
Gli U2 del grunge? Oltre che un tour di spalla ad accomunare il quintetto di Seattle al quartetto di Dublino sono la stabilità della formazione (mai più cambiata dacché nel ’98 Matt Cameron ne diventava il batterista dopo che ne avevano ruotati quattro) e l’appartenenza a una tradizione di rock “classico” cui Eddie Vedder e compagni si sono sempre mantenuti fedeli. Al contrario di Bono e soci che, deviando bruscamente verso l’elettronica con “Achtung Baby”, pubblicato in quello stesso formidabile ’91 in cui i Pearl Jam si erano poco prima affacciati alla ribalta con “Ten”, trovavano nuova linfa, rinviando di un decennio la trasformazione in macchiette. Che altro? Un cantante carismatico. La propensione a battersi per giuste cause (volando più basso rispetto a chi ha chiesto la cancellazione dei debiti del Terzo Mondo i Pearl Jam ingaggiavano singolar tenzone contro il monopolio del circuito concertistico nordamericano da parte di Ticketmaster; oggi sono in prima linea sul fronte della lotta ai cambiamenti climatici). E poi? Ora farò inarcare sopraccigli, e ci sarà magari chi si arrabbierà proprio, ma a me pare che inoltrandosi nel nuovo secolo due band per tanti versi distantissime abbiano condiviso una totale… lo dico?… irrilevanza. Solo che, mentre i cinque lavori in studio pubblicati dagli Americani dopo “Binaural” (ultimo sfoggio di autentica grandezza) se nulla hanno aggiunto alla loro vicenda artistica nulla le hanno sottratto, i quattro dati alle stampe dopo l’ancor pregiato “All That You Can’t Leave Behind” gli Irlandesi bene, benissimo avrebbero fatto a risparmiarseli e risparmiarceli. L’ho detto.
Un quarto dello spazio a disposizione se n’è andato. E adesso? Riassumo la storia di un complesso che ha venduto ottantacinque milioni di album? Non si può darla per conosciuta da chiunque sta leggendo? Se se ne designa a inizio il momento fatidico in cui Jack Irons, allora con gli Eleven, allungava all’amico Eddie Vedder, allora benzinaio, un demo con cinque pezzi registrati dai chitarristi Mike McCready e Stone Gossard e dal bassista Jeff Ament, magari sì. Un eventuale biopic non potrebbe partire che da lì. Dal giovanotto che si entusiasma a tal punto da scrivere al volo dei testi per tre di quei brani solo strumentali (leggenda vuole che li mise su carta dopo averli pensati e memorizzati mentre cavalcava su una tavola da surf le onde del Pacifico) e rispedire a Seattle il nastro, dalla sua San Diego, con la voce sovraincisa. Veniva prontamente convocato per un’audizione “giù al nord” e a quel punto i Pearl Jam erano quasi cosa fatta, essendo il “quasi” la mancanza di un batterista. Bravissimo a perdere treni (stiamo parlando di uno che lasciò i Red Hot Chili Peppers nel pieno della lavorazione di “Mother’s Milk”), Irons aveva già declinato l’invito a unirsi al gruppo ed era Dave Krusen a sedersi dietro piatti e tamburi. Registrato fra il marzo e l’aprile del 1991, “Ten” usciva il 27 agosto. Occhio alla data: “Nevermind” arriverà nei negozi il 24 settembre ed è dunque destituita di fondamento la percezione che resta diffusa dei Pearl Jam come epigoni dei Nirvana o peggio, per i detrattori, una versione mainstream della banda Cobain costruita a tavolino per sfruttarne l’enorme successo. A parte che “Ten” è decisamente differente cosa rispetto a “Nevermind”, e con il suo parziale riallacciarsi a un canone di hard anni ’70 che i Nirvana sempre scansarono era in effetti più adatto sulla carta a platee estranee quando non ostili a punk e new wave, 1), “vendersi” non era nei programmi del giovane Vedder (che anzi da quella fama improvvisa si sentì destabilizzato) e, 2), Gossard e Ament vantavano cv inappuntabili anche per il più talebano fra i tifosi dell’underground. Incredibile che tuttora in tanti ignorino che i due di cui sopra erano stati, con gli esplosivi Green River, fra i pionieri della scena di Seattle (dal loro scioglimento nacquero anche i Mudhoney), e avevano poi fondato i Mother Love Bone. Se Andrew Wood, cantante di questi ultimi, non fosse uscito prematuramente e tragicamente di scena i Pearl Jam non sarebbero mai esistiti. Altro che imitatori! Altro che “poseurs”! Erano però accuse che bruciavano e alle quali i nostri eroi replicarono a modo loro, confezionando di fila tre album in cui prendevano le distanze da un debutto valido ma ineguale, con picchi altissimi ma pure qualche inciampo. Prima “Vs.” (1993), oltre che più ispirato assai più policromo, con il suo includere canzoni “alla R.E.M.” e rock tribali, accenni di funk e piccole deviazioni verso il blues. Quindi “Vitalogy” (’94), provocatoriamente reso disponibile dapprincipio solo in vinile quando il vinile era specie in via di estinzione, anticipato da Spin The Black Circle, cavalcata fra punk e metal dal potenziale radiofonico nullo, e contenente oltre a diverse ballate cabaret waitsiano e rock latino. Infine il capolavoro “No Code” (’96), parecchio influenzato da un altro capolavoro, “Mirror Ball”, frutto l’anno prima del sodalizio stretto con Neil Young. “Yeld” (’98) tirerà le somme, regalando fra il mirabile resto una Given To Fly nella quale i Pearl Jam sembrano una versione grunge… esatto… dei primi U2.
Poteva un gruppo simile allestire un banale “Best Of” con i brani più celebri? Edito nel 2004, “Rearviewmirror (Greatest Hits 1991-2003)” seguiva nei suoi due dischetti l’ordine cronologico (unica eccezione Yellow Ledbetter, retro nel ’92 di Jeremy, collocata a suggello) ma optava per dividere le sue due ore e ventitré minuti fra un primo CD intitolato “Up Side” e un secondo chiamato “Down Side”. Su uno i pezzi più tirati insomma e sull’altro le ballate, per quanto qualche canzone più schiettamente rock vi faccia capolino. L’antologia in questione è stata appena ristampata su due doppi LP acquistabili separatamente. Offre quasi tutti i cavalli di battaglia, aggiunge lati B, tre pezzi da colonne sonore e Last Kiss, cover di un brano del 1961 di Wayne Cochran che nel 2002 diventava a sorpresa il singolo di maggior successo dei Nostri (un numero 2 USA). Se volete avere in casa in vinile l’album più rappresentativo dei Pearl Jam vi tocca comprarne due e pure doppi.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.
Condivido in pieno il giudizio sull’ultima produzione dei due gruppi. Riguardo agli U2 aggiungerei che forse la produzione intera degli anni novanta, pur diseguale, meriterebbe un giudizio piu` indulgente di quello formulato da molti critici. Ho però un dubbio: mi sbaglio o nel 2003 ALL THAT YOU CAN’T LEAVE BEHIND, che pure conteneva almeno tre o quattro canzoni di buon livello, era stato inserito in un numero di EXTRA tra i 100 dischi da evitare?
Non sbagli e proprio Eddy scrisse la scheda in cui un poco lo massacra. Forse ha cambiato idea.
Eh… Non potevo immaginare che sarebbero caduti ben più in basso.
Mi piacciono molto i Pearl Jam e No Code è uno dei miei dischi preferiti in assoluto… però sì, a essere onesti è pienamente condivisibile la tua opinione sulla loro rilevanza negli ultimi anni.
Una curiosità, che ne pensi del primo disco solista di Eddie? La colonna sonora di Into the Wild.
Niente di che, per quel che ricordo e per quanto vale il ricordo di un disco ascoltato non più di due volte ormai quindici anni fa.
Achtung Baby e Zooropa sono due grandi dischi, poi, a parte qualcosa di Pop, gli U2 sono caduti nel baratro. Consideriamo che erano già da più di un decennio sulla breccia, con almeno tre capolavori in bacheca. Per quanto riguarda la cancellazione del debito, beh, lasciamo perdere. Il paragone con i PJ secondo me non ci sta, Vedder e soci nei Novanta con quella sigla erano ad inizio carriera. Il Ten degli U2 è stato Boy e viceversa. A ciascuno il suo.