
“Poiché ho amato tanto e invano/e cantato con respiro così vacillante/il Signore nella Sua infinita misericordia/mi offre il dono della morte”: sono versi dello scrittore afroamericano del XIX secolo Paul Laurence Dunbar, colui che fu detto “il Poeta Laureato della razza negra”. Basterebbero, non fossero stati accompagnati da tanti altri egualmente mirabili e memorabili, a giustificare la sua fama postuma e, in definitiva, l’immortalità che lo accompagna. Non so dove sia stata sepolta Nina Simone, che ci ha salutati, da poco settantenne, lo scorso 21 aprile, senza che i media dessero risalto più di tanto alla scomparsa dell’ultima della serie di grandi voci femminili nere iniziata con Billie Holiday e proseguita con Ella Fitzgerald, con Dinah Washington, infine con l’artista venuta al mondo come Eunice Kathleen Waymon. Non so se le sue spoglie mortali siano state riportate in quella patria crudele e ingrata che si era lasciata alle spalle oltre trent’anni prima, o se riposi in quella terra di Francia che viceversa tanto l’ha amata e onorata. Non so se la sua ultima dimora, sempre che ultima dimora ci sia, sia o meno segnata da una lapide: se sì, credo però che i versi di Paul Laurence Dunbar dovrebbero adornarla, specifici manco fossero stati scritti apposta per lei. Credo che nessuno abbia mai avuto più dell’oggetto di questo mio inadeguato omaggio diritto a farli suoi. Già lo fece, nel 1969, musicandoli in Compensation, uno dei dieci brani che danno vita a un’illuminazione di immenso intitolata “Nina Simone & Piano!”, capolavoro ristampato in CD qualche tempo fa in utile accoppiata al certo meno ombroso “Silk & Soul” e da tenere sempre a portata di mano, per il giorno in cui doveste decidere di salpare per la famosa isola deserta. Un classico assoluto del… jazz? Soul? Un classico assoluto di Nina Simone e tanto dovrebbe bastarvi.
Album di una grandezza che quasi non ci si crede e si stenta ad abbracciare al primo ascolto come al ventesimo. Album che mette a nudo un’anima con tale impudicizia che ci si sente a tratti guardoni spregevoli a scrutare nei suoi abissi. Album che ti prende il cuore in mano e stringe, stringe, stringe. Seems I’m Never Tired Lovin’ You, dichiara la prima canzone, delicata e impossibilmente densa di sentimento, dedica al marito e manager Andrew Stroud che, da lì a pochi mesi, pianterà in asso la consorte spezzandole il cuore e in contemporanea ripulendole il conto in banca dalla non disprezzabile somma (un quarto di milione di dollari) accumulata in diritti d’autore e altro in poco più di un decennio, e possa per questo bruciare nei secoli dei secoli ─ il bastardo ─ nelle fiamme dell’inferno. Situazione cui retrospettivamente assai meglio si sposa un dittico finale mozzafiato: prima una I Get Along Without You Very Well (Except Sometimes) che cancella quella di Chet Baker e scusate se è poco; poi una The Desperate Ones teatrale e corrusca. Altre cose immani in mezzo… Innanzitutto la versione definitiva, fra jazz e gospel, di Nobody’s Fault But Mine, liberamente derivata da Blind Willie Johnson e guai a voi, guai vi dico, se non cogliete la prima occasione per andare a vedere l’ultima fatica di Wim Wenders, L’anima di un uomo, toccante omaggio al blues con al centro Blind Willie Johnson stesso, Skip James, J.B. Lenoir. E poi: una I Think It’s Gonna Rain Today che fa Randy Newman gospel; una Everyone’s Gone To The Moon (dal pregiato catalogo di Jonathan King) che il primo Tom Waits deve avere imparato a memoria; una Who Am I? che sciacqua Leonard Bernstein in acque soul; la suadente Human Touch. Interpretazioni che puntano dritto alla giugulare e all’ineffabile e tuttavia non sono niente, niente di niente raffrontate alla canzone che è la settima in lista ma ho tenuto per ultima. Si chiama Another Spring. Un’anziana signora su una sedia a dondolo parla fra sé e sé, amaramente, lamentando una vita fallimentare e segnata dall’abbandono, del marito (premonizione singolare) come dei figli. Nel fluire della melodia, dissonanti, piccole deflagrazioni accompagnano e sottolineano scatti di ira e smarrimento. Ma a un certo punto l’atmosfera cambia, un battito di mani introduce enfasi gospel ed è come se una brezza tardo-marzolina spazzasse via ogni recriminazione. È tornata la primavera. La vita rifiorisce. Nonostante tutto.
Prosegue per altre 6.744 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.62/63, luglio/agosto 2003. Ricorre oggi il novantesimo anniversario della nascita dell’artista.