
Il 29 dicembre 2001 veniva improvvisamente e prematuramente (cinquantasettenne) a mancare Florian Fricke. Non se ne sarebbe parlato molto: da un certo punto di vista appropriatamente, siccome il compositore bavarese aveva sempre menato vita ritirata; da un altro fu una grande ingiustizia, giacché il corpus della sua opera risulta di eccezionale livello medio, con poche depressioni e in compenso diversi picchi e qualcuno vertiginoso. Da allora però giustizia è stata fatta, diffusa la consapevolezza che i suoi Popol Vuh, lungi dall’essere l’oleografica congrega hippie di certe superficiali rappresentazioni, del krautrock furono fra i giganti, peculiari quanto Kraftwerk e Can, Neu! e Faust, Cluster, Harmonia o Ash Ra Tempel, e altrettanto innovativi: pionieri dapprincipio di un’elettronica che, con splendida schizofrenia, da un lato guardava al futuro e dall’altro con etnico afflato si immergeva in arcaici passati; quindi declinatori di una versione insieme più rock e acustica del medesimo stile e verrebbe da dire precursori della new age, se l’etichetta non fosse diventata una parolaccia. Chiamiamolo rock “da camera”, allora. “Affenstunde” fu il debutto: formidabile esempio di inaudita ambient psichedelica innervata di suggestioni world, sogno acquatico che lascia stupefatti senza bisogno di stupefacenti.
Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.