
Domenica 28 giugno 1970, Bath, seconda giornata del festival di “blues e musica progressiva”. In centocinquantamila sono calati sulla cittadina del Somerset attirati da un cast stellare: Jefferson Airplane e Hot Tuna, Frank Zappa, Moody Blues, Byrds, Santana, Dr. John, Country Joe. E Led Zeppelin, per i quali quel Mangiafuoco di Peter Grant ha ottenuto il posto più alto in cartellone, attrazione principale, ultimi ad andare in scena e del resto sono o non sono il gruppo che a Natale dell’anno prima ha scalzato i Beatles dalla vetta delle classifiche USA? “II” vi ha rimpiazzato “Abbey Road” e da allora ha continuato a vendere a ritmi incredibili. Primo pure nella graduatoria britannica e nondimeno al manager e ai suoi protetti pare di non essere stati affatto, fino a quel punto, profeti in casa. La stampa li ha bistrattati, se non ignorati, e di conseguenza persino fra quanti hanno comprato il disco, e magari li stanno ora aspettando, c’è ancora chi crede siano americani. Tempo che le cose cambino. Nella strategia di conquista del suolo patrio, lo sbarco a Bath ha un ruolo chiave: dopo, più nessuno dovrà/potrà ignorare chi siano i Led Zeppelin. E siccome un regno vale una messa per essere lì si è rinunciato a due date oltre Atlantico, esibizioni a Boston e New Haven che avrebbero fruttato la rispettabile cifra di un quarto di milione di dollari, si è premurato di far sapere in giro Grant.
È stata una tipica giornata inglese di inizio estate, con un sole anche cattivo a fare capolino fra gli scrosci di pioggia. Ma poi si è alzato un venticello che sta adesso spazzando via le ultime nubi e ci si avvicina al tramonto immersi in una luce stupenda. Stanno suonando i Flock, penultimi, e il pubblico mostra di gradire il loro errebì venato di jazz e dalle ardite aperture classicheggianti. Tant’è che l’esibizione sta prolungandosi oltre il previsto. Un problema per Peter Grant, il cui piano è che il Dirigibile si levi in volo nell’istante esatto in cui il sole scomparirà dietro l’orizzonte. A estremi mali, estremi rimedi. Ordina al braccio destro Richard Cole di staccare la corrente e costui provvede nel bel mezzo di un assolo di violino. Dopo di che, si catapulta sul palco e comincia personalmente a sloggiarne la strumentazione degli stupefatti chicagoani. Quando uno dei loro tecnici accenna una protesta, un cazzotto bene assestato da uno degli energumeni che fiancheggiano Grant tronca la discussione. E così Robert Plant, riccioluta chioma dorata spiovente ben oltre le spalle su una camicia blu a pois, può accostarsi al microfono al momento giusto e salutare la platea con un “è bellissimo essere qui, in un festival all’aperto dove non è successo niente di spiacevole”. Occhiolino a Page, che dal suo canto sfoggia un completino campagnolo, cappotto grigio e cappello da bifolco, e un urlo belluino si scaglia verso un cielo che va prendendo i colori di un crepuscolo wagneriano. Con immane clangore parte una turbinosa canzone nuova, scritta in Islanda una settimana prima. Si chiama Immigrant Song ed è una fantasia guerriera in cui gli Zeppelin fanno la parte di invasori vichinghi che saccheggiano, violentano, incendiano. Pace e amore? Ma vaffanculo! Benvenuti negli anni ’70.

Volo magico numero uno
Sempre carino il giochino del “what if” e in tempi giurassici per questa rivista (numero 2, estate 2001) ci si divertì a farlo con i R.E.M. (fra l’altro: all’altezza del capolavoro “Automatic For The People”, 1992, John Paul Jones si ritrovò a scrivere degli arrangiamenti per costoro). Vi va di giocarlo con i Led Zeppelin? Tanto per cominciare ci si può chiedere proprio quanta strada avrebbero percorso con una ragione sociale meno efficace di quella suggerita da Keith Moon quando, nel marzo 1967, per un attimo il batterista degli Who vagheggiò un supergruppo con John Paul Jones al basso e un fenomenale terzetto di chitarristi: Jimmy Page, Jeff Beck, Ron Wood. Page terrà a mente. Vi basti sapere che gli altri nomi considerati a suo tempo furono Mad Dogs (lo userà Joe Cocker) e un tremendo Whoopee Cushion. Converrete che non sarebbe stata la stessa cosa. Ci si può poi interrogare su quali differenti pieghe avrebbe preso la storia del rock se nell’ordine: Robert Plant, che ancora non conosceva Page, fosse entrato negli Slade (che ci pensarono su ma poi decisero che era troppo effeminato); Terry Reid non lo avesse suggerito a Page quando declinò il suo invito a raggiungerlo nei New Yardbirds; John Bonham avesse preferito la paghetta mica male (quaranta sterline alla settimana) che gli allungava il cantautore Tim Rose, oppure una delle contemporanee offerte di Joe Cocker o Chris Farlowe. Giacché la delicatissima alchimia non avrebbe potuto prodursi e immaginatevela l’evoluzione del rock senza questi quattro cavalieri dell’Apocalisse fatti per correre uno a fianco dell’altro. Oppure: cosa sarebbe successo se il Dirigibile si fosse schiantato al suolo prima di quanto non accadde. Molto prima: il 31 dicembre 1968 quando, diretta da Portland a Seattle nel pieno di una delle peggiori tormente di neve che si ricordino da quelle parti, per un nonnulla la macchina con Richard Cole al volante e a bordo Peter Grant e gli Zeppelin al completo non cadde in un burrone. Un po’ prima: nel marzo 1975, quando una squilibrata di nome Squeaky Fromme dopo avere pedinato per qualche tempo Page decise di sparare invece a Gerald Ford, allora presidente degli Stati Uniti. Mentre invece si può ragionevolmente ipotizzare che un finale meno repentino e drammatico della vicenda o addirittura un non finale ─ perché sì, con un Bonham non defunto li si può pensare tuttora in circolazione i Led Zeppelin, non diversamente da Stones o Aerosmith ─ sarebbero stati, se è di rilevanza storica che si parla, ininfluenti. Già fu un congedo discograficamente minore in maniera imbarazzante il loro e poteva entrare negli ’80 e uscirne vivo (in questo senso: propositivo) chi più di chiunque plasmò i ’70? Né vale osservare che nei ’90 Jimmy Page e Robert Plant hanno licenziato due album strepitosi e uno tutto di canzoni nuove. Fondamentali difatti per la loro riuscita l’entusiasmo del ritrovarsi, la freschezza data dal doversi riscoprire dopo non essersi frequentati per quasi tre lustri.
Logico e illogico che dalla trasmissione di “Unledded” su MTV nell’ottobre 1994, con conseguente record di ascolti, le voci di una reunion si siano rincorse più che mai e forse non è stata apprezzata abbastanza l’onestà intellettuale fuori dal comune che indusse i due a non usare (al di là del fatto che mancasse John Paul Jones) la riverita sigla. Tormentone destinato ad andare avanti chissà per quanto ancora. Eppure, al prossimo 7 di luglio saranno trascorsi venticinque anni dall’ultimo concerto degli Zeppelin (appropriatamente tenutosi in quel di Berlino) e al 25 settembre altrettanti dalla prematura scomparsa di John “Bonzo” Bonham. Il 14 luglio saranno invece venti da “Live Aid” e dai venti minuti in cui, in mondovisione, Plant, Page e Jones divisero una ribalta e tre canzoni, evento non paragonabile, per il sensazionale impatto che ebbe, all’introduzione nella “Rock And Roll Hall Of Fame”, una faccenda del ’95. Insomma: ricorrevano un sacco di anniversari, se proprio bisognava inventarsi delle scuse per parlare di uno dei gruppi più seminali di sempre.
Prosegue per altre 54.216 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.17, primavera 2005.