
Per inquadrare il settimo album da solista dell’ex-Woods e Babies si può cominciare annotando come non sia se non cronologicamente il seguito del sesto, né del quinto. Lo scarno “Sundowner” vedeva la luce nel 2020 ma raccoglieva canzoni scritte nel 2017 poco prima o dopo l’uscita di “City Music” e non incluse nel 2019 nel concept “Oh My God” perché fuori tema. In tal senso si riallaccia piuttosto a “Singing Saw”, del 2016, di cui il titolare diceva di esserselo immaginato come una libreria da cui lo scrutavano foto di Bob Dylan e Joni Mitchell giovani, e a “City Music”, che così riassumeva: un’istantanea di Lou Reed e Patti Smith in una stanza della Manhattan di metà ’70 mentre si rilassano chiacchierando e fumando.
Ecco: sin da dove è stato in gran parte registrato, ossia nello studio di Memphis che fu di Sam Phillips, “This Is A Photograph” si iscrive a un’analoga visione mitologica del rock (Neil Young e Springsteen altri venerati maestri) e però con una fondamentale differenza rispetto ai predecessori: è che a trentaquattro anni Morby ha raggiunto una maturità e una brillantezza autorali tali da sanzionarne l’ascesa al pantheon dei suoi stessi eroi. Può omaggiare Jeff Buckley, nella tenera e solenne Disappearing, senza fargli il verso o citare John Lennon all’inizio di una Five Easy Pieces dove non vi è altra traccia del fu Beatles essendo il brano un blues con accenti soul e dylaniani, o ancora Tina Turner in una ballata country quale è Goodbye To Good Times, facendola franca. Facendosi applaudire. Da un programma magistrale di Americana a tratti squisitamente orchestrata si stacca una Rock Bottom esilarantemente fra glam e power pop: inchino a un altro idolo del Nostro, il misconosciuto Jay Reatard.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.