Il suono degli anni ’60 (ovvero: di quando l’America si innamorò dei Beatles)

Si potrebbe ad esempio partire da una data che per l’Occidente segna un punto di demarcazione rilevante come quello messo dagli attentati dell’11 settembre 2001. Il 22 novembre 1963 a Dallas viene assassinato John Fitzgerald Kennedy. Non è la prima volta che mani omicide colgono la vita di un presidente americano, ma questo è il XX secolo e c’è la diretta televisiva che moltiplica esponenzialmente l’emozione. Per tutto ciò che Kennedy aveva simboleggiato ─ la presa del potere da parte di una generazione giovane e per di più rappresentata da un membro di una minoranza; la ventata di aria fresca, l’ondata di ottimismo e cambiamenti che avevano accompagnato il suo insediamento e fino a quel momento il mandato ─, la sua morte violenta infligge alla psiche della nazione ferite le cui cicatrici sono tutt’oggi visibili. C’è un “prima” e c’è un “dopo” e nel dopo l’idea del Sogno Americano appassisce. È come se gli anni ’60, che da quasi tutti i punti di vista nemmeno sono iniziati se non per il calendario, morissero in culla. E morirebbero, non fosse che… Quello stesso 22 novembre i quattro di Liverpool pubblicano il loro secondo LP, “With The Beatles”, che in Gran Bretagna va subito in classifica al numero uno rilevando il debutto “Please Please Me”, che quella posizione occupava sin dall’uscita, nel marzo precedente (insieme, i due album tennero il primo posto per cinquantuno settimane consecutive). Direte voi: d’accordo, un interessante caso, ma pur sempre un caso. Niente affatto. Negli Stati Uniti i Beatles sono lungi dal rappresentare il fenomeno di costume che già sono in patria, un po’ perché da poco alla ribalta, un po’ perché non li hanno ancora visitati, un po’ perché la loro etichetta americana (al momento la Vee Jay; da qui in poi sarà la Capitol) non ha forza distributiva adeguata e infine l’era della comunicazione globale modello MTV è lontana due decenni. Ma un paese gettato nel lutto dagli spari di Dallas si scopre confortato dalle loro solari, apparentemente innocue canzoncine e li abbraccia con entusiasmo. Quando il 7 febbraio 1964 i quattro giovincelli vi pongono piede per la prima volta…

Pensate agli anni ’60: quale il suono che vi viene in mente? Il frizzante beat e poi la raffinata psichedelia frammista a vaudeville dei Beatles stessi, il ruggente errebì bianco dei Rolling Stones, il Bob Dylan di Blowin’ In The Wind o quello di Like A Rolling Stone, il jingle-jangle dei Byrds, le ballate soul di Otis Redding, il distorto ululare della chitarra di Jimi Hendrix? O ancora Janis Joplin che canta il blues, o i ritratti di decadenza dei Velvet Underground ma in questo caso è una memoria falsa, elaborata a posteriori, ché dei Velvet in vita pochissimi si accorsero. Tutto vero, tutto giusto, tutto bello. Però è un altro, secondo me, il suono-simbolo del decennio favoloso per antonomasia e non è musica, ma un urlo, l’urlo altissimo, immortalato in tele- e cinegiornali che da allora capita di continuo di rivedere, che sortì dalle gole dei cinquemila ragazzi e soprattutto ragazzine che quel fatidico 7 febbraio (avanguardia dei settantatré milioni che due sere dopo li seguiranno all’“Ed Sullivan Show”) accolsero la discesa dei Beatles dalla scaletta del volo PA-101 della Pan-Am, atterrato all’aeroporto di New York che già si chiamava Kennedy.

Domanda ─ Vi è piaciuto questo benvenuto?

Ringo ─ Così, questa è l’America. Sembrano tutti pazzi.

Domanda ─ Vi spaventa la folla che vi viene incontro urlando?

John ─ A Dallas più che altrove.

Domanda ─ Cosa fareste se i fans superassero lo sbarramento della polizia?

George ─ Moriremmo ridendo.

Rifletto sugli anni ’60 e quello che vedo sono le bocche spalancate di quelle ragazzette, i poliziotti che le soccorrono quando svengono in intere comitive, altri che le placcano quando superano gli sbarramenti. Può sembrare stupidità. A me pare un’innocenza meravigliosa, irripetibile. In quelle immagini scorgo la fine del più lungo dopoguerra conosciuto dall’umanità e, nonostante la più parte siano in bianco e nero, un mondo che improvvisamente diventa a colori. È un grido di liberazione, è il detonatore di tutto quanto gli anni ’60 saranno in positivo. Dopo, più nulla lo stesso. È il suono di una rivoluzione. Se poi qualcuno vi dirà che in fondo quelle dei Beatles erano più o meno solo canzonette, lasciatelo parlare. Siamo in democrazia: essere imbecilli è un diritto.

Tratto da Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.10, estate 2003.

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