cinque giorni dopo) alla vita breve ─ venticinque anni appena, era nato il 16 giugno 1971 ─ di Tupac Amaru Shakur: ballerino, rapper, attore dal talento più grande che non il musicista, attivista politico a modo suo, forse gangster, femminista con una condanna per stupro che (non l’avessero rimesso in libertà su cauzione) gli avrebbe probabilmente salvato la pelle. Personaggio pieno di contraddizioni che aveva già capito da un pezzo cosa avesse in serbo il Destino per lui. Nel video di I Ain’t Mad At Cha girato poche settimane prima del fatale agguato e il più trasmesso da MTV poche settimane dopo, lo si vede soccombere sotto un diluvio di pallottole come uno Scarface nero, aggirarsi in un Paradiso oleografico in cui gli fanno compagnia Redd Foxx, Miles Davis e Sammy Davis Jr. e fare quindi ritorno sulla terra in guisa di angelo. Ove il primo dei suoi troppi dischi postumi, “The Don Killuminati: The 7 Day Theory” (pubblicato con lo pseudonimo di Makaveli), si chiude con colpi di arma da fuoco e l’arrivo degli elicotteri e delle auto della polizia sulla scena del delitto. Oltre i cordoni, ragazze in lacrime e un cronista televisivo che dà conto dell’accaduto storpiando il nome dell’uomo rimasto sull’asfalto in un’ordinaria scena quotidiana di ghetto: Tupac Shaker. Vita e arte si confondono una volta di più. Nessuno è stato mai messo sotto processo per la morte di questo controverso eroe. Il discografico, Suge Knight, che era con lui in macchina e si dice fosse il vero bersaglio di un’imboscata in perfetto stile mafioso, è poi finito in galera ma per altre ragioni. Il rivale di rime e intrecci amorosi, sospettato perlomeno dai media di essere il mandante dell’omicidio, Christopher Wallace in arte The Notorious B.I.G., ha perso la vita in circostanze analoghe l’8 marzo 1997: una vendetta del clan di Shakur? E stessa sorte è toccata nel ’98 a Orlando Anderson, il pregiudicato su cui maggiormente si appuntavano le attenzioni di chi ancora stava investigando su 2Pac. Sangue chiama sangue. Fascicolo chiuso.
In questo modo quell’8 settembre 1996 ha cambiato per sempre il corso dell’hip hop: che nel mentre dava crudelmente credibilità alle sue storie di strada ─ sempre più cronaca che teatro e/o commento sociale ─ lo costringeva a fare un passo indietro e a sigillare un cerchio. Era cominciata scherzosamente, con le incruente battaglie nei parchi newyorkesi in cui i sound system si battevano a colpi di decibel e le posse vantandosi, con squisita vanagloria tutta afro, della loro sveltezza di lingua e mettendo nel contempo alla berlina i rivali. Finiva, diventato un enorme business più conveniente e apparentemente meno pericoloso per lasciarsi alle spalle la povertà dei sistemi usuali (vale a dire sfruttamento della prostituzione e spaccio), nel momento in cui la pantomima gangsta si ritraduceva in realtà delinquenziale. Dal potere alla parola al potere alle armi. Il mio uzi pesa una tonnellata e sono cazzi vostri.
Prosegue per altre 6.653 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.626, settembre 2006. A oggi sono trascorsi ventisei anni da quando Tupac Shakur cadeva vittima dell’agguato che gli costava la vita.