La storia di una musica che egualmente respingeva e seduceva, vaporosa, granitica e magmatica, il cuore di panna di melodie ineffabilmente insidiose che batteva con metronomia post-kraut e proto-baggy sotto strati di chitarre che sventagliavano feedback piuttosto che riff. Raccontata attraverso dieci album. Qui.
È in edicola da alcuni giorni “Audio Review” di marzo. Contiene mie recensioni dei più recenti album di 404 Guild, Arcs, C.I.A., Laura Cox, Death And Vanilla, Robert Forster, Fucked Up, Gemma Ray, Italia 90, Shame, Andy Shauf, The Waeve, We Are Scientists e James Yorkston & Nina Persson e di una ristampa dei New Order. Nella rubrica del vinile la pagina intera è dedicata a Joni Mitchell.
Come in tanti altri grandi del blues, in Lightnin’ Hopkins – nato Sam Hopkins il 15 marzo 1912, morto il 30 gennaio ’82 – convivevano l’istintiva furbizia di chi, cresciuto in miseria, ha fatto un’arte del sapersi arrangiare e un’ingenuità disarmante. Pensate che per tutta la vita fu solito cedere per contanti le canzoni che scriveva, riuscendo così a campare sempre in maniera dignitosa ma perdendo una fortuna in diritti d’autore (i tanti brani, ad esempio, che sui suoi dischi sono firmati Bill Quinn sono in realtà autografi). Da cui, e non solo frutto di una straripante urgenza creativa, la consistenza abnorme della sua discografia: decine di LP e centinaia fra 45 e 78 giri usciti per un numero non meno esorbitante di etichette.
Il modo migliore e più economico per accostarsi all’opera di questo gigante delle dodici battute è mettersi in casa “Mojo Hand”, doppio CD Rhino in box corredato da un corposo libretto. È probabilmente la migliore raccolta possibile del Nostro in sole quaranta canzoni e l’unica che copra la sua vicenda artistica per intero e, grosso modo, in ordine cronologico, dalle prime registrazioni per la Alladin del novembre ’46 all’album per la Sonet del 1974. Arrivato a incidere già trentaquattrenne e con uno stile perfettamente formato nel quale si era consumata la transizione dal blues rurale insegnatogli da Blind Lemon Jefferson a una forma più urbana, nella sua trentennale carriera Hopkins non si discostò mai più di tanto (un peccato, ché gli accenti jazz di brani come I’ll Be Gone e Shaggy Dad fanno intravvedere esaltanti possibilità che rimasero inesplorate) dal nucleo primigenio della sua musica. Play With Your Poodle, incisa nel 1947 in trio con il pianista Thunder Smith e un batterista sconosciuto, esemplifica codesto stile come nessun altro dei più di mille titoli registrati: blues elettrico caratterizzato dal timbro acre della chitarra e da peculiari accenti boogie che lo fanno rock’n’roll molti anni prima che il termine entrasse in uso.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.21, primavera 2006.
Delaney Bramlett e Bonnie Lynn O’Farrell, bianchi neri dentro, si conoscono a fine 1967 a Los Angeles. Lui, ventottenne, è passato dai Champs prima di approdare agli Shindogs. Lei, ventitreenne, è stata la prima Ikette non di colore. Tempo una settimana e hanno messo su famiglia e una band coi fiocchi che comprende Bobby Whitlock alle tastiere e l’eccezionale sezione ritmica formata da Carl Radle al basso e Jim Gordon alla batteria. Li mette sotto contratto la Stax. Inciso con la crema dei turnisti di Memphis, “Home” esce nel maggio 1969 ed è sapidissimo pasticcio di soul e rock, blues e gospel, errebì e funky cucinato alla maniera sudista. Sfortunatamente vende quasi nulla. Tutto finito? Macché. Li ingaggia la Elektra e nel giro di due mesi l’al pari esuberante “The Original” è nei negozi. George Harrison ascolta un test pressing, si entusiasma e li arruola nei ranghi della Apple. Peccato che l’accordo venga invalidato dal fatto che Delaney & Bonnie sono ancora a libro paga dell’etichetta di Jac Holzman, contratto sciolto quando Delaney minaccia di morte Holzman. Dall’avere due case discografiche la coppia passa ad averne nessuna. Tutto finito? Macché. Si fa avanti la Atlantic, firmano per la succursale ATCO ed entro fine anno si ritrovano in tour di spalla ai Blind Faith, supergruppo appena nato e già sull’orlo del dissolvimento. Ben più che con la sua band Eric Clapton si diverte a suonare con i Nostri, che schierano una formazione ampliata a dismisura da una sontuosa sezione fiati, da Rita Coolidge ai cori, da un altro mostro sacro quale Dave Mason dei Traffic alla terza (!) chitarra.
Con in scaletta (ad aprirla) un solo brano dai due lavori in studio, l’esplosivo rhythm’n’blues Things Get Better, “On Tour” viene registrato nella tappa inglese del 7 dicembre. Quando vedrà la luce nel marzo 1970 risulterà prematuro testamento più che cronaca, visto che Slowhand porterà Whitlock, Radle e Gordon nei Derek & The Dominos, Harrison se ne farà fiancheggiare in “All Things Must Pass”, Leon Russell metterà la sola ritmica al servizio del Joe Cocker di “Mad Dogs And Englishmen”. Dagli amici mi guardi Iddio! Consolazione non da poco tuttavia che, oltre a vendere parecchio al tempo, “On Tour” resti nella considerazione generale uno dei più bei live della storia del rock. E della black no? Valga come paradigma l’incrocio di chitarre hard, ritmica funk, fiati soul e voci da chiesa di Comin’ Home.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.427, gennaio 2021.
Scrivo queste righe alla fine di una settimana che ha visto John Cale protagonista di una manciata di date italiane in perfetta solitudine, seduto dinnanzi al piano o più raramente con una chitarra fra le mani. Null’altro fra lui e una ventina di splendide canzoni per la maggior parte vecchie quasi vent’anni oppure più ancora. La situazione ideale per ascoltare al meglio questo signore che da qui a pochissimo, accadrà il 9 marzo, compirà cinquantanove anni. Un’età giunti alla quale è in genere poco dignitoso roccare e rollare. Potrebbe osservare qualcuno che Lou Reed, antico compare del nostro uomo, compirà gli stessi anni sette giorni prima e tale problema non se l’è ancora posto. Osservazione giusta ma sbagliata. Benché il loro pur breve sodalizio sia stato fra i più fruttuosi e forse il più influente della storia del rock, i due non hanno granché in comune e anche a motivo di ciò le loro collaborazioni sono sempre durate poco, non soltanto perché entrambi sono prime donne. Diversa la formazione musicale, innanzitutto: se Lou si innamorava ragazzino del rock’n’roll e faceva subito i conti, da ghost writer per gruppi improbabili, con le sue strutture elementari, era un’infatuazione per Paganini a fare accostare John alla musica. Seguivano la frequentazione con il compositore Cornelius Cardew e la borsa di studio che gli consentiva di lasciare il natio Galles e andare a perfezionarsi presso il conservatorio di Tanglewood, Boston. Da lì, era la fine del 1963, si trasferiva a New York, aggregandosi immediatamente al Theatre Of Eternal Music di La Monte Young, formazione chiave per la scuola minimalista, tuttavia (per le egocentriche fisime del leader) pochissimo documentata a tutt’oggi discograficamente. Era la ripetitività di tali spartiti (intreccio di estenuanti bordoni), in fondo non dissimile da quella del rock più grezzo, a creare un terreno comune sul quale Cale e Reed, conosciutisi poco dopo l’arrivo del primo nella Grande Mela, poterono incontrarsi e dare vita alla creatura Velvet Underground.
Fisiologico che il rapporto si consumasse in fretta: al di là delle guerre di ego, il primo premeva per orientare la band verso musiche sperimentali, oltre l’epopea di frastuono e furore di Sister Ray; il secondo per raccontare il suo Grande Romanzo Americano con fulminanti paragrafi di due o tre elastici accordi.
Non dirò altro dei Velvet. Non è questa la sede e confido che anche il più inesperto fra i lettori sia edotto al riguardo quanto basta. Quello che mi preme sottolineare qui è che se Lou Reed è, come dichiara il titolo di un suo celeberrimo live, il rock’n’roll animal per antonomasia, al contrario per John Cale il rock è (stato) un qualcosa che ha imparato ma che non gli è mai appartenuto totalmente. Non una faccenda di istinto, insomma. Ecco perché, se a Lou Reed si può perdonare di suonare ancora Sweet Jane (se ne può persino essere felici), di un John Cale rockista non si avverte più da tantissimo – da quando diede alle stampe l’inquietante e meraviglioso “Music For A New Society”, AD 1982 – il bisogno. Ben superiori sono i risultati quando si esprime in una forma che ha più in comune, per dire, con Rimsky Korsakov che con Chuck Berry.
Da subito scissa fra afflato neoclassico ed elettricità la vicenda solistica del Nostro. Defenestrato dai Velvet nel ’68, si prendeva una biennale vacanza di lavoro dedicandosi alla produzione dell’ex-compagna di banda Nico e dell’epocale debutto degli Stooges (altro esempio di opposti che si attraggono), confezionando quindi nel 1970, a distanza di poche settimane l’uno dall’altro, ben due 33 giri. Usciva prima quello registrato per secondo e che dunque le discografie inevitabilmente indicano come debutto, vale a dire “Vintage Violence”.
Prosegue per altre 6.568 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.430, 20 febbraio 2001. John Cale compie oggi ottantun anni. Li ha festeggiati in anticipo pubblicando lo scorso 20 gennaio “Mercy”, suo diciassettesimo album in studio collaborazioni e colonne sonore escluse. Incredibilmente, uno dei suoi più belli di sempre.
Non c’è tre senza quattro. Già unica rivista musicale ad avere recensito tutte le precedenti antologie di miei scritti, “Rumore” ha dato spazio anche a Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Le ha dedicato parole gentili Carlo Bordone, che ringrazio.
Sono passati quarant’anni e un numero imprecisato di mesi ─ le tante biografie non riescono a mettersi d’accordo sulla data del debutto in proprio: era l’aprile del ’66 oppure il luglio? ─ dacché Lucio Battisti esordiva a 45 giri. Etichetta Ricordi, copertina ammiccante a Dylan anche se probabilmente al tempo se ne accorsero in dieci, a riascoltarlo oggi Per una lira/Dolce di giorno non pare questa gran cosa. Sono due bittarelli con un sentore di soul freschi e graziosi ma in fondo non così diversi da tante produzioni coeve, a parte che i testi osano qualcosa di più in malizia. E un po’ scandalizzarono difatti: la prima nella versione byrdsiana e più lenta dei Ribelli, cui l’aveva girata Celentano dopo che i due autori invano avevano provato a convincerlo a inciderla lui; la seconda in quella dei Dik Dik, che la sistemarono sul retro di un successone chiamato Sognando la California. Poche migliaia viceversa gli esemplari andati via (forse addirittura poche centinaia) del singolo di Lucio e dunque niente per un’epoca in cui i dischi si vendevano eccome, altro che oggi. Per darvi un’idea: quando nel 1968 l’Equipe 84 totalizzerà mezzo milione di copie di Nel cuore, nell’anima si griderà al fallimento, quasi al disastro, visto che il 45 giri prima, 29 settembre, era arrivato a superare il milione. Ehi! Due pezzi di Battisti/Mogol i suddetti, che all’altezza del glorioso “insuccesso” di Vandelli e soci ne avevano già piazzato un’altra mezza dozzina a una piccola folla di interpreti ottenendo puntualmente riscontri commerciali importanti. Se il Battisti autore sembrava già inarrestabile e una miniera d’oro per l’industria, stentava a decollare il cantante: ritirato il secondo sette pollici, centomila copie vendute del terzo (poca roba, avrete inteso), nemmeno entrato in classifica il quarto, di modesto impatto il quinto benché supportato da una partecipazione a Sanremo. La svolta era segnata nella primavera del 1969 dal sesto, Acqua azzurra, acqua chiara sul lato A, Dieci ragazze sul retro, un terzo posto e quasi cinque mesi di permanenza in graduatoria. A quel punto la rivoluzione inscenata nella musica italiana da Battisti e Mogol era in pieno essere. Durerà dieci abbondanti anni ancora. Per dieci abbondanti anni non ci sarà praticamente settimana senza almeno una canzone della coppia di Re Mida in classifica, cantata da Lucio Battisti oppure no. E a distanza di due decenni e mezzo ancora, adesso che quando vendi diecimila copie di qualcosa nel Bel Paese i discografici si sfregano le mani tutti soddisfatti e stappano bottiglie, annualmente di dischi di Battisti se ne vendono in media un trecentomila. Fa quasi mille al giorno. Ne avete minimo uno in casa pure voi. Tiratelo fuori. Suonatelo. Ecco, potete scommettere che in questo preciso istante altri stanno facendo la stessa cosa. Non ci si libererà mai da quei due, grazie a dio.
Io vivrò senza te
Naturalmente ricordo benissimo il modo in cui Lucio Battisti uscì dalla mia ─ dalla nostra ─ vita. Lo smarrimento che mi colse quando alle tredici del 9 settembre 1998, accesa la TV per guardare uno dei principali TG nazionali, mi trovai davanti uno schermo nero con giusto una scritta di saluto a campeggiare e sotto le note di Emozioni. Mi pare che la mandarono per intero, quattro minuti e quarantaquattro secondi senza una parola dello speaker, una cosa mai vista e insomma anche uscendo di scena il Lucio da Poggio Bustone riusciva a essere inaudito. Si fossero fermati lì! A quello straordinario pezzo di televisione indimenticabile di suo. Si fossero limitati a dare la notizia, che arrivava inattesa nonostante si fosse capito che, per uscire da un eremitaggio durato oltre tre lustri ed entrare in un ospedale pubblico, qualcosa di serio l’artista reatino doveva averlo. Sin dal 29 agosto gli inviati delle televisioni erano accampati davanti al San Paolo di Milano e voci incontrollabili si rincorrevano senza che nulla di ufficiale venisse detto. Poi un comunicato stampa, venticinque parole. Si fossero fermati lì! A un servizio di cinque minuti, di dieci, magari a un’edizione del telegiornale dedicata integralmente alla notizia, per poi spegnere le luci e fare calare un rispettoso silenzio su una persona che dello stare in silenzio, lasciando che a parlare fossero le canzoni, aveva fatto uno stile di vita. E invece no. Si avviava sgangherato il carrozzone delle celebrazioni pelose con aggrappati individui di ogni risma. Facevano a botte per una comparsata sotto i riflettori illustri nullità e fra esse, puntuali, quanti sul nostro uomo non avevano mai esitato a spalar maldicenze. Era tutta una gara al “io che lo conoscevo bene”, “io che senza di me”, “io… io… io…”: miserabili accattoni di polvere di stelle. Partiva il karaoke e vai con le dieci ragazze che per me potranno bastare. Un programma via l’altro e l’auditel impazzita con numeri da finale di coppa del mondo di calcio, perché poi la gente ─ quella vera ─ a Lucio voleva bene sul serio e, pur schifato, non potevi fare a meno di guardare. Fino e oltre alle esequie, avvenute il 12 in presenza di quelle venti persone che avevano diritto di stare lì, soltanto gli affetti intimi, i più cari. Fino e oltre a quel primo 29 settembre senza Battisti, con le auto della polizia di ronda intorno a un cimitero sotto assedio, mentre altre volanti facevano il possibile per impedire che nella villa al Dosso da lungi loro ritiro privilegiato il riservatissimo lutto della donna che gli era stata accanto per quasi tre decenni venisse disturbato.
Non ricordo invece come fu che ci entrò Lucio Battisti, nella mia vita. In verità mi sembra ci sia sempre stato e che fosse dappertutto, con quelle canzoni così orecchiabili che le poteva cantare un bambino e difatti le cantavo a squarciagola con gli altri e mi pareva di capirle, più o meno. Perché oltre il cancello della colonia estiva l’uomo che passava con il carretto e gridava “Gelati!” c’era e, allo stesso modo, all’uscita di scuola i ragazzi vendevano i libri e io restavo a guardarli cercando il coraggio per imitarli. Però mi piace pensare che anche all’altezza dei miei nove, dieci, undici anni qualcosa mi lasciasse perplesso, mi facesse riflettere. Come potevano le malinconie (dolcissime poi!) correre nelle praterie? Che ci azzeccavano i tarli con la mente? E si sono mai visti appassire dei fiori stampati su un vestito? Le canzoni degli altri non ti facevano arrovellare così. Poi è arrivata l’adolescenza e Battisti era immancabile nei pomeriggi tristissimi passati facendo tappezzeria alle feste di altri e altre, chiedendomi perché mi avessero invitato e soprattutto perché ci fossi andato, che tanto non c’era niente da fare, io con quella tipa lì non sarei mai riuscito a spiccicare una parola. Una consolazione che ci fosse lui a inframmezzare una se no mortale colonna sonora rigorosamente a base di Baglioni e Bee Gees, Sorrenti e “Dark Side Of The Moon”. Mi sarebbe piaciuto di più ascoltare quegli altri di Pink Floyd, quelli di “The Piper At The Gates Of Dawn”, che però sembrava garbassero solo a me, oppure Bob Marley ma da noi se lo filavano ancora in pochi. I Clash o Lou Reed, appena scoperti, erano fuori discussione. Però, dai, Battisti non era malaccio in fondo. Anche quei pezzi lì con la cassa in quattro da discoteca e che però se paragonati ai successi dance che imperversavano avevano una fluidità tutta loro, e un’italianità, e non sapevano di plastica, e che belle le parole, sempre. Si mormora che Battisti sia fascista. Lo fosse, dovrei cambiare stazione (dura trovarne una che non lo manda mai) ogni volta che lo trasmettono alla radio e fargli propaganda contro? Ma in fondo a dirlo sono i medesimi che hanno dato del nazista a Lou Reed, dimenticandosi che è ebreo, portando a prove i capelli corti e ossigenati e i Ray-Ban, e mi sa proprio che non è vero. Se lo è me ne frego. Ecco, mi sono appena fatto una battuta da solo, posso sgattaiolare via senza salutare e in ogni caso non se ne accorgerà nessuno.
Eppure credo di essere arrivato ai trent’anni senza avere un disco di Lucio Battisti. È che mi sembrava di conoscerli già tutti a memoria ed era un’ottima scusa per non comprarli. Tanto erano solo canzonette, no? Non so come mai a un certo punto ho cominciato a mettermeli in casa uno dopo l’altro. Forse per nostalgia di un tempo, remoto come un sogno, in cui la sottilissima linea che separa l’essere un giovane promettente da un fallito di mezza età era lontana all’orizzonte. Forse perché, essendomi conquistato del rock tutto o quasi lo scibile imprescindibile, potevo cominciare, fra questa e quella esplorazione dei suoi perimetri esterni, a togliermi qualche sfizio. È stato allora con qualcosa di assai simile allo sbalordimento che ho iniziato a rendermi conto di quanto fossero complesse e geniali nella loro costruzione le canzonette di cui sopra, piene di deviazioni subitanee e intarsi, modernissime. Istantanee nel loro porgersi e tuttavia al centesimo ascolto differenti da come erano apparse al novantanovesimo. Degne di essere pronunciate nello stesso respiro affamato di ineffabile con cui esali la litania Ray Davies, Brian Wilson, Arthur Lee, Bob Dylan, Lennon/McCartney, Burt Bacharach, Phil Spector.
Prosegue per altre 60.345 battute su Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.23, autunno 2006. Fosse ancora fra noi, Lucio Battisti compirebbe oggi ottant’anni.
In edicola da un paio di giorni, il numero di “Blow Up” di marzo celebra il cinquantennale della pubblicazione del più venduto e controverso album dei Pink Floyd. Ovviamente, trattandosi di “Blow Up” lo “celebra” (potete aggiungere virgolette a piacere) a modo suo. E anch’io ho detto la mia.
“In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro.” (Alberto Arbasino)