Archivi del mese: febbraio 2023

Nina Simone – Illuminazioni di immenso

“Poiché ho amato tanto e invano/e cantato con respiro così vacillante/il Signore nella Sua infinita misericordia/mi offre il dono della morte”: sono versi dello scrittore afroamericano del XIX secolo Paul Laurence Dunbar, colui che fu detto “il Poeta Laureato della razza negra”. Basterebbero, non fossero stati accompagnati da tanti altri egualmente mirabili e memorabili, a giustificare la sua fama postuma e, in definitiva, l’immortalità che lo accompagna. Non so dove sia stata sepolta Nina Simone, che ci ha salutati, da poco settantenne, lo scorso 21 aprile, senza che i media dessero risalto più di tanto alla scomparsa dell’ultima della serie di grandi voci femminili nere iniziata con Billie Holiday e proseguita con Ella Fitzgerald, con Dinah Washington, infine con l’artista venuta al mondo come Eunice Kathleen Waymon. Non so se le sue spoglie mortali siano state riportate in quella patria crudele e ingrata che si era lasciata alle spalle oltre trent’anni prima, o se riposi in quella terra di Francia che viceversa tanto l’ha amata e onorata. Non so se la sua ultima dimora, sempre che ultima dimora ci sia, sia o meno segnata da una lapide: se sì, credo però che i versi di Paul Laurence Dunbar dovrebbero adornarla, specifici manco fossero stati scritti apposta per lei. Credo che nessuno abbia mai avuto più dell’oggetto di questo mio inadeguato omaggio diritto a farli suoi. Già lo fece, nel 1969, musicandoli in Compensation, uno dei dieci brani che danno vita a un’illuminazione di immenso intitolata “Nina Simone & Piano!”, capolavoro ristampato in CD qualche tempo fa in utile accoppiata al certo meno ombroso “Silk & Soul” e da tenere sempre a portata di mano, per il giorno in cui doveste decidere di salpare per la famosa isola deserta. Un classico assoluto del… jazz? Soul? Un classico assoluto di Nina Simone e tanto dovrebbe bastarvi.

Album di una grandezza che quasi non ci si crede e si stenta ad abbracciare al primo ascolto come al ventesimo. Album che mette a nudo un’anima con tale impudicizia che ci si sente a tratti guardoni spregevoli a scrutare nei suoi abissi. Album che ti prende il cuore in mano e stringe, stringe, stringe. Seems I’m Never Tired Lovin’ You, dichiara la prima canzone, delicata e impossibilmente densa di sentimento, dedica al marito e manager Andrew Stroud che, da lì a pochi mesi, pianterà in asso la consorte spezzandole il cuore e in contemporanea ripulendole il conto in banca dalla non disprezzabile somma (un quarto di milione di dollari) accumulata in diritti d’autore e altro in poco più di un decennio, e possa per questo bruciare nei secoli dei secoli ─ il bastardo ─ nelle fiamme dell’inferno. Situazione cui retrospettivamente assai meglio si sposa un dittico finale mozzafiato: prima una I Get Along Without You Very Well (Except Sometimes) che cancella quella di Chet Baker e scusate se è poco; poi una The Desperate Ones teatrale e corrusca. Altre cose immani in mezzo… Innanzitutto la versione definitiva, fra jazz e gospel, di Nobody’s Fault But Mine, liberamente derivata da Blind Willie Johnson e guai a voi, guai vi dico, se non cogliete la prima occasione per andare a vedere l’ultima fatica di Wim Wenders, L’anima di un uomo, toccante omaggio al blues con al centro Blind Willie Johnson stesso, Skip James, J.B. Lenoir. E poi: una I Think It’s Gonna Rain Today che fa Randy Newman gospel; una Everyone’s Gone To The Moon (dal pregiato catalogo di Jonathan King) che il primo Tom Waits deve avere imparato a memoria; una Who Am I? che sciacqua Leonard Bernstein in acque soul; la suadente Human Touch. Interpretazioni che puntano dritto alla giugulare e all’ineffabile e tuttavia non sono niente, niente di niente raffrontate alla canzone che è la settima in lista ma ho tenuto per ultima. Si chiama Another Spring. Un’anziana signora su una sedia a dondolo parla fra sé e sé, amaramente, lamentando una vita fallimentare e segnata dall’abbandono, del marito (premonizione singolare) come dei figli. Nel fluire della melodia, dissonanti, piccole deflagrazioni accompagnano e sottolineano scatti di ira e smarrimento. Ma a un certo punto l’atmosfera cambia, un battito di mani introduce enfasi gospel ed è come se una brezza tardo-marzolina spazzasse via ogni recriminazione. È tornata la primavera. La vita rifiorisce. Nonostante tutto.

Prosegue per altre 6.744 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.62/63, luglio/agosto 2003. Ricorre oggi il novantesimo anniversario della nascita dell’artista.

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Audio Review n.450

È in edicola “Audio Review” di febbraio. Ho recensito gli ultimi album di Amber Arcades, Anna Of The North, Daniel Avery, Belle & Sebastian, Brendan Benson, Nicolas Bougaïeff, Circa Waves, Golden Dregs, Kevn Kinney, H.C. McEntire, Jeb Loy Nichols, Velvet Negroni, Warhaus e Jorma Whittaker e una ristampa degli Young Gods. Nella rubrica del vinile ho scritto degli Area.

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Born Under A Bad Sign – La vita e l’arte di Little Walter

Innovativo quanto Charlie Parker o Jimi Hendrix ma infinitamente più influente per il suo strumento e il settore musicale di appartenenza. A oltre quarant’anni dacché ci lasciò (più di quelli che passò su questa terra), Little Walter è vivo e suona per noi. L’armonica.

Per quel che può valere un riconoscimento che ha il merito ─ e insieme il torto ── di avere ufficializzato l’ingresso di questa nostra musica nelle accademie, il 10 marzo 2008 Marion “Little Walter” Jacobs è stato introdotto nella “Rock And Roll Hall Of Fame”. Non era mai accaduto prima per un armonicista e chissà se mai più accadrà, essendo al massimo cinque ─ James Cotton l’unico vivente e poi (li sistemo in ordine di scomparsa) Sonny Boy Williamson II, Slim Harpo, Sonny Terry e Junior Wells ─ quelli che potrebbero nutrire qualche legittima ambizione in tal senso. Ma è un po’ come cercare di mettere sullo stesso piano Bird e un qualsiasi altro grande sassofonista jazz, Jimi e un qualsiasi altro grande chitarrista rock, parlando di tecnica e valenza compositiva e dimenticandosi che nessuno aveva mai suonato così prima di loro e tutto il resto del mondo ha poi cercato in qualche misura di emularli. Per l’armonica blues c’è un “prima” e un “dopo” Little Walter e da un abbondante mezzo secolo nessuno e nulla che con Little Walter non debba fare i conti. In questo senso è vivo e a ragione di ciò fa ancora più male pensare a come si congedò, consumato dall’alcool, dalla disillusione, dal rancore. Il certificato di morte data 15 febbraio 1968 e attribuisce il decesso a una trombosi coronarica. Ci fu un’inchiesta della polizia, giacché la sera prima di una morte sopraggiunta nel sonno il nostro uomo era stato coinvolto in un violento alterco nell’intervallo di un suo spettacolo, ma in assenza di ogni chiara evidenza al riguardo non si poté che attribuirla ufficialmente a “cause naturali o comunque sconosciute”. Non puoi imputare un’inondazione all’ultima goccia caduta, per quanto sia stata quella a fare vani gli argini. Una rissa risultava fatale, ma prima ce n’erano state decine e ciascuna aveva avuto delle conseguenze, fisiche e mentali. Little Walter se ne andava qualche mese prima di compiere trentotto anni ma dentro era già morto da un pezzo. Lo testimoniano quelle ultime foto tremende, gli occhi acquosi e tristi, accusatori, la faccia di un vecchio disseminata, oltre che di rughe, di cicatrici. Lo testimoniano le ultime incisioni, del ’67 e raccolte in un album che sulla carta avrebbe dovuto essere da sogno, Bo Diddley e Muddy Waters a dare una mano in studio, e nei fatti si trasformò in un incubo. La Chess lo pubblicò lo stesso ed ebbe pure l’ardire di chiamarlo “Super Blues”. AMG lo liquida in una riga con parole feroci ─ “lethargic and at times comical” ─ e c’è poco da ridire. Little Walter se ne andava disperato e io se fossi Dio quel 10 marzo 2008 lo avrei resuscitato giusto per qualche ora, per quindi donargli davvero la pace.

Prosegue per altre 6.709 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.659, giugno 2009.

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Sweet De La Soul Music (r.i.p. Trugoy The Dove, 21/9/1968-12/2/2023)

Totalizzano cinquantasette anni in tre Posdnous, Trugoy The Dove e P.A. Pasemaster Mase quando, con il fondamentale apporto dello stetsasonico Prince Paul, mettono mano a “3 Feet High And Rising”. Vengono da Amityville, cittadina nei pressi di New York resa famosa dieci anni prima da una pellicola culto per ogni amante del cinema horror, ma nel loro esordio (su Tommy Boy, 1989) non disegnano gli scenari gotici che nell’hip hop faranno irruzione solo con il Wu-Tang Clan. Tutt’altro. La copertina tempestata di fiori abbozzati con tratto à la Haring e il vecchio simbolo hippie del “fate l’amore, non la guerra” iscritto nella “o” di “Soul” annunciano che, mentre a Los Angeles gli N.W.A si apprestano a fare conoscere al mondo come vanno le cose a Compton e da New York la CNN del Nemico Pubblico trasmette comunicati guerreschi, altra musica nera è pronta, vent’anni dopo la funkadelia, a mandare giù e a far salire su zuccherini all’acido. Senza flirt con il rock però.

Eppure è proprio il pubblico bianco che si entusiasma di più, facendosi per la prima volta conquistare da una posse senza che questa ricorra ai riff dell’hard (i Run-DMC) o a posture clashiane (i Public Enemy). Piacciono il passo flemmatico, l’ironia, i campionamenti assurdi (la lezione di francese di Transmitting Live From Mars), le melodie insidiose anche quando oblique ma a volte talmente semplici (The Magic Number) da rasentare la filastrocca da asilo. Dopo il quasi fallimentare (artisticamente, non commercialmente) “De La Soul Is Dead” i Nostri faranno ancora belle cose, rimanendo però confinati in un ambito di genere che agli esordi avevano saputo trascendere. Il paradossale problema sarà esattamente l’abbraccio del pubblico del rock. Di lì la diffidenza dei neri. Di lì il tentativo di emanciparsi dall’immagine floreale e conquistarsi una credibilità stradaiola. Di lì l’accentuazione degli spigoli, l’inturgidirsi dei suoni, il venire meno dell’onirica magia di un debutto che il trascorrere del tempo non ha offeso.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.26, estate 2007.

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Punk (una discografia minima)

Ci sono anni che non durano esattamente un anno, soprattutto se è di rock che si parla. Nello specifico, quando parliamo del primo punk si fa riferimento sempre al 1977, ma è un 1977 che cominciava in realtà nel ’76 (c’è chi dice addirittura nel ’74) e avrebbe avuto estese propaggini nel ’78. Lo racconto, per tramite di dieci album classici, qui.

https://hvsr.net/post/2023/punk-for-dummies

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Il mio disco preferito dei Fall

Esisterà un felice possessore dell’intero catalogo dei Fall? Trentuno album in studio, altrettanti (!) dal vivo, più cinque registrati parte in studio e parte in concerto, più una quarantina (!!!) di raccolte alcune delle quali tornano comode per recuperare molti dei brani usciti su una miriade di EP e di singoli, ma non tutti. Probabilmente nemmeno Mark E. Smith possedeva l’integrale di Mark E. Smith, anche per via di un rapporto altamente conflittuale (nel contesto di un rapporto altamente conflittuale con il mondo) con l’industria discografica. Per la più parte non approvati dal leader del combo mancuniano i troppi live, idem le antologie. È tutto un po’ “troppo” nell’universo di un gruppo che il cultore numero uno, John Peel, descriveva come “sempre diverso, ma sempre uguale”. Erano i suoi preferiti, tanto che proprio nell’ultima intervista, facendo un bilancio della sua vita inconsapevole di essere in vista del traguardo diceva: “Cascassi morto domani mattina, non potrei lamentarmi di nulla. A parte che mi perderei il nuovo album dei Fall”. Se n’è persi otto.

Io un po’ di più, nel senso che ne ho una dozzina, più la raccolta monstre dei 45 giri per la Rough Trade, e arriverò prossimamente a sfiorare la quindicina con un paio di classici “minori” che, sull’onda dell’emozione per la dipartita del nostro uomo, mi sono affrettato a fermare presso il mio spacciatore di fiducia di vinile usato. I classici “maggiori” (“Live At The Witch Trials”, “Grotesque”, “Code: Selfish”…) li ho già. E poi c’è “Bend Sinister”. Il terzo, massimo il quarto a entrarmi in casa, certamente il primo a venire acquistato in diretta (usciva il 29 settembre 1986), senza nemmeno attendere le recensioni come si usava allora. Per due ragioni. Seconda: contiene una strepitosa cover di uno degli inni del garage USA dei ’60, Mr. Pharmacist degli Other Half. Se possibile più contundente dell’originale. Prima: la foto di Brix al tempo Smith (nata Laura Elisse Salenger) sul retro di copertina. Solo in seguito la visione del videoclip proprio del pezzo in questione me la farà scoprire una normale splendida donna. Sul retro di copertina di “Bend Sinister” è la più incantevole che sia mai esistita. Per me. Era allora nel perfetto mezzo di un matrimonio durato sei anni con Mark E., la bella e la bestia tanto per ossequiare uno stereotipo. Con il senno del poi fu comunque quella un’età aurea per i Fall, cinque dei loro dischi migliori uno dopo l’altro e giusto il congedo dalla band e dal matrimonio di Brix, “I Am Kurious Oranj”, sottotono, un mezzo passo falso. Così, semiunanime, una giurisprudenza che per quanto ho ascoltato, e cioè solamente in questo periodo quasi tutto, mi trova d’accordo a parte che no, non ci sto a considerare “Bend Sinister” l’altro anello debole della catena. Nonostante il produttore John Leckie – che da lì a tre anni firmerà con l’omonimo debutto degli Stones Roses uno dei capolavori di sempre del pop UK – ricordi con orrore il momento in cui Mark E. si presentava in sala con una cassettina che aveva fatto girare all’infinito su un walkman e la richiesta di masterizzare alcune canzoni partendo da lì, pretesa che si vedeva respingere a brutto muso e per una volta trovava uno più testardo di lui. Sarà magari anche a ragione di ciò che in seguito liquiderà l’album sdegnandone la patina psichedelica applicatavi da Leckie. Salvo conservare per trent’anni Mr. Pharmacist fra i pochi brani pressoché immancabili nelle scalette dei concerti.

Ho appena scoperto, mettendo mano a questo pezzo, che il mio “Bend Sinister” in vinile è orbo dei 4’35” di un’undicesima traccia, Living Too Late, e dei 4’51” di una dodicesima, Auto-Tech Pilot, presenti come bonus soltanto nell’edizione in digitale e per inciso era questo il primo album dei Fall a venire pubblicato pure in CD (la cassetta ne offre anche una tredicesima che azzardo pletorica, registrata dal vivo). Me ne cruccio relativamente, giacché mi pare che la chiusa ideale per il disco non possa essere che la ripresa di quella Shoulder Pads che sul primo lato va dietro, sferragliantemente velvetiana, a un’ipotesi di Joy Division primordiali chiamata R.O.D. e alla danza sbilenca di Dktr. Faustus e precede la cover degli Other Half. Prima che Gross Chapel-British Grenadiers suggelli la facciata con i suoi 7’20” diversamente memorabili di ritmica marziale, chitarre acidule e tastiere rarefatte. Shoulder Pads a mio avviso è uno dei brani-simbolo dei Fall epoca Brix: qui si incontrano precisamente a metà via il gusto pop in precedenza inaudito introdotto dalla ragazza e l’enfasi declamatoria di un consorte giustamente sbigottito dalla convivenza forzata con chi “non distingue Doug Yule da Lou Reed”. Ma è l’intero secondo lato a pareggiare gli apici più apici della torrenziale produzione del gruppo, dall’industrial krautfunk di U.S. 80’s-90’s al vertiginoso rimpattino fra il sospeso e il vorticoso di Riddler!, passando per l’abbozzo di punk-beat Terry Waite Sez e una Bournemouth Runner che rolla ossianica, decolla furiosa, atterra sgangherata. E la morale di questa storia è: sempre farsi traviare da due begli occhi e fattezze d’angelo.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.238, marzo 2018.

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Il suono degli anni ’60 (ovvero: di quando l’America si innamorò dei Beatles)

Si potrebbe ad esempio partire da una data che per l’Occidente segna un punto di demarcazione rilevante come quello messo dagli attentati dell’11 settembre 2001. Il 22 novembre 1963 a Dallas viene assassinato John Fitzgerald Kennedy. Non è la prima volta che mani omicide colgono la vita di un presidente americano, ma questo è il XX secolo e c’è la diretta televisiva che moltiplica esponenzialmente l’emozione. Per tutto ciò che Kennedy aveva simboleggiato ─ la presa del potere da parte di una generazione giovane e per di più rappresentata da un membro di una minoranza; la ventata di aria fresca, l’ondata di ottimismo e cambiamenti che avevano accompagnato il suo insediamento e fino a quel momento il mandato ─, la sua morte violenta infligge alla psiche della nazione ferite le cui cicatrici sono tutt’oggi visibili. C’è un “prima” e c’è un “dopo” e nel dopo l’idea del Sogno Americano appassisce. È come se gli anni ’60, che da quasi tutti i punti di vista nemmeno sono iniziati se non per il calendario, morissero in culla. E morirebbero, non fosse che… Quello stesso 22 novembre i quattro di Liverpool pubblicano il loro secondo LP, “With The Beatles”, che in Gran Bretagna va subito in classifica al numero uno rilevando il debutto “Please Please Me”, che quella posizione occupava sin dall’uscita, nel marzo precedente (insieme, i due album tennero il primo posto per cinquantuno settimane consecutive). Direte voi: d’accordo, un interessante caso, ma pur sempre un caso. Niente affatto. Negli Stati Uniti i Beatles sono lungi dal rappresentare il fenomeno di costume che già sono in patria, un po’ perché da poco alla ribalta, un po’ perché non li hanno ancora visitati, un po’ perché la loro etichetta americana (al momento la Vee Jay; da qui in poi sarà la Capitol) non ha forza distributiva adeguata e infine l’era della comunicazione globale modello MTV è lontana due decenni. Ma un paese gettato nel lutto dagli spari di Dallas si scopre confortato dalle loro solari, apparentemente innocue canzoncine e li abbraccia con entusiasmo. Quando il 7 febbraio 1964 i quattro giovincelli vi pongono piede per la prima volta…

Pensate agli anni ’60: quale il suono che vi viene in mente? Il frizzante beat e poi la raffinata psichedelia frammista a vaudeville dei Beatles stessi, il ruggente errebì bianco dei Rolling Stones, il Bob Dylan di Blowin’ In The Wind o quello di Like A Rolling Stone, il jingle-jangle dei Byrds, le ballate soul di Otis Redding, il distorto ululare della chitarra di Jimi Hendrix? O ancora Janis Joplin che canta il blues, o i ritratti di decadenza dei Velvet Underground ma in questo caso è una memoria falsa, elaborata a posteriori, ché dei Velvet in vita pochissimi si accorsero. Tutto vero, tutto giusto, tutto bello. Però è un altro, secondo me, il suono-simbolo del decennio favoloso per antonomasia e non è musica, ma un urlo, l’urlo altissimo, immortalato in tele- e cinegiornali che da allora capita di continuo di rivedere, che sortì dalle gole dei cinquemila ragazzi e soprattutto ragazzine che quel fatidico 7 febbraio (avanguardia dei settantatré milioni che due sere dopo li seguiranno all’“Ed Sullivan Show”) accolsero la discesa dei Beatles dalla scaletta del volo PA-101 della Pan-Am, atterrato all’aeroporto di New York che già si chiamava Kennedy.

Domanda ─ Vi è piaciuto questo benvenuto?

Ringo ─ Così, questa è l’America. Sembrano tutti pazzi.

Domanda ─ Vi spaventa la folla che vi viene incontro urlando?

John ─ A Dallas più che altrove.

Domanda ─ Cosa fareste se i fans superassero lo sbarramento della polizia?

George ─ Moriremmo ridendo.

Rifletto sugli anni ’60 e quello che vedo sono le bocche spalancate di quelle ragazzette, i poliziotti che le soccorrono quando svengono in intere comitive, altri che le placcano quando superano gli sbarramenti. Può sembrare stupidità. A me pare un’innocenza meravigliosa, irripetibile. In quelle immagini scorgo la fine del più lungo dopoguerra conosciuto dall’umanità e, nonostante la più parte siano in bianco e nero, un mondo che improvvisamente diventa a colori. È un grido di liberazione, è il detonatore di tutto quanto gli anni ’60 saranno in positivo. Dopo, più nulla lo stesso. È il suono di una rivoluzione. Se poi qualcuno vi dirà che in fondo quelle dei Beatles erano più o meno solo canzonette, lasciatelo parlare. Siamo in democrazia: essere imbecilli è un diritto.

Tratto da Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.10, estate 2003.

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Le canzoni di libertà e redenzione di Bob Marley

Un giorno imprecisato di inizio 1962, Kingston, Giamaica. È sempre lunga la coda dei questuanti davanti all’ufficio del signor Dodd al Coxsone’s Musik City, ma alle nove e mezza di mattina magari no ed è a motivo di ciò che quel ragazzetto basso e smilzo, ma muscoloso, e che dimostra anche meno dei diciassette anni che ha, si è presentato tanto presto. Ha delle canzoni da fare ascoltare a colui che si è imposto in breve come il discografico principe dell’isola e non vuole che nel momento fatidico sia distratto da altro. Strategia fin troppo riuscita, visto che Dodd non è nemmeno arrivato ancora. Né si sa se verrà, gli comunica un tizio dai lineamenti orientali impegnato in una fitta conversazione con un ragazzo ancora più giovane, quattordici anni appena e già un 45 giri all’attivo: tal James Chambers o Jimmy Cliff che dir si voglia. Hai delle canzoni? Fammele sentire! Chissenefrega se non hai la chitarra dietro! Un po’ irritato il giovanotto attacca. Non è nemmeno a metà del primo pezzo quando Leslie Kong se lo piglia sotto braccio e lo accompagna nel vicino studio di registrazione. Stacco.

Parigi, maggio 1977. È una delle più grandi stelle della musica mondiale, ormai, ma un piccolo rimpianto nella sua vita ce l’ha: gli sarebbe piaciuto essere una delle più grandi stelle del calcio mondiale. È una mezzala destra veloce e sgusciante, dagli ottimi fondamentali e con un talento speciale per l’ultimo passaggio, quello decisivo. Si allena come un professionista e gioca spesso. Quel giorno la sua squadra ─ formata da musicisti, tecnici al seguito, assortiti amici ─ è impegnata contro una selezione di giornalisti francesi. Uno di costoro entra talmente duro da costringerlo ad abbandonare il campo. Si toglie a fatica lo scarpino destro e osserva preoccupato l’alluce, già uscito malconcio da un altro scontro, due anni prima. Sfido che fa male. Unghia e carne si sono separate. Stacco.

Pittsburgh, Stati Uniti, 23 settembre 1980. Fischi e applausi in uno Stanley Theatre stracolmo si acquietano lentamente quando quell’uomo al centro del palco intona come bis, accompagnato solo da un rullare di percussioni oltre che dalla sua chitarra acustica, il brano designato qualche mese prima a suggellare il suo ultimo album. È una canzone diversa da tutte quelle che gli hanno regalato la fama. È uno spiritual. È un blues. “Gli antichi pirati, sì, mi hanno rapito,/mi hanno venduto alle navi dei mercanti./Dopo qualche minuto mi hanno preso/dall’abisso senza fondo/ma la mia mano è stata resa forte/dalla mano dell’Onnipotente/…/Tutto ciò che ho avuto, sono canzoni di libertà./Non mi aiutereste a cantare queste canzoni di libertà?/Perché ho avuto solo canzoni di redenzione,/canzoni di redenzione”. Non è mai sembrato così fragile. Stacco.

Il portavoce dei senza voce

Non sono i numeri che possono dare le dimensioni vere della fama di Bob Marley e tuttavia i numeri impressionano: i quindici milioni di copie venduti in ventitré anni da “Legend”così come quel pazzesco milione totalizzato dal quadruplo del 1992 “Songs Of Freedom”, cifra che ne fa il cofanetto di maggiore successo di chiunque e di sempre. L’artista più popolare di tutti i tempi? Per certo uno le cui vendite vanno misurate non in decine ma in centinaia di milioni di copie, benché negli Stati Uniti non abbia mai sfondato davvero (il piazzamento migliore un numero 8) e in Gran Bretagna non sia andato al primo posto che post mortem. Il conteggio non potrà mai essere preciso, inevitabilmente approssimato per difetto. Stiamo parlando dell’autore di Simmer Down, il 45 giri più ascoltato nel 1964 in Giamaica, ottantamila esemplari e facendo le proporzioni è come se un singolo in Italia ne totalizzasse due milioni. Stiamo parlando dell’autore di Trenchtown Rock, nel 1971 prima per cinque mesi filati nell’isola caraibica. Stiamo parlando di un autore e un gruppo sconosciuti in Europa quando nell’aprile 1973 vedeva la luce l’esordio su Island, “Catch A Fire”, ma che in patria erano i numeri uno già da nove anni. Se si possono ritenere ragionevolmente esatti i conti fatti da quel momento dall’etichetta di Chris Blackwell non bisognerebbe dimenticarsi che, in base a un accordo parte integrante del contratto Island, gli LP “inglesi” di Marley in Giamaica uscirono Tuff Gong, marchio di proprietà dell’artista stesso. Quanto vendettero? Non lo sapremo mai, come non sapremo mai a quanto erano arrivati i dischi su Beverley’s, World Disc, Studio One, Coxsone, Ska Beat, Rio, Doctor Bird, Bamboo, Trojan, Summit, Black Heart, Justice League, Maroon, Upsetter, Punch, Unity, Shelter, Clocktower, JAD, Wirl, CBS, Cotillion, Jackpot, Wail’n’Soul’m, Musik City, Escort, Supreme, Bullet, Green Door, G&C. Eccetera.

Ma considerate soprattutto questo: che c’è da presumere che per ogni copia legale del solo “Legend” venduta in Occidente o in Giappone, nel mondo abbiente insomma, dieci taroccate siano finite sui banchi dei mercati di Addis Abeba o Kinshasa, di Bombay come di Caracas, ad Algeri, in Costa d’Avorio o nelle Filippine. Quanto sarebbe piaciuto a Marley tutto ciò! A lui che a un dato punto si fece attentissimo ai bilanci, ma solo perché si era stufato di farsi fregare e aveva tante bocche da sfamare. A lui che dopo ogni concerto nel suo paese era solito caricare un furgone di frutta e andare a distribuirla ai poveri. A lui che non diede mai importanza ai beni materiali e più un disco vendeva e più era felice, ma non perché era diventato più ricco, no: perché il messaggio era arrivato a un altro po’ di gente. E il messaggio è arrivato eccome. Più celebre e celebrato di quanto non sia stato in vita, a ventisei anni dalla prematura dipartita Marley è attuale ed emoziona come non mai, la sua faccia ─ icona di straordinaria forza, un Malcolm X con i dreadlocks, un Che Guevara del pentagramma ─ e la sua musica riconosciute ovunque e soprattutto laddove di canzoni di redenzione c’è un disperato bisogno. Perché tutto il resto manca. Fu il primo portavoce dei senza voce e continua a esserlo. Non è questione di qualità delle canzoni, che pure è stratosferica ma da sola non spiega perché costui sia noto e amato anche dove i Beatles o Madonna non lo sono. Non è questione di carisma, che era talmente smisurato da riuscire a farsi catturare dai solchi dei dischi ma dopo qualche decennio non può che sfumare nel Mito. E non è nemmeno questione di credibilità, siccome stiamo parlando di un uomo che era, per dire, fermamente convinto della divinità di Hailé Selassié e che l’Etiopia fosse la Terra Promessa dove gli eredi della diaspora nera sarebbero stati di nuovo a casa. No. È un altro il segreto del perdurare di Marley, del suo ritrovarsi cristallizzato in una bolla atemporale in cui risuonano parole che sanno di verità e parlano di pace ed eguaglianza, valide ora come quando furono pronunciate. È che, come nessuno, Marley smentisce quell’adagio springsteeniano che ammonisce a fidarsi della canzone e mai del cantante. Con Marley questa distinzione non c’è. Con Marley il cantante e la canzone diventano la stessa cosa. L’immedesimazione è totale, la sincerità assoluta. A Bob Marley puoi credere. Ti tocca il cuore perché era un puro di cuore e no, non ne sto facendo un santino.

Prosegue per altre 59.665 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.25, primavera 2007. Bob Marley nasceva settantotto anni fa.

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Archers Of Loaf – Reason In Decline (Merge)

Una volta “reunion” era una parolaccia, l’ultimo rifugio di musicisti che, avendo assaggiato lo stardom con un gruppo e fallito nel mantenerlo con altri sodali o da solisti, vellicavano la nostalgia di chi era stato giovane quando erano giovani loro. Erano considerate una roba patetica. Ancora suonate rock a… quarant’anni?!? Oggi che anche ai concerti di band di ventenni molti degli astanti hanno il doppio o il triplo degli anni di chi è sul palco nulla è più comune del tentare un secondo o terzo giro per gruppi che al primo magari ebbero successo e fecero la Storia, magari non raccolsero quanto avrebbero meritato e sono poi stati rivalutati, magari avrebbero potuto risparmiarci già il primo. Tuttavia: spesso con esiti sorprendentemente buoni e si potrebbero fare enne esempi.

Al chilometrico elenco si aggiungono gli Archers Of Loaf, da quella Chapel Hill, North Carolina, che nei primi Novanta sistemò sulla mappa del più pregiato indie USA loro e altre due band strepitose quali i Superchunk (mai sciolti) e i Polvo (di nuovo insieme dal 2008). Erano come una versione più rumorosa ma melodicamente al pari insidiosa dei Pavement, gli Archers Of Loaf. Pubblicarono fra il ’93 e il ’98 quattro splendidi album su Alias (a un certo punto li aveva messi nel mirino la Maverick di Madonna, ma non cedettero alle sue lusinghe) e poi ciao. Dopo una manciata di concerti nel 2012 tornano con un lavoro in studio e sono come li si ricordava, eppure sottilmente diversi. Più lirici, più… centrati. Più ascolti pezzi come Saturation And Light (una delle loro cose più pop di sempre), Breaking Even (degli Hüsker Dü in fregola Byrds) o la pianistica War Is Wide Open e meno il pensiero che sia questo il loro disco migliore ti pare blasfemo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.448, dicembre 2022.

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A Brief History Of Gang Of Four

I Gang Of Four sono stati il primo gruppo rock con il quale sono riuscito sul serio a rapportarmi, il primo che mi fece andare via di testa e sentire parte di un qualcosa di unico e figo. Il primo che ad ascoltarlo mi veniva voglia di ballare e scopare. Rammento ancora l’effetto che mi fece ‘Entertainment!’, con i suoi ritmi affilati come un rasoio e quella copertina che dava in culo all’uomo bianco. Guardarla ed esplodere in una danza spastica fu un tutt’uno. Mi spazzò via. Rovesciò completamente la prospettiva da cui osservavo il rock e mi indusse a prendere in mano un basso elettrico.

“‘Entertainment!’ fece a pezzi qualunque cosa fosse uscita prima. I Gang Of Four avevano il senso dello swing. Ho rubato un sacco da loro.”

Parole di Flea dei Red Hot Chili Peppers le prime, di Michael Stipe dei R.E.M. le seconde, spese quando nel 1995 una ristampa espansa del primo, epocale album riaccese i riflettori sul quartetto di Leeds. Flea osservava anche che l’influenza esercitata da Andy Gill su The Edge degli U2 e dal gruppo tutto su complessi a loro volta seminali come Fugazi e Jane’s Addiction era alle sue orecchie evidentissima. E come non essere d’accordo? Mentre Tad Doyle, fra i vessilliferi del grunge alla testa della quasi omonima formazione, dal canto suo raccontava di avere avuto la vita cambiata, e con lui Kurt Cobain, da un concerto della Banda dei Quattro a Seattle. Esperienza analoga a quella di cui riferisce la penna più celebre e aguzza del giornalismo rock americano dacché Lester ci ha lasciati, vale a dire il decano Greil Marcus, che vide i ragazzi in azione a San Francisco nel 1979. Spalla dei Buzzcocks. A tal punto esaltanti che lasciò la sala senza assistere all’esibizione dei Mancuniani, affinché la magia dell’attimo non avesse a sciuparsi. Reazioni: Doyle dava vita a una cover band, Red Set, dedita al rifacimento integrale di “Entertainment!”; Marcus scriveva sui Gang Of Four pagine fra le più memorabili della sua opera tutta (nulla più definitivo al riguardo che In The Fascist Bathroom). A nove anni dall’ondata di omaggi che salutò la ripubblicazione di un album uscito in origine nel settembre 1979, c’è di nuovo un pretesto per discettare dei leedsiani: torna nei negozi, identica però a com’era e non si capisce bene quale il senso dell’operazione, “A Brief History Of The Twentieth Century”, buon compendio per il neofita con i suoi venti brani per settantasette minuti. Non-evento che viene comunque buono per contare al giovin lettore il perché e il percome i Gang Of Four furono e sono così importanti e aggiornare l’elenco degli epigoni: Liars, Interpol, Yeah Yeah Yeahs. In misura minore gli Strokes. Per certo riffarama che deve decisamente di più ad Anthrax che al Sabba Nero, i Queens Of The Stone Age. Eccetera.

Prosegue per altre 6.491 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.566, 17 febbraio 2004. Ricorre oggi il terzo anniversario della scomparsa, sessantaquattrenne, del chitarrista Andy Gill.

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