
Un giorno lo faranno un film ─ cioè: uno serio ─ su Jimi Hendrix e, dovendone decidere l’incipit, lo sceneggiatore avrà l’imbarazzo della scelta. Potrebbe optare per il sensazionalismo e partire dalle undici e ventisette di quella tragica mattina del 18 settembre 1970. Chiamata nove minuti prima, un’ambulanza si ferma davanti al londinese Cumberland Hotel. Orribile lo spettacolo che si presenta ai barellieri e ai due poliziotti sopraggiunti un attimo dopo: riverso sul letto di una stanza la cui porta trovano spalancata giace il corpo di un giovane nero, o che c’è da supporre nero visto il colorito cinereo. Il volto è coperto di vomito, ma la maggior parte di quanto ha rigurgitato l’ha respirata ed è questo che gli è stato fatale. Ecco, dovesse iniziare così ─ siamo d’accordo? ─ come un sol uomo ci alzeremmo e ce ne andremmo via. Vorrebbe dire che il regista è Oliver Stone e abbiamo già dato. Ci sono tanti altri momenti da cui partire per raccontare la vicenda di chi prese possesso di un rock non ancora maggiorenne e lo rivoltò, come nessuno aveva nemmeno fantasticato si potesse fare. Uno talmente rivoluzionario da non avere avuto, in quarant’anni, eredi veri. Uno che tuttora fa categoria a sé.
Si potrebbe ad esempio coglierlo nell’attimo in cui, sul palco di Monterey la sera del 18 giugno 1967, incendia il suo strumento dopo avere incendiato il cuore di un paese dal quale nove mesi prima se n’era dovuto andare, per cercare fortuna altrove, per non essere più un cittadino di serie B. Un posto dove era troppo nero per i bianchi, troppo bianco per i neri. Oppure si potrebbe indugiare sui suoi occhi che scrutano la spianata ingombra di rifiuti di Woodstock alle nove di mattina del 18 agosto 1969, venticinquemila gli spettatori superstiti degli oltre quattrocentomila che erano arrivati a bivaccarvi nei tre giorni precedenti. Si godranno, quegli sballati già reduci, i venti minuti più epifanici ─ in particolare i 3’43” di una Star Spangled Banner incastonata fra la Voodoo Child e la Purple Haze più incandescenti di sempre ─ della storia della musica tutta del Novecento. O ancora si potrebbe scegliere qualche istante di prima della gloria e immortalare Icaro mentre attacca piume iridescenti su ali che si riveleranno di cera. Mentre compra la sua prima chitarra elettrica. Mentre, militare della 101a Divisione Aviotrasportata, si lancia dal portellone di un aereo e nel volo coglie immagini di ciò che sarà. O si rivede mentre piange, con il dolore e la frustrazione che si possono provare soltanto a quindici anni, perché stanno seppellendo sua madre e lui non c’è.
Però a ben pensarci c’è un solo modo giusto per cominciare un racconto con protagonista James Marshall Hendrix. Bisogna seguirlo in quelle ventiquattro ore pazzesche in cui, perfetto sconosciuto appena sceso dal Boeing Pan Am della tratta John F. Kennedy-Heathrow, trovò in un colpo le entrature per i più elitari circoli musicali londinesi e l’unico amore genuino della sua vita adulta. Se consultate un’enciclopedia, ci troverete scritto che Jimi Hendrix nacque il 27 novembre 1942. Balle. La vera data è un’altra: 24 settembre 1966. Quel giorno il mondo si capovolse.
L’Hendrix che arriva a Londra sottobraccio a Chas Chandler, fino a un attimo prima bassista degli Animals riciclatosi manager con l’ambizione di essere subito rampante, è un Signor Nessuno con come bagaglio una Stratocaster e una borsa con dentro un cambio di vestiti, un barattolo di crema per l’acne e… a ventitré anni si può essere un po’ vanitosi, no?… il set di bigodini rosa che usa per arricciare la folta capigliatura. In tasca ha quaranta dollari e la dice lunga su che vita abbia menato fino a quel punto che sia stato un amico, il batterista Charley Otis, a prestarglieli. Lui non li aveva e dire che è musicista di professione sin dal ’63. E con che razza di curriculum! Ha transitato brevemente nei gruppi di Carla Thomas, Tommy Tucker, Slim Harpo, Jerry Butler, Marion James, Chuck Jackson, Solomon Burke, Otis Redding, Curtis Mayfield, Bobby Womack. È stato per periodi più lunghi con gli Isley Brothers, Little Richard e i popolarissimi Joey Dee & The Starliters. Ha lavorato da turnista, mettendo fra il resto un decisivo zampino nella canzone, Mercy, Mercy, che ha regalato a Don Covay le classifiche e un posticino negli annali del soul. E nondimeno non solo non è riuscito ad accantonare un soldo bucato ma fa ancora una fatica tremenda, con quello che guadagna, a fare due pasti al giorno e pagare l’affitto di una topaia in cui dormire. Per tenere insieme anima e corpo è arrivato alla follia di tentare una rapina e gli è andata bene che è riuscito a scappare, visto che se l’avessero preso automaticamente si sarebbe ritrovato sul groppone pure quell’antica condanna a due anni per furto d’auto evitata arruolandosi nell’esercito. Per tenere insieme anima e corpo è arrivato all’indegnità di ─ ecco, qualcosa che gli va bene c’è: a dispetto di statura bassa, corporatura esile e brufoli, per il gentil sesso è già un magnete ─ farsi mantenere da delle giovani prostitute. Forse ha anche vagheggiato di fare il magnaccia, ma appena per un attimo: è suonando che vuole diventare ricco e vendicare un’infanzia e un’adolescenza trascorse fra stenti e abbandoni. E poiché non sono i soldi facili che gli interessano, bensì conquistare con la sua arte la fama, non ci ha pensato un istante a rifiutare chi lo tentava con le lusinghe dello spaccio. È un sognatore che già troppe volte ha sbattuto la faccia contro la realtà e non si fa illusioni. Ha chiesto sia al batterista dei suoi Blue Flames, Danny Taylor, che a Billy Cox, un bassista conosciuto sotto le armi, di accompagnarlo nel viaggio inglese e ai loro cortesi rifiuti ha replicato allegramente con un “be’, andrò a fare la fame laggiù, allora”. Ha posto a Chandler come conditio sine qua non per intraprendere un’avventura che gli pare una mattana che gli presenti uno dei suoi idoli, Eric Clapton. Chandler ha promesso e manterrà in fretta: quegli otto giorni dopo essere sbarcato in Inghilterra, Jimi dividerà un palco con i Cream e spaccherà il bianchissimo culetto al povero Eric. Un uomo che i suoi fans chiamavano Dio veniva fatto riprecipitare sulla terra da un essere che dovette sembrargli un marziano.
Prosegue per altre 48.203 battute su Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.24, inverno 2007. Fosse ancora fra noi, Jimi Hendrix compirebbe oggi ottant’anni.
A quando qualche anticipazione sul contenuto del n. 2, Eddy?
Pazienta ancora qualche giorno e contenuto e libro saranno di pubblico dominio.