Ordinabile a partire da oggi. 274 pagine, euro 23. Seguito di Extraordinaire 1, che nel 2020 raccoglieva le monografie su solisti e band statunitensi pubblicate in origine sul mensile e poi semestrale “Extra”, questo secondo volume riprende quelle dedicate fra il 2001 e il 2012 ad artisti perlopiù britannici, ma non solo. Integrato con alcuni articoli usciti fra il 2013 e il 2019 per il mensile “Blow Up”, il libro antologizza scritti su Lucio Battisti, Beatles, John Lennon, Rolling Stones, Bert Jansch e Pentangle, Terry Reid, Led Zeppelin, Black Sabbath, Deviants e Pink Fairies, Area, Can, David Bowie, Peter Gabriel, Bob Marley, Clash, Specials, Billy Bragg e Nick Cave. Solo su Amazon.
Se “Blow Up” è stato puntuale nel suo appuntamento con l’edicola e voi eravate lì ad attenderlo, ci sono buone possibilità che leggiate queste righe il 5 dicembre 2001, giorno in cui il signor Richard Wayne Penniman, meglio noto come Little Richard, compirà sessantanove anni. Con la medesima affettuosa perfidia che spinse nell’85 il “New Musical Express” a intitolare una delle sue ultime interviste importanti The King & Queen Of Rock’n’Roll, ho pensato che fosse il compleanno più appropriato da festeggiare per colui che, oltre ad avere plasmato in maniera determinante Beatles, Creedence Clearwater Revival, Bruce Springsteen e Prince, ha introdotto il sesso nella trimurti “sesso e droga e rock’n’roll”. Del terzo elemento spero che anche i più sprovveduti fra voi sappiano che fu uno degli inventori. L’architetto, preferisce chiamarsi lui. Con il secondo ha avuto rapporti intensi, alternando a lungo nella sua vita i periodi in cui si faceva di sostanze assortite con altri in cui ha preferito farsi di domineiddio. Il suo ultimo album non antologico risale all’ormai lontano 1992 ed è a questo punto ragionevole ipotizzare che non ne ascolteremo altri. Parata di canzoni per bambini rivisitate alla sua maniera, “Shake It All About” usciva nientemeno che per i tipi della Disney, imprimatur di rispettabilità amerikana su una carriera esordita fra la parata di spostati di un medicine show quasi fuori tempo massimo. Era il 1947.
New Deal e secondo conflitto mondiale non sono stati del tutto bastanti a fare emergere la Georgia dalle disperanti sabbie mobili della Grande Depressione. Scampoli di Ottocento vi sopravvivono e fra essi spettacolini itineranti in cui truffaldini marpioni spacciano unguenti atti a guarire ogni malanno all’ignorante platea di astanti, non ancora abituata a farsi rifilare le stesse fregature dalla TV. Fra una vendita e l’altra vengono offerti numeri sia comici che musicali e il quindicenne Richard Wayne, il più piccolo della compagnia e dunque Little Richard, intrattiene il pubblico cantando soprattutto i gospel che babbo gli insegnò, collaudati in battaglie in chiesa con gli agguerriti Penniman Singers, papà, mammà e quasi una dozzina fra fratelli e sorelle. Non proprio un’infanzia felice la sua. Un braccio e una gamba più corti di compagno e compagna gli hanno regalato il crudele dileggio dei coetanei nella nativa Macon (la stessa città che crescerà Otis Redding) e gli atteggiamenti effeminati sopraggiunti allo scoccare della pubertà altri lazzi, scudisciate da parte del padre (severo avventista del settimo giorno) e le interessate attenzioni dei maschioni bianchi frequentanti i bassifondi locali. Ergo: si scappa di casa. Il crepuscolo del decennio lo sorprende ad Atlanta, nel quartiere gay, dove vestito e truccato da donna sciorina indifferentemente vaudeville e primitivo errebì. Lo nota un blues shouter di nome Billy Wright. Aspetto non esattamente sobrio pure costui e grande presenza scenica, sarà non solo un’influenza importante sul ragazzo ma pure il suo primo sponsor, procurandogli un contratto con la RCA e prestandogli il suo gruppo per la seduta in sala di incisione che frutterà nell’ottobre ’51 il singolo Every Hour/Taxi Blues. Piuttosto ben venduto, sebbene soltanto a livello locale. Altre facciate gli vanno dietro nei mesi seguenti, con impatto decrescente. Nel 1952 Riccardino vagabonda assai ma è proprio a Macon che ha modo di conoscere tale S.Q. Reeder. Non vi dice niente? Provo con il nome d’arte: Esquerita. Spettacolare acconciatura da madama francese del XVIII secolo, abbigliamento non meno vistoso e dita che corrono frenetiche sui tasti del piano. Una fiammeggiante star nella vita, prima ancora che le vendite discografiche lo decretino tale. Il giovane Richard osserva e prende nota. È di quelle fatidiche settimane un riavvicinamento con il padre che la morte prematura di costui, assassinato durante una rissa, impedisce che diventi completa riappacificazione. Colmo di rimorsi e sentendo il dovere di contribuire al bilancio famigliare in crisi, Little Richard si ritira per la prima di innumerevoli volte dalle scene. Dura pochi mesi. Troppo forte il richiamo della ribalta. A fine anno possiamo trovarlo ospite fisso al Tijuana Club di New Orleans.
New Orleans! Santa Bagascia di un Nuovo Mondo dal cuore in realtà antichissimo. Là in Congo Square, centro di una città meticcia con cattolici e latini prevalenti su protestanti e anglosassoni (unico caso in Nordamerica), gli schiavi hanno ballato danze d’estasi sul rollare di tamburi ancestrali. Là Marie Laveau ha tramato i suoi incantesimi vudù. Là, nel quartiere a luci rosse, il jazz ha avuto la sua culla. Dove, se non là, poteva sbocciare la musica più bastarda di tutte, il rock’n’roll?
Prosegue per altre 5.846 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.43, dicembre 2001. Ricorre oggi il novantesimo anniversario della nascita di Richard Wayne Penniman, in arte Little Richard.
Che strana coppia! In origine un oceano e tredici anni separano Sonic Boom, nato Peter Kember nel 1965, da Noah Benjamin Lennox, classe 1978, in arte Panda Bear. Li accomunano l’amore per la psichedelia e l’essersi iscritti alla storia maggiore del rock: il britannico nei secondi ’80 dividendo con Jason Pierce la leadership degli Spacemen 3, l’americano capitanando negli ultimi due decenni insieme ad Avey Tare gli Animal Collective. Solo che dei primi Sonic Boom era l’anima noisy, dei secondi Panda Bear è quella melodica, colui che a un certo punto li ha trasformati da combo ultra-sperimentale in una sorta di Beach Boys per il XXI secolo. Ma… che dicevo dell’oceano? Prima di mettermi in cerca di notizie riguardo al per me sorprendente sodalizio ho dato una letta alle biografie dei due e li ho scoperti (lo sapevo, me n’ero dimenticato) entrambi degli espatriati. Dove? In Portogallo. Che già avessero collaborato ─ Sonic Boom a “Tomboy” e “Meets The Grim Reaper” di Panda Bear, Panda Bear a “All Things Being Equal” di Sonic Boom ─ mi era proprio sfuggito.
Lunga ma necessaria premessa per dire che se la grafica di copertina farebbe presupporre che a guidare la coppia nelle danze sia Kember l’ascolto rivela “Reset” opera prevalentemente nel solco del Lennox in fissa per Brian Wilson. Per certo mai Sonic Boom si era ritrovato coinvolto in un disco così godibile, irresistibilmente solare, pop. Quali simbolici apici segnalerei un’esultante Gettin’ To The Point intessuta di chitarre flamencate, il neo-doo wop Edge Of The Edge e una tropicalista Whirlpool. Apprendere che l’opera più che suonata è il prodotto di certosine rielaborazioni di campionamenti di brani anni ’50 e ’60 aggiunge stupore e diletto.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.446, ottobre 2022.
“In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro.” (Alberto Arbasino)