
Una volta “reunion” era una parolaccia, l’ultimo rifugio di musicisti che, avendo assaggiato lo stardom con un gruppo e fallito nel mantenerlo con altri sodali o da solisti, vellicavano la nostalgia di chi era stato giovane quando erano giovani loro. Erano considerate una roba patetica. Ancora suonate rock a… quarant’anni?!? Oggi che anche ai concerti di band di ventenni molti degli astanti hanno il doppio o il triplo degli anni di chi è sul palco nulla è più comune del tentare un secondo o terzo giro per gruppi che al primo magari ebbero successo e fecero la Storia, magari non raccolsero quanto avrebbero meritato e sono poi stati rivalutati, magari avrebbero potuto risparmiarci già il primo. Tuttavia: spesso con esiti sorprendentemente buoni e si potrebbero fare enne esempi.
Al chilometrico elenco si aggiungono gli Archers Of Loaf, da quella Chapel Hill, North Carolina, che nei primi Novanta sistemò sulla mappa del più pregiato indie USA loro e altre due band strepitose quali i Superchunk (mai sciolti) e i Polvo (di nuovo insieme dal 2008). Erano come una versione più rumorosa ma melodicamente al pari insidiosa dei Pavement, gli Archers Of Loaf. Pubblicarono fra il ’93 e il ’98 quattro splendidi album su Alias (a un certo punto li aveva messi nel mirino la Maverick di Madonna, ma non cedettero alle sue lusinghe) e poi ciao. Dopo una manciata di concerti nel 2012 tornano con un lavoro in studio e sono come li si ricordava, eppure sottilmente diversi. Più lirici, più… centrati. Più ascolti pezzi come Saturation And Light (una delle loro cose più pop di sempre), Breaking Even (degli Hüsker Dü in fregola Byrds) o la pianistica War Is Wide Open e meno il pensiero che sia questo il loro disco migliore ti pare blasfemo.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.448, dicembre 2022.