Archivi del mese: gennaio 2023

I migliori album del 2022 (7): Kevin Morby – This Is A Photograph (Dead Oceans)

Per inquadrare il settimo album da solista dell’ex-Woods e Babies si può cominciare annotando come non sia se non cronologicamente il seguito del sesto, né del quinto. Lo scarno “Sundowner” vedeva la luce nel 2020 ma raccoglieva canzoni scritte nel 2017 poco prima o dopo l’uscita di “City Music” e non incluse nel 2019 nel concept “Oh My God” perché fuori tema. In tal senso si riallaccia piuttosto a “Singing Saw”, del 2016, di cui il titolare diceva di esserselo immaginato come una libreria da cui lo scrutavano foto di Bob Dylan e Joni Mitchell giovani, e a “City Music”, che così riassumeva: un’istantanea di Lou Reed e Patti Smith in una stanza della Manhattan di metà ’70 mentre si rilassano chiacchierando e fumando.

Ecco: sin da dove è stato in gran parte registrato, ossia nello studio di Memphis che fu di Sam Phillips, “This Is A Photograph” si iscrive a un’analoga visione mitologica del rock (Neil Young e Springsteen altri venerati maestri) e però con una fondamentale differenza rispetto ai predecessori: è che a trentaquattro anni Morby ha raggiunto una maturità e una brillantezza autorali tali da sanzionarne l’ascesa al pantheon dei suoi stessi eroi. Può omaggiare Jeff Buckley, nella tenera e solenne Disappearing, senza fargli il verso o citare John Lennon all’inizio di una Five Easy Pieces dove non vi è altra traccia del fu Beatles essendo il brano un blues con accenti soul e dylaniani, o ancora Tina Turner in una ballata country quale è Goodbye To Good Times, facendola franca. Facendosi applaudire. Da un programma magistrale di Americana a tratti squisitamente orchestrata si stacca una Rock Bottom esilarantemente fra glam e power pop: inchino a un altro idolo del Nostro, il misconosciuto Jay Reatard.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

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I migliori album del 2022 (8): Hurray For The Riff Raff – Life On Earth (Nonesuch)

Lunga la strada che ha portato la statunitense di origini portoricane Alynda Segarra dai due album che si autoproduceva fra il 2008 e il 2010 all’omonimo debutto su Loose Music, che rappresentava nel 2011 il suo ingresso nella discografia ufficiale e nel quale sistemava una scelta di pezzi dai lavori precedenti. E da quello per tramite di ulteriori quattro album a questo, che marca l’inizio di una collaborazione con un’etichetta di enorme prestigio quale la Nonesuch. Percorso affrontato con fierezza e coerenza e nel contempo scansando il pericolo che la sua musica potesse farsi cliché, aggiornandola e arricchendola costantemente ma senza mai perdere il filo del discorso. Sicché qualcosa di indefinibile ma palpabile collega quel “Look Out Mama” che nel 2012 qualcuno descriveva come “una reliquia prebellica che The Band avrebbe potuto ascoltare su un grammofono mentre stava incidendo il primo LP” a “Life On Earth”. Non solo una meraviglia di disco ma quello che potrebbe rendere l’artista di New Orleans una star.

“Nature punk”, lo definisce lei. Del punk conserva invero l’essenziale, lo spirito, ma non aderisce mai alla lettera e se un brano come Precious Cargo non è distante da certi Clash è a “Sandinista!” che rimanda, non a White Riot. Del folk d’antan permangono tracce in un brano omonimo che è delizioso valzer al rallentatore e qui e là in una melodia, una progressione di accordi ma è allora folk-rock, in una Rhododendron con passo alla Roadrunner o in Saga, dove è della prima Chrissie Hynde che si colgono echi. Altre due rispetto a queste pur splendide sono però le canzoni candidate alle classifiche: la schiettamente techno-pop Pierced Arrows; Pointed At The Sun, ballata viceversa gonfia di chitarre indie.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.441, aprile 2022.

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I migliori album del 2022 (9): Wilco – Cruel Country (dBpm)

Chiudere un cerchio dopo ventisette anni se non dopo trentadue. Tornare dove tutto era iniziato, ossia più che ad “A.M”, l’album che per gli Wilco di Jeff Tweedy inaugurava nel 1995 una discografia giunta al dodicesimo capitolo in studio, a quel “No Depression” che nel ’90 avviava il viaggio breve degli Uncle Tupelo di Jeff Tweedy e Jay Farrar: capolavoro nel quale da allora si individua l’atto fondativo dell’alt-country e che ha prodotto epigoni in numero incalcolabile. Doppio per ora solo sulla carta (sarà edito sia in CD ─ forse singolo? una durata che ammonta a 77’04” lo permetterebbe ─ che in vinile quando i problemi di approvvigionamento che affliggono il secondo formato consentiranno un’uscita in contemporanea), “Cruel Country” ha ridestato l’interesse per un progetto che da tempo andava avvitandosi su se stesso, dopo aver prodotto almeno una cinquina di album giganteschi, già al solo annuncio del titolo. Possibile che dopo tutto quanto fatto per distaccarsi da quell’etichetta là ─ alt-country ─ inventandosi un sound inaudito sconfinante nel post-rock Tweedy e soci volessero rivisitare i luoghi da cui erano partiti?

In realtà è così e non è così. Nel percorso che da una Absolutely Sweet Marie sedata chiamata I Am My Mother porta a una The Plains con vistose scorie “post-” gli Wilco declinano sì country-rock (la title track, la ballata Please Be Wrong), quando non schietto country (A Lifetime To Find, Country Song Upside Down), ma pure folk (Ambulance) e folk-rock (All Across The World), non lesinano le consuete melodie beatlesiane (versante Lennon: Hints, Hearts Hard To Find) né momenti da college radio (The Empty Condor, Bird Without A Tail) che fu. A rendere eccezionale “Cruel Country”, decretandolo la loro prova migliore da “Sky Blue Sky” (lontano 2007), sono il livello della scrittura (più byrdsiana dei Byrds, Tired Of Taking It Out On You è quanto di più istantaneamente memorabile ci abbia regalato Jeff Tweedy da molti anni a questa parte) e la rilassata intensità di incisioni catturate perlopiù dal vivo in studio, con pochissime integrazioni a posteriori.

Pubblicato per la prima volta in una versione più breve su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022. “Cruel Country” sarà infine disponibile, sia in CD che in vinile (entrambi doppi), a partire da venerdì di questa settimana.

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I migliori album del 2022 (10): The Black Angels – Wilderness Of Mirrors (Partisan)

Il gruppo che meglio ha trasposto il verbo psichedelico nel XXI secolo? Questi texani devoti a Roky Erickson come ai Velvet Underground, da una cui canzone prendevano il nome e nel 2017 il titolo di un album, il quinto, “Death Song”. Anche ora che si è aggiunto un sesto resta il più fosco e minaccioso in discografia, tensione che non mollava per quasi intero il suo svolgimento, dando requie giusto nella conclusiva Life Song: estatico space rock dalla malinconia sorridente, se l’ossimoro è concesso. “Wilderness Of Mirrors” riparte da lì, con una Without A Trace intessuta di chitarre elettriche trillanti e tamburi tribali, animatamente torpida (altro ossimoro) e stupefatta. Grandioso incipit per un’opera che nel solco dei predecessori continua a dilatare i tempi. Sono 57’49”, praticamente la stessa durata del debutto del 2006 “Passover”, 58’48”, che nel 2008 nel monumentale in ogni senso “Directions To See A Ghost” diventavano 70’25” (quasi ottanta nella versione triplo LP). Laddove nel 2010 “Phosphene Dream” con i suoi 36’11” oltretutto alquanto pop pareva al confronto una bagatella e nel 2013 “Indigo Meadow” nei suoi 45’44” mostrava qualche lieve appannamento. Per una prima volta rimasta unica un che di formulaico. “Death Song”, 48’42”, riportava in quota la band.

Sarà parso ozioso al lettore questo minuzioso dettagliare i minutaggi. Non lo è. La musica dei Black Angels trae giovamento dagli svolgimenti lunghi, non nel singolo brano ma nell’articolarsi di un discorso che qui risulta chiaramente distinto in tre parti: una prima di impianto garagista (zenit toccato in Empires Falling, chitarre dal ruvido all’ustionante su ritmica dal frenetico al motoristico); una seconda folk-psych (ai Love in combutta con Nancy Sinatra di Firefly e colti da empiti arabeggianti di Make It Known risponde il raga-rock quicksilveriano di The River); una terza che sintetizza alternando un macinare inesausto (Icon rimanda alla new wave guerriera dei dimenticati Theatre Of Hate) a sprazzi cinematicamente cinematografici (la morriconiana Vermillion Eyes, una Suffocation con tracce di Procol Harum). Immaginifici e magnifici.

Pubblicato per la prima volta in una versione più breve su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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Audio Review n.449

È in edicola “Audio Review” di gennaio. Contiene mie recensioni degli ultimi album di Black Lips, Broken Bells, Alela Diane, Essential Logic, Gilla Band, Micah P. Hinson, Leftfield, Orielles, Phoenix, Plains, Dawn Richard & Spencer Zahn, Rival Consoles, L.A. Salami, Skullcrusher e Indigo Sparke e di una ristampa di Neil Young. Nella rubrica del vinile ho dedicato una pagina ai Soul Asylum.

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I migliori album del 2022 (11): Dehd – Blue Skies (Fat Possum)

Amor ch’a nullo amato amar perdona induceva nel 2015 Emily Kempf e Jason Balla a porre le basi per un futuro condiviso artistico oltre che domestico. Lasciavano allora le band in cui suonavano (due a testa!) rispettivamente basso e chitarra per fondarne una loro che completavano chiedendo al comune amico Eric McGrady di sistemarsi dietro una batteria (strumento di cui per inciso era completamente a digiuno) costituita unicamente da un timpano e un rullante. Catalogabile alla voce surf-punk, l’omonimo debutto del 2016 sarebbe potuto restare il loro unico album se i due avessero deciso, quando l’anno dopo si separavano, di sciogliere contestualmente il gruppo. Optavano invece per (come si suol dire) “restare amici” e fare di dolore e rimpianto, tenerezza e rabbia il carburante emotivo nel 2019 di “Water”. Buon per loro e per noi, siccome quel disco li promuoveva da un’onesta serie B a un’ideale Major League dell’indie USA.

Lei cita come influenze James Brown, Roy Orbison e Dolly Parton, lui Cocteau Twins, Broadcast e Cate Le Bon, ma tolta quest’ultima bravo chi riesce a trovarne pur minime tracce in un album sulla falsariga del precedente (2020) “Flower Of Devotion”. A parte che l’asticella si alza ancora e il peculiare sound del trio, apparentemente sgangherato e al contrario sublime meccanismo a orologeria in cui ogni ingranaggio contribuisce al moto perpetuo dell’assieme, raggiunge la perfezione. Immaginate di fondere il minimalismo ritmico e ultra-melodico degli Young Marble Giants e la psichedelia post-punk dei Soft Boys, shakerate e otterrete un distillato della leggendaria classe dell’86 UK. Non ascolterete quest’anno una canzone più irresistibile di Bop, in tutti i suoi novanta cretinissimi e gloriosi secondi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

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I migliori album del 2022 (12): Fantastic Negrito – White Jesus Black Problems (Storefront)

Ha due livelli di lettura il quarto album di Xavier Amin Dphrepaulezz, in arte Fantastic Negrito. Uno più superficiale, che vale soprattutto per noi non di madrelingua che ai testi badiamo meno che agli spartiti e che bomba di disco è, musicalmente? Di fruizione ancora più immediata del precedente “Have You Lost Your Mind Yet?”. Epidermico – e nondimeno cresce con gli ascolti: a dismisura – persino in un brano di grande complessità quale l’iniziale Venomous Dogma: che è tre canzoni in una, serenata per archi che dopo un paio di minuti si trasforma in un vibrante spiritual salvo infine virare rock-blues. Figurarsi in Highest Bidder o Trudoo, funkissime; nel festoso doo wop Nibbadip; in quella novella On The Road Again (Canned Heat) che è Oh Betty; in una Man With No Name di afflato liturgico come la conclusiva Virginia Soil. La traccia numero nove di tredici (tre sono però interludi che fungono da raccordi nella vicenda messa in scena) sembra arrivare dal manuale della perfetta ballata da FM anni ’70, completa di (s)folgorante ritornello. Si chiama You Better Have A Gun e basta il titolo a indurre il sospetto che sotto il vestito pop la società statunitense sia messa a nudo.

E già… È un concept, “White Jesus Black Problems”, e la storia che racconta romanzandola è quella di due avi di Fantastic Negrito che nella Virginia coloniale del Settecento riuscivano a formare una famiglia nonostante lui fosse uno schiavo nero, lei una serva bianca a contratto. I figli che nascevano dall’unione appartenevano così alla prima generazione di afroamericani liberi. Un secolo prima della guerra di secessione, il che rende tanto più formidabile una parabola di orgoglio razziale che parlando dell’America di tre secoli fa si rivolge in realtà a quella di oggi. Laddove lo showbiz è disposto a rinunciare a far soldi pur di non farli con un nero che non le manda a dire.

Adattato da Fantastic Negrito: l’artista che visse due volte. Potete leggere l’intero articolo qui.

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“Il” classico di Jeff Beck (24/6/1944-10/1/2023)

Lasciati gli Yardbirds nel novembre ’66, Jeff Beck pubblica alcuni singoli da solista prima di dare vita all’inizio del 1968 al fenomenale gruppo con il quale registrerà questo LP e (con un aggiustamento minimo di formazione) il seguente “Beck-Ola”: Rod Stewart alla voce, Nicky Hopkins al piano, Ron Wood al basso e Micky Waller alla batteria. Pur premiato da un buon riscontro di pubblico (negli USA è quindicesimo ed è certificato disco d’oro) “Truth” in retrospettiva appare opera sottovalutata (nuocerà alla sua fama postuma la qualità ondivaga e i frequenti cambi di direzione della successiva produzione del chitarrista) e non premiata per i suoi meriti nemmeno da vendite comunque modeste se paragonate a quelle di Cream e Led Zeppelin. Resta uno dei migliori esempi di un hard primevo immerso nel blues e capace di maneggiare con gusto folk e psichedelia.

Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

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I migliori album del 2022 (13): Regina Spektor – Home, Before And After (Sire)

Non solo l’ottavo album di Regina Spektor è quello che si è fatto attendere più a lungo ─ sei anni: quanti impiegò a pubblicare i primi quattro ─ ma almeno tre delle sue dieci canzoni sono da una vita in repertorio: Becoming All Alone (echi di Janis Ian) dal 2014; Raindrops (una delizia di girotondo pianistico) e Loveology (ballata orchestrale fra il solenne, il solare e lo stralunato) addirittura da prima che “Begin To Hope” nel 2006 la promuovesse allo stardom  in forza di un programma di rara perfezione e di uno dei singoli più geniali e irresistibili dell’ultimo paio di decenni, o della storia del pop intera. Best seller ma soprattutto long seller, Fidelity, visto che nelle classifiche USA non saliva più in alto di un modesto numero 51 ma a un anno dall’uscita aveva venduto mezzo milione di copie, entro tre settecentomila. Quanto sarà orgoglioso Nick Hornby del fatto che Regina la scrisse mentre guardava in TV l’adattamento cinematografico di… ahem… High Fidelity? Regina di cuori, vien da dire con gioco di parole troppo facile apprendendo sbalorditi che quel vecchiaccio di Robert Christgau, uno che sulla stroncatura non argomentata ha costruito sin dal ’67 molta della sua discutibile fama, ha speso per “Home, Before And After” un rarissimo “A-” e parole al miele.

Non saranno più i tempi in cui una allora ventenne fresca di studi al conservatorio, pazza per Billie Holiday e iscritta alla scuola del cosiddetto anti-folk scriveva una canzone alla settimana, ma che ne scriva una all’anno ci basta fintanto che la qualità resterà questa: uniformemente stratosferica. Si tratti di una Up The Mountain fra Björk e Kate Bush, di una Sugarman da prestare a St. Vincent o una What Might’ve Been pronta per Broadway. Per dire.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

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I migliori album del 2022 (14): Alvvays – Blue Rev (Polyvinyl)

Più che stupirsi per il fatto che questo disco si sia fatto attendere cinque anni, mancando di cavalcare l’onda del successo di “Antisocialites”, alla cui uscita non vi era chi non pronosticasse un futuro da rockstar per gli Alvvays, c’è da essere sorpresi che i Canadesi siano alla fine riusciti a metterlo insieme un terzo album. Giacché e tanto per cominciare a Molly Rankin ─ fondatrice, cantante, chitarrista, leader della band di Toronto ─ rubavano il laptop sul quale aveva archiviato idee sparse e demo completi per il disco. Poi la strumentazione del gruppo veniva in gran parte irreparabilmente danneggiata da un allagamento del magazzino che la ospitava. Dopo di che la sezione ritmica originale dava le dimissioni e se n’era appena trovata una nuova quando il Covid prendeva il mondo in ostaggio. Che saltassero i concerti necessari a una formazione rinnovata per due quinti per testarne l’amalgama era il meno a fronte delle difficoltà semplicemente a provare insieme. A confrontarsi sulle nuove canzoni che nel frattempo Molly e l’altro chitarrista, Alec O’Hanley, avevano comunque scritto, al solito a quattro mani. “Blue Rev” ne mette in fila quattordici e non si rinuncerebbe a cuor leggero a nessuna.

Se sia il migliore dei tre album pubblicati a oggi (il primo, omonimo, nel 2014) da costoro lo stabiliranno gusti e ascolti. Per certo regge il confronto con predecessori brillanti nel loro amalgamare indie di ascendenza UK (scuola C86) e college rock, synth-pop e shoegaze. Una via l’altra piazza a un certo punto tre canzoni che potrebbero davvero far svoltare ragazza e ragazzi: il power pop Velveteen, una soffice Tile By Tile, una Pomeranian Spinster che è quasi una nuova It’s The End Of The World As We Know It.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.447, novembre 2022.

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