
Si è sempre concessa con parsimonia Beth Orton: nove album in ventinove anni. Il che non basterebbe a rendere ogni sua uscita un evento non fosse che è sempre stata qualcosa di più e di diverso rispetto a una pur dotata cantautrice. È che l’artista inglese ha fatto da tramite fra mondi lontanissimi che anche grazie alla sua opera a un certo punto si trovarono a intersecarsi tanto strettamente che per quella musica inaudita si coniò un’etichetta: folktronica. E chi più di lei ─ collaboratrice di William Orbit e dei Chemical Brothers come di Terry Callier, allieva e amica di Bert Jansch che nel 2006 la voleva accanto a sé nell’ultimo dei suoi capolavori, “The Black Swan” – aveva le carte in regola per esserne designata a vessillifera? Però a un certo punto ─ era il 2012, il disco era “Sugaring Season” ─ sembrò che Beth avesse fatto una scelta di campo. Resta il suo album folk, visto che con “Kidsticks” nel 2016 effettuava un’inversione a u confezionando la sua opera insieme più sperimentale e maggiormente indirizzata al dancefloor. Per molti la meno convincente, benché vanti alcuni brani notevoli e in ogni caso si stia parlando di una il cui minimo sindacale surclassa la quasi totalità della concorrenza.
“Weather Alive” non va in una direzione né nell’altra e nemmeno media fra i predecessori. Composto su un piano malandato (strumento di cui la Orton ha una padronanza basica), assemblato con un quartetto di musicisti di area jazz, a volerlo proprio catalogare finirebbe alla voce fuori moda “downtempo”. Ma se talune tracce rimandano indubbiamente ai Portishead in altre si odono echi di Talk Talk, David Sylvian, Peter Gabriel. Di folk un accenno, di funk pure, il finale vira ambient. Beth Orton resta in movimento e unica.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.