Archivi del mese: ottobre 2022

Terry Callier – Di che colore è la musica?

Terry Callier è stato un perdente precoce. Sentite un po’. Quando nel 1964 entra in studio con un produttore di grido quale Samuel Charters per registrare un 33 giri per la Prestige, benché abbia appena ventun anni è già uno dei nomi più in vista di quella New York folk che è cresciuta intorno a Bob Dylan. Vi è arrivato un paio di anni prima dalla natia Chicago e nel suo primo concerto è stato spalla, proprio con Bob Dylan, di Ramblin’ Jack Elliot. I suoi amici si chiamano David Crosby, Dino Valenti, Fred Neil. Ha qualche affinità con quest’ultimo ma nel complesso il suo stile è invero peculiare: basti dire che sfoggia accenti che riscopriremo in Nick Drake e si fa accompagnare in sala, in scoperto omaggio all’Ornette Coleman di “Free Jazz”, da due contrabbassisti. È nero, ma si muove in un ambiente di bianchi quale il Village. Non c’entra né con la Stax né con la Motown e il suo blues, acustico e dolente, è antitetico a quello canonizzato proprio a Chicago da Muddy Waters ed elettrica compagnia.

“The New Folk Sound Of Terry Callier” rinnova il folk come promette il titolo e non esce (poi vi spiego) per un’etichetta jazz. È un UFO, una Luna Rosa con la melanina impazzita, a farla breve e chiara un disco da isola deserta. Personalissimo e addirittura rivoluzionario senza che il Nostro, che mette in fila quattro tradizionali sulla prima facciata e quattro cover sulla seconda, firmi nemmeno un pezzo. È l’interpretazione a fare inaudite queste otto canzoni, trepidi arabeschi di chitarre che sciacquano il flamenco nel Mississippi (It’s About Time) o fanno folk-jazz Bo Diddley (Promenade In Green), mentre la voce sa tanto più di campagne inglesi quanto più scende a Sud (Cotton Eyed Joe). Insopportabilmente/sublimemente triste in quel carpe diem più memento mori chiamato Johnny Be Gay If You Can Be, angelica (un angelo stanco di volare) in 900 Miles, ispida in I’m A Drifter, otto spastici minuti che stanno a Pete Seeger come la New Thing ayleriana al cool.

Uscisse, “The New Folk Sound Of Terry Callier”, farebbe probabilmente scalpore e gli “oh” e gli “ah” di meraviglia non si conterebbero. Accade invece l’inconcepibile: Charters sparisce in Messico portando con sé il master. Quando l’album vede la luce è già il 1968, il boom del folk è un lontano ricordo e nessuno se ne accorge. A momenti neppure lo stesso Terry Callier, che nel frattempo è tornato a Chicago e viene informato dal fratello, che ha visto la copertina in vetrina in un negozio. Non si scoraggia però. Entro l’anno pubblica un 45 giri su Chess, Look At Me Now, che vende pochissimo e oggi passa di mano a oltre 200.000 lire e nel settembre del 1969 rientra in studio di registrazione, con l’intenzione di realizzare un demo da mandare in giro per case discografiche. Alla regia ci sono Jeffrey Chouinard e George Edwards, chitarrista degli psichedelici H.P. Lovecraft, e le sedute fruttano sei canzoni magnifiche, questa volta tutte firmate da Callier.

Prosegue per altre 4.567 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.18, novembre 1999. Terry Callier ci lasciava il 27 ottobre 2012, sessantasettenne.

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It was 60 years ago today – James Brown “Live At The Apollo”

Doveste mai avere problemi di udito, non disperate per il futuro. Potrete sempre fare i discografici e difficilmente potrà andarvi meglio e insieme peggio che a Syd Nathan, boss fra metà ’50 e metà ’60 della King: uno dei più formidabili e fortunati cretini della storia dell’umanità. “La peggiore cagata che abbia mai ascoltato”, sentenziava nel 1956 riguardo a Please, Please, Please, 45 giri d’esordio dei Flames di James Brown da lui pubblicato solo per dimostrare a chi li aveva scritturati che di musica non capiva niente. Squisito ossimoro (una ballata dal passo sostenuto), il brano volava subito nei Top 10 della classifica R&B. Sei anni e innumerevoli successi dopo – una collana di classici bastante a definire i canoni di soul ed errebì, nessuno dei quali lo aveva convinto – il pervicace imbecille negava a Mr. Dynamite i soldi per registrare un live che documentasse uno spettacolo al top dell’efficacia e della popolarità. James Brown faceva allora da solo, affittando l’Apollo Theater di Harlem e mettendo su nastro una selezione mozzafiato della settima serata, che doveva poi purtroppo consegnare allo stesso Nathan. Fra i giovani americani sarà il secondo album più venduto del 1963, dopo “Surfin’ USA” dei Beach Boys.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019. “Live At The Apollo” veniva immortalato la sera del 24 ottobre 1962.

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Steve Cropper – Bianco per caso

Tutto ciò che sapevo di Wilson Pickett è che era stato con i Falcons e aveva cantato il gospel. Mi procurai i suoi dischi e ascoltandone le parti da solista notai che invariabilmente, qualunque fosse il brano, arrivava un punto in cui parlava di come a mezzanotte avrebbe finalmente incontrato Gesù. Così mi dissi: bene, se è questo che ha in testa, è questo che devo scrivere per lui. Ecco da dove arriva l’idea, anche se non gli confessai mai che ero andato a sentirmi le sue vecchie cose spiritual. Cambiai soltanto le parole, da ‘waiting for Jesus in the midnight hour’ a ‘wait for your love in the midnight hour’, e vedi bene che è praticamente la stessa cosa. All’epoca l’ultima voga in fatto di balli era il jerk, arrivava da New York e come mosse era tipo la danza che fa il pugile sul ring. Noi eravamo in studio a lavorare su In The Midnight Hour, che ritmicamente si stava sviluppando in tutt’altro modo rispetto a come la conosci, ma Jerry Wexler era lì intorno che saltellava e ci diceva no, no, è questo il ritmo che dovete usare. Io e Al ci siamo detti ‘proviamo’ e non è che fosse una cosa inedita per noi. Una battuta è dove deve essere, due sono lievemente sfasate, appena in ritardo. Ci prendemmo bene a guardare Jerry che ballava e a seguirlo e quando riascoltammo il tutto ci piacque così tanto che decidemmo di non toccare più nulla.” (Steve Cropper)

Qualche sera fa, facendo zapping, mi sono imbattuto su Rai Doc in un documentario in due parti di un’ora cadauna intitolato Il treno del soul. O qualcosa del genere, già non ricordo più. Non importa. Quel che conta è che la prima metà era cominciata da forse dieci minuti e allora mi sono fermato lì, progressivamente sempre più furioso con la TV di stato che spende un sacco di soldi (era una sua produzione) per mandare apposta a Memphis una troupe, che fa uno splendido lavoro, e poi trasmette il tutto nottetempo e giusto su un canale vedibile solo da chi ha una parabola o il digitale terrestre. E progressivamente, avrete inteso, sempre più deliziato (perché non ho buttato dentro una cassetta? perché?). Comunque sia: a un certo punto salta fuori Keith Richards e mica faccio attenzione a quello che dice, nemmeno un po’, tanto sono affascinato dal reticolo di rughe che ha sul viso, faccia da indiano ottantenne. Mi ci perdo dentro (buono ’sto fumo, buono…). E poi sbuca Steve Cropper e chi potrebbe crederci che ha due anni e due mesi (meno tre giorni) più di Keef La Biffe? Ne compirà sessantatré il prossimo 21 ottobre e aveva certamente già passato i sessanta quando l’intervista è stata girata. Ma eccolo lì, ben piantato, coda di cavallo grigia e appena un filo di pancia da troppa coca (cola) e pollo fritto, un cinquantenne a guardarlo, nonostante abbia avuto (così rammento, vagamente) qualche problema di salute. Gentile e modesto, il pigro eloquio sudista che carezza le orecchie come le fusa di un felino torturato di coccole. E mi chiedo chi sia stato più importante fra lui e il Signore del Riff. Domanda oziosa? Risposta meno scontata di quanto non si potrebbe pensare sul subito, essendo costui l’uomo che ha messo la firma sotto classici del soul quali Green Onions, What A Fool I’ve Been, Can Your Monkey Do The Dog, Mr. Pitiful, Fa-Fa-Fa-Fa-Fa (Sad Song), Raise Your Hand, (Sittin’ On) The Dock Of The Bay, per non citarne che pochi fra i più famosi. Uno per il quale essere stato un quarto (e metà della metà più importante) di Booker T. & The M.G.’s è stato in fondo incidentale, così come l’avventura Blues Brothers. Il bianco che più ha dato alla soul music?

Prosegue per altre 6.681 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.74/75, luglio/agosto 2004. Steve Cropper compie oggi ottantun anni.

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Interpol – The Other Side Of Make-Believe (Matador)

All’inizio della loro carriera per i maligni gli Interpol erano una cover band dei Joy Division che aveva avuto la fortuna di rinvenire chissà dove un gruzzoletto di inediti di Ian Curtis e soci e con quelli aveva messo insieme un album, “Turn On The Bright Lights”. Bello, eh? Ma esageratamente derivativo e passatista. Né giovava alla causa del gruppo newyorkese che il tour promozionale del disco, che toccava pure l’Italia, ne evidenziasse un’algidità che sapeva di alterigia e una sostanziale incapacità di tenere il palco (parrebbe che la situazione non sia migliorata con gli anni). In realtà quell’album, che in ogni caso da subito trovava più estimatori che detrattori, non era così appiattito sul modello di cui sopra, certamente si rifaceva alla new wave primigenia ma mischiando varie influenze con sensibilità sufficientemente peculiare e moderna e, soprattutto, era ben articolato e poteva contare su grandi canzoni. Se non si può dire che il tempo (ricorre quest’anno il ventennale dall’uscita) abbia fatto giustizia è solo perché da lungi è ritenuto un classico e spesso lo si ritrova in liste sufficientemente corpose dei capolavori che hanno segnato la storia del rock. Meritatamente.

Il problema è che da lì è stata tutta discesa. Dapprincipio lenta e, siccome si partiva comunque da molto in alto, almeno “Antics” (2004) e “Our Love To Admire” (2007) restano dischi consigliabili. Poi basta. “The Other Side Of Make-Believe” comincia bene, con una Toni dal suadente allo sferzante, ma subito si perde, ritrovandosi giusto in una Renegade Hearts leggera ma incisiva e nell’occhieggiare ai Japan di Big Shot City. Oggi gli Interpol suonano come una cover band… degli Interpol, con un repertorio di scarti.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

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Kula Shaker – 1st Congregational Church Of Eternal Love (And Free Hugs) (Strange F.O.L.K.)

Nell’era aurea dei Kula Shaker, che vide il quintetto londinese conquistare la vetta dalla classifica degli album più venduti in Gran Bretagna con l’esordio del ’96 “K” e quasi replicare nel ’99 con “Peasants, Pigs And Astronauts” (piazzando fra l’uno e l’altro sei singoli nella Top 10) non ero un fan del gruppo del chitarrista Crispian Mills. La sua psichedelia orientaleggiante con tocchi di Britpop ad ammodernarla appena avrebbe avuto tutto per piacermi e invece non mi piaceva per niente: la trovavo oleografica, caricaturale. Mai avuto una passione nemmeno per i concept, per quanto alcuni abbiano fatto la storia del rock. Non avrei comunque fatto salti di gioia vedendomi assegnare una recensione dei Kula Shaker, men che meno allora apprendendo che il quarto lavoro licenziato dalla band in una seconda vita iniziata nel 2004 è per l’appunto un concept. E allorché scorrendone i crediti ho notato che Mills, che sarebbe stato in ogni caso quello talentuoso, è co-autore di una sola delle venti tracce, la leadership ora nelle mani del bassista e cantante Alonza Bevan, mi sono preparato al peggio. Figurarsi quando all’ascolto sono sbucati vari interludi spoken, che detesto!

E però… Già quel primo passaggio mi ha spiazzato favorevolmente, non come assieme ma in forza di alcune canzoni ben più che di onesto mestiere: l’hard zeppeliniano Whatever It Is, il country-blues Love In Separation, il pastiche dylaniano Where Have All The Brave Knights Gone?, una pinkfloydiana The Once And Future King, il raga After The Fall Pt.2 & 3. Quando al terzo o quarto giro sono scoppiato a ridere durante una parte parlata mi sono arreso all’evidenza: i Kula Shaker hanno pubblicato un gran bel disco. Il loro migliore. Nel 2022.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

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Audio Review n.446

È in edicola da inizio settimana il numero di ottobre di “Audio Review”. Include mie recensioni degli ultimi album di Art Moore, Cheap Wine, Shemekia Copeland, Martin Courtney, Danger Mouse & Black Thought, Ezra Furman, Hooveriii, Hot Chip, Kiwi Jr., Cass McCombs, Motorpsycho, Panda Bear & Sonic Boom, Josh Rouse e Marlon Williams e di una ristampa dei Chemical Brothers. La rubrica del vinile è dedicata questo mese al dittico berlinese “Low”/Heroes” di David Bowie.

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I formidabili anni ’90 dei Pearl Jam

Gli U2 del grunge? Oltre che un tour di spalla ad accomunare il quintetto di Seattle al quartetto di Dublino sono la stabilità della formazione (mai più cambiata dacché nel ’98 Matt Cameron ne diventava il batterista dopo che ne avevano ruotati quattro) e l’appartenenza a una tradizione di rock “classico” cui Eddie Vedder e compagni si sono sempre mantenuti fedeli. Al contrario di Bono e soci che, deviando bruscamente verso l’elettronica con “Achtung Baby”, pubblicato in quello stesso formidabile ’91 in cui i Pearl Jam si erano poco prima affacciati alla ribalta con “Ten”, trovavano nuova linfa, rinviando di un decennio la trasformazione in macchiette. Che altro? Un cantante carismatico. La propensione a battersi per giuste cause (volando più basso rispetto a chi ha chiesto la cancellazione dei debiti del Terzo Mondo i Pearl Jam ingaggiavano singolar tenzone contro il monopolio del circuito concertistico nordamericano da parte di Ticketmaster; oggi sono in prima linea sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici). E poi? Ora farò inarcare sopraccigli, e ci sarà magari chi si arrabbierà proprio, ma a me pare che inoltrandosi nel nuovo secolo due band per tanti versi distantissime abbiano condiviso una totale… lo dico?… irrilevanza. Solo che, mentre i cinque lavori in studio pubblicati dagli Americani dopo “Binaural” (ultimo sfoggio di autentica grandezza) se nulla hanno aggiunto alla loro vicenda artistica nulla le hanno sottratto, i quattro dati alle stampe dopo l’ancor pregiato “All That You Can’t Leave Behind” gli Irlandesi bene, benissimo avrebbero fatto a risparmiarseli e risparmiarceli. L’ho detto.

Un quarto dello spazio a disposizione se n’è andato. E adesso? Riassumo la storia di un complesso che ha venduto ottantacinque milioni di album? Non si può darla per conosciuta da chiunque sta leggendo? Se se ne designa a inizio il momento fatidico in cui Jack Irons, allora con gli Eleven, allungava all’amico Eddie Vedder, allora benzinaio, un demo con cinque pezzi registrati dai chitarristi Mike McCready e Stone Gossard e dal bassista Jeff Ament, magari sì. Un eventuale biopic non potrebbe partire che da lì. Dal giovanotto che si entusiasma a tal punto da scrivere al volo dei testi per tre di quei brani solo strumentali (leggenda vuole che li mise su carta dopo averli pensati e memorizzati mentre cavalcava su una tavola da surf le onde del Pacifico) e rispedire a Seattle il nastro, dalla sua San Diego, con la voce sovraincisa. Veniva prontamente convocato per un’audizione “giù al nord” e a quel punto i Pearl Jam erano quasi cosa fatta, essendo il “quasi” la mancanza di un batterista. Bravissimo a perdere treni (stiamo parlando di uno che lasciò i Red Hot Chili Peppers nel pieno della lavorazione di “Mother’s Milk”), Irons aveva già declinato l’invito a unirsi al gruppo ed era Dave Krusen a sedersi dietro piatti e tamburi. Registrato fra il marzo e l’aprile del 1991, “Ten” usciva il 27 agosto. Occhio alla data: “Nevermind” arriverà nei negozi il 24 settembre ed è dunque destituita di fondamento la percezione che resta diffusa dei Pearl Jam come epigoni dei Nirvana o peggio, per i detrattori, una versione mainstream della banda Cobain costruita a tavolino per sfruttarne l’enorme successo. A parte che “Ten” è decisamente differente cosa rispetto a “Nevermind”, e con il suo parziale riallacciarsi a un canone di hard anni ’70 che i Nirvana sempre scansarono era in effetti più adatto sulla carta a platee estranee quando non ostili a punk e new wave, 1), “vendersi” non era nei programmi del giovane Vedder (che anzi da quella fama improvvisa si sentì destabilizzato) e, 2), Gossard e Ament vantavano cv inappuntabili anche per il più talebano fra i tifosi dell’underground. Incredibile che tuttora in tanti ignorino che i due di cui sopra erano stati, con gli esplosivi Green River, fra i pionieri della scena di Seattle (dal loro scioglimento nacquero anche i Mudhoney), e avevano poi fondato i Mother Love Bone. Se Andrew Wood, cantante di questi ultimi, non fosse uscito prematuramente e tragicamente di scena i Pearl Jam non sarebbero mai esistiti. Altro che imitatori! Altro che “poseurs”! Erano però accuse che bruciavano e alle quali i nostri eroi replicarono a modo loro, confezionando di fila tre album in cui prendevano le distanze da un debutto valido ma ineguale, con picchi altissimi ma pure qualche inciampo. Prima “Vs.” (1993), oltre che più ispirato assai più policromo, con il suo includere canzoni “alla R.E.M.” e rock tribali, accenni di funk e piccole deviazioni verso il blues. Quindi “Vitalogy” (’94), provocatoriamente reso disponibile dapprincipio solo in vinile quando il vinile era specie in via di estinzione, anticipato da Spin The Black Circle, cavalcata fra punk e metal dal potenziale radiofonico nullo, e contenente oltre a diverse ballate cabaret waitsiano e rock latino. Infine il capolavoro “No Code” (’96), parecchio influenzato da un altro capolavoro, “Mirror Ball”, frutto l’anno prima del sodalizio stretto con Neil Young. “Yeld” (’98) tirerà le somme, regalando fra il mirabile resto una Given To Fly nella quale i Pearl Jam sembrano una versione grunge… esatto… dei primi U2.

Poteva un gruppo simile allestire un banale “Best Of” con i brani più celebri? Edito nel 2004, “Rearviewmirror (Greatest Hits 1991-2003)” seguiva nei suoi due dischetti l’ordine cronologico (unica eccezione Yellow Ledbetter, retro nel ’92 di Jeremy, collocata a suggello) ma optava per dividere le sue due ore e ventitré minuti fra un primo CD intitolato “Up Side” e un secondo chiamato “Down Side”. Su uno i pezzi più tirati insomma e sull’altro le ballate, per quanto qualche canzone più schiettamente rock vi faccia capolino. L’antologia in questione è stata appena ristampata su due doppi LP acquistabili separatamente. Offre quasi tutti i cavalli di battaglia, aggiunge lati B, tre pezzi da colonne sonore e Last Kiss, cover di un brano del 1961 di Wayne Cochran che nel 2002 diventava a sorpresa il singolo di maggior successo dei Nostri (un numero 2 USA). Se volete avere in casa in vinile l’album più rappresentativo dei Pearl Jam vi tocca comprarne due e pure doppi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

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Il vescovo Solomon Burke

L’uomo è indiscutibilmente un grande. L’uomo è anche grosso: pesava cento chili negli anni ’60 e oggi che è immerso in altri sessanta, i suoi, non meno favolosi pare sia vicino al quintale e mezzo. L’uomo crede fermamente in Dio, ma del Creatore e della Creazione ha sempre avuto una visione lontana da quella punitiva di certo cristianesimo: “Mi persi in quel versetto della Bibbia che dice ‘Crescete e moltiplicatevi’. Non andai avanti a leggere”. E difatti è diventato padre ventuno volte. Tale è la sua fede che è pastore di una congregazione. Fondata dalla nonna e da lui guidata, dacché era a malapena un adolescente, insieme a uno zio di sette anni più anziano, conta frequentatori a decine di migliaia e poco meno di duecento sedi. È la Casa di Dio per Tutta la Gente, dice orgogliosamente quando è serio, salvo poi scoppiare in un’omerica risata e ammettere che ─ in verità, in verità vi dico ─ è la chiesa dell’Ognuno Faccia i Suoi Comodi. Lo zio è defunto nel 1982, evento che ha evitato scismi, siccome non credeva (sto citando il solito Peter Guralnick) “nella guarigione attraverso i miracoli, nella libera interpretazione della Bibbia e nel vestire in modo informale”. Spiega il nostro uomo: “La mia concezione della religione è per tanti versi simile a quella che aveva lui, ma per altri assai diversa. Fondamentalmente, è guidata dalla stessa filosofia ma io ne do un’interpretazione più aperta e spettacolare: Dio, soldi e donne! Verità, amore, pace e sballo”. Se vi sembra la chiesa che avrebbe potuto frequentare John Belushi, siete nel giusto. Pensate ai Blues Brothers. Quali canzoni vi vengono in mente? Una è sicuramente Soul Man, l’altra è Everybody Needs Somebody To Love. Ebbene, fu il nostro uomo a portare per la prima volta in classifica quest’ultima. Era il 1964.

Il nostro uomo è iperattivo e ha sempre saputo curare i propri affari. Non pago dei proventi che gli derivano da diritti d’autore, uscite discografiche e concerti (e qualche spicciolo certo deve venirgli pure dal pulpito), gestisce da quarant’anni una fiorente impresa di pompe funebri (leggenda vuole che abbia ottenuto la licenza per corrispondenza). Che deve fare, del resto? Tiene famiglia e che famiglia. Appena terminato di registrare il brano che fu il suo primo grande successo per la Atlantic (Just Out Of Reach, pionieristico esempio di crossover che in quel 1961 si fece valere nella graduatoria country come in quelle pop e rhythm’n’blues), schizzò fuori dallo studio di New York senza nemmeno riascoltarlo e tornò a Philadelphia a guidare uno spazzaneve, lavoro pagato mica male in tempi di paralizzanti tormente: quattro dollari all’ora. All’apice della fama, arrotondava guadagni invero lauti vendendo spuntini e bevande agli artisti che dividevano con lui massacranti tour collettivi e lunghi viaggi in pullman. Ingaggiato all’Apollo di Harlem, pretese di avere la concessione per lo spaccio di popcorn durante i suoi spettacoli e, non avendola ottenuta, installò un chiosco davanti al teatro. Wilson Pickett riferisce che una volta caricò a tal punto l’automobile che doveva portarli da una data a un’altra di Bibbie, di cui fare commercio dopo il concerto, che tutte e quattro le gomme scoppiarono. Dal suo canto lui ─ formidabile affabulatore che le spara grosse e tutti a credere che siano palle, fin quando non salta fuori fior di testimoni ─ racconta di quella volta che il suo gruppo prese settemilacinquecento dollari per esibirsi a una festa (non glielo dissero prima) del Ku Klux Klan. E di quell’altra che fu James Brown a dargliene diecimila, non per cantare ma per ammirarlo in azione e riconoscere che era lui, il Padrino, il vero re del soul. “Solomon Burke non può cantare questa sera perché è stato detronizzato”, annunciava al pubblico che schiamazzava perché esigeva colui che, fra gli altri soprannomi, è noto come The Bishop, il Vescovo. E il nostro uomo, impassibile, dopo avere rifiutato di posare una corona sul capo dell’invidioso pretendente al trono: “Amico, voglio dirti una cosa. Mi è piaciuto molto vederti cantare, è stato splendido. Se hai un altro lavoretto così da farci fare domani, noi ci stiamo, e per soli ottomila dollari questa volta. Purché sia tutto come stasera”.

Il nostro uomo crede in Dio e Dio evidentemente crede in Lui, se no non gli avrebbe donato una voce così bella e duttile, capace di transitare da un canto tenorile al più profondo dei bassi e viceversa, nella stessa canzone se non nella stessa strofa, voce dalla dizione chiarissima di seta e di terra, di sesso e di spirito.

Prosegue per altre 6.297 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.58, marzo 2003. Il Vescovo ci lasciava il 10 ottobre 2010, settantenne.

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