
L’album con il quale i londinesi Dry Cleaning danno un seguito all’acclamato debutto datato aprile 2021 “New Long Leg” è abbastanza diverso da quello da far parlare di un’evoluzione e anche maturazione del quartetto, abbastanza simile da risultare rassicurante per chi già apprezzò il predecessore, troppo per conquistare nuovi cultori a Florence Shaw e soci. È che per chi non è di madrelingua la posizione che resta preminente nel missaggio della voce di costei (di grandissima lunga l’elemento di maggior spicco nella cifra stilistica del gruppo) rappresenta un intralcio rispetto all’apprezzamento pieno di spartiti pure interessanti, non banali. E se anche il tuo inglese è buono a sufficienza da consentirti di decifrare all’ascolto i torrenziali testi (o anche soltanto quanto basta da apprezzarli ─ e lo strameritano ─ leggendoli) sovente ti sorprendi a cercare di ignorare la voce e concentrarti su quanto sta sotto. A maggior ragione perché Florence praticamente mai canta, al più canticchia. Recita, invece. Un sempiterno monologare che all’inizio intriga, alla lunga stanca, alla fine ti fa pensare che sarebbe bello se i dischi dei Dry Cleaning venissero offerti in versione raddoppiata/sdoppiata. Le canzoni, che poi canzoni in senso tecnico non sono, su un primo CD o vinile, le sole basi strumentali sul secondo.
Tant’è. Concentrandosi molto si riesce a cogliere una maggiore varietà di atmosfere rispetto al debutto. Come uno scivolare (ma senza che sparisca del tutto dal quadro, anzi; vedasi una Conservative Hell joydivisioniana) dal post-punk al post-rock, nel contempo concedendosi ganci pop, scorci quasi psichedelici (la chitarra in scia a Tom Verlaine di Driver’s Story; Hot Penny Day), aperture cinematografiche.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.
È veramente brutta la copertina di questo disco!