
Cacciato nel 1949 dal primo impiego stabile da musicista professionista, al seguito di un luna park, per avere insegnato al sassofonista che faceva coppia con lui un brano jazz e oltretutto, il che rendeva ancora più grave il delitto, in stile be bop. Ingaggiato nel ’50 da un grande del blues in procinto di diventare rhythm’n’blues quale Pee Wee Crayton ma, dopo poche date, pagato da costui per non suonare e sì, avete letto bene. Anche così, a forza di aneddoti, nelle note di copertina di quello che fu nel 1958 l’album d’esordio di Ornette Coleman il buon Nat Hentoff (uno dei critici meglio informati e più acuti che mai abbiano discettato di jazz) spiegava come mai l’artista di Forth Worth arrivasse a debuttare solo ventottenne quando i primi ingaggi li aveva rimediati a sedici anni. Colpa per così dire di un’originalità talmente spiccata da rendergli difficile trovare complici in grado, se non di capirlo, perlomeno di assecondarlo. Sul serio al tempo la musica dell’alto sassofonista texano era, come annunciava orgogliosamente il titolo del suo primo LP, qualcosa di diverso, e speciale, e dietro quattro punti esclamativi pienamente giustificati. Se oggi “Something Else!!!!” ci pare assolutamente godibile, e stentiamo magari a cogliere la carica innovativa di composizioni già liberate da quelle che erano le convenzioni armoniche e melodiche dell’epoca, è per due ragioni: una è che, in misura rilevante grazie allo stesso Ornette, determinati paletti verranno poi spostati ben più avanti e cinquanta, sessant’anni dopo certi jazzofili ancora non ci hanno fatto l’orecchio; l’altra è che nelle nove magnifiche tracce (tutte autografe) che vi sfilano la ritmica ─ Don Payne al contrabbasso, Billy Higgins alla batteria ─ swinga che è un piacere. Idem il piano di Walter Norris e quasi sfugge, allora, come il sax e la tromba di un giovanissimo (ventun anni quando queste sedute venivano eternate) Don Cherry svarino prendendosi libertà inaudite, dentro ma in prevalenza fuori dalle sequenze di accordi della melodia di base, sull’orlo e spesso oltre della dissonanza. Lo si noterà tanto di più, da lì a pochi mesi, nel successivo ─ secondo e ultimo 33 giri per la Contemporary ─ “Tomorrow Is The Question!”, laddove senza un pianoforte a legarla la musica si faceva mercuriale e se tanti gridarono al genio erano molti di più a parlare di un bluff, o tout court di un ciarlatano che se suonava così era per incapacità, figurarsi un po’. Lode allora a quella lenza di John Lewis che in contemporanea con gli eventi annotava: “Ritengo che la musica di Ornette sia uno sviluppo di quella di Charlie Parker senza che di Parker riprenda le scale o lo stile. È un qualcosa di assai più profondo e spero che sia lui che Don Cherry abbiano una vita artistica lunga e fruttuosa”. L’avranno. “Tomorrow Is The Question!” (punto esclamativo ne è rimasto uno, ne mancano almeno due) appare insomma già un filo più “avanti” del pur prodigioso, e complessivamente forse più ispirato, predecessore. Eternato da Lester Koenig a Los Angeles fra il gennaio e il marzo del 1959, affianca di nuovo al sax alto di Coleman la tromba di Cherry, mentre al contrabbasso si alternano Percy Heath e Red Mitchell e alla batteria sedeva per l’occasione Shelly Manne. È un gioioso e magmatico scorrere di blues alterati, ballate, presagi di armolodia. Seconda testimonianza preziosa dei preparativi per una rivoluzione.
La quale andava compiutamente in scena ─ a dare man forte al leader il solito Cherry e una fenomenale sezione ritmica formata da Charlie Haden al contrabbasso e dal redivivo Billy Higgins dietro piatti e tamburi ─ appena due mesi dopo, il 22 maggio 1959 (il disco verrà pubblicato in novembre, primo di innumerevoli su Atlantic), ai Radio Recorders di Hollywood. Nesuhi Ertegun a preoccuparsi che venisse registrata impeccabilmente (anche dal punto di vista della qualità tecnica si stenta a credere, ascoltandole, che queste incisioni abbiano sessantadue anni) dopo essersi preoccupato di convincere il sassofonista a non abbandonare la musica per darsi a studi religiosi, come a un certo punto era fortemente intenzionato e provateci voi a immaginare le conseguenze se il discografico non fosse risultato abbastanza persuasivo. Appassionato, preveggente, astuto, Ertegun contribuiva (incommensurabilmente) a rendere epocale l’album pure imponendogli il titolo splendidamente arrogante che ha, “The Shape Of Jazz To Come”, “La forma del jazz a venire”, niente di meno, quando l’autore avrebbe voluto chiamarlo “Focus On Sanity”. Con una scaletta di sei pezzi tanto per cambiare tutti a firma Coleman (due outtake verranno recuperate nel 1970 in altrettante antologie) il disco reinventa radicalmente la tradizione cui tuttavia appartiene e porrà le basi per il nascere di una nuova scena, a battezzare la quale provvederà sempre Ornette nel 1961 con un altro e già ennesimo capolavoro, “Free Jazz”. Lo fa mettendo in discussione e anzi definitivamente da parte quello che era nell’ambito il concetto canonizzato di armonia, accantonando l’idea che i cambi di accordo dovessero essere concretamente delineati e sistemando gli assoli secondo l’estro del momento, indipendentemente dal centro tonale del brano. Lunghe improvvisazioni legano il delinearsi del tema al suo riemergere, ma l’aridità di tanta avanguardia che da qui proverà a trarre ispirazione è tenuta alla larga dal calore di melodie di intrinseco romanticismo (non a caso la dolente Lonely Woman, che inaugura, sarà una delle poche composizioni del nostro uomo a venire frequentemente riprese da altri e a farsi dunque standard) e da una ritmica (Haden si concede talvolta l’archetto e sono momenti di lirismo indicibile) che insieme ancora, dialoga, sospinge.
“The Shape Of Jazz To Come” è stato oggetto negli ultimi anni di numerose ristampe in vinile. Lo spassionato consiglio al lettore è di scansare accuratamente tutte quelle griffate con i marchi più improbabili, specializzati nello sfruttamento di opere su cui sono scaduti i diritti d’autore ma delle quali non hanno ovviamente l’accesso alle incisioni originali, e premiare invece il lavoro di un’etichetta seria, serissima quale è Speakers Corner, che riedita solo lavorando in analogico su master di prima generazione concessi in licenza dai legittimi proprietari. L’auspicio è che presto, prestissimo aggiunga al suo ricco catalogo anche “Something Else!!!!” e “Tomorrow Is The Question!”, le cui ultime ristampe non truffaldine sono su OJC e datano rispettivamente 2011 e 2015.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.435, ottobre 2021.
Ringrazio il cielo che, in un epoca artisticamente priva di stimoli e nella quale molte nullita` vengono contrabbandate come “artisti” , c’e` ancora qualcuno che ricorda a tutti chi sono stati i veri giganti della musica moderna. Nel 1998 ho avuto il privilegio, durante Umbria jazz, di assistere a diverse performance di Ornette durante le quali, da grande visionario quale era, alternava la rievocazione del suo quartetto storico a momenti in cui interagiva, nientemeno, che con un gruppo vocale sardo. Il cofanetto che riunisce le sue incisioni per la Atlantic e` uno scrigno prezioso di idee davvero innovative; la sua idea di liberta“ nella musica non era un insensato procedere nel caos. Svincolando la melodia da strutture armoniche troppo rigide, egli riusci` nel miracolo di dar vita a una musica in cui disciplina e rigore non soffocavano l’estro del momento. Sarebbe il caso di ricordare almeno altri due momenti in cui la musica di Ornette fece altri passi avanti sulla strada della completa emancipazione da certi vincoli formali: il LIVE registrato alla Town Hall nel 1962 per la ESP con David Izenzon e Charles Moffett e i due bellissimi live incisi per la Impulse in cui, nientemeno, fa esordire alla batteria il figlio dodicenne.
Venerato Maestro, bella recensione, riesci a scrivere molto bene anche di Jazz. Vedo che l’articolo risale a ottobre 2021, volevo solo segnalare, che è disponibile la ristampa di qualità in vinile, in analogico e dai master originali, realizzata dalla Craft, di “Something Else!!!!” e “Tomorrow Is The Question!” raccolti in cofanetto