
Scrivo queste righe alla fine di una settimana che ha visto John Cale protagonista di una manciata di date italiane in perfetta solitudine, seduto dinnanzi al piano o più raramente con una chitarra fra le mani. Null’altro fra lui e una ventina di splendide canzoni per la maggior parte vecchie quasi vent’anni oppure più ancora. La situazione ideale per ascoltare al meglio questo signore che da qui a pochissimo, accadrà il 9 marzo, compirà cinquantanove anni. Un’età giunti alla quale è in genere poco dignitoso roccare e rollare. Potrebbe osservare qualcuno che Lou Reed, antico compare del nostro uomo, compirà gli stessi anni sette giorni prima e tale problema non se l’è ancora posto. Osservazione giusta ma sbagliata. Benché il loro pur breve sodalizio sia stato fra i più fruttuosi e forse il più influente della storia del rock, i due non hanno granché in comune e anche a motivo di ciò le loro collaborazioni sono sempre durate poco, non soltanto perché entrambi sono prime donne. Diversa la formazione musicale, innanzitutto: se Lou si innamorava ragazzino del rock’n’roll e faceva subito i conti, da ghost writer per gruppi improbabili, con le sue strutture elementari, era un’infatuazione per Paganini a fare accostare John alla musica. Seguivano la frequentazione con il compositore Cornelius Cardew e la borsa di studio che gli consentiva di lasciare il natio Galles e andare a perfezionarsi presso il conservatorio di Tanglewood, Boston. Da lì, era la fine del 1963, si trasferiva a New York, aggregandosi immediatamente al Theatre Of Eternal Music di La Monte Young, formazione chiave per la scuola minimalista, tuttavia (per le egocentriche fisime del leader) pochissimo documentata a tutt’oggi discograficamente. Era la ripetitività di tali spartiti (intreccio di estenuanti bordoni), in fondo non dissimile da quella del rock più grezzo, a creare un terreno comune sul quale Cale e Reed, conosciutisi poco dopo l’arrivo del primo nella Grande Mela, poterono incontrarsi e dare vita alla creatura Velvet Underground.
Fisiologico che il rapporto si consumasse in fretta: al di là delle guerre di ego, il primo premeva per orientare la band verso musiche sperimentali, oltre l’epopea di frastuono e furore di Sister Ray; il secondo per raccontare il suo Grande Romanzo Americano con fulminanti paragrafi di due o tre elastici accordi.
Non dirò altro dei Velvet. Non è questa la sede e confido che anche il più inesperto fra i lettori sia edotto al riguardo quanto basta. Quello che mi preme sottolineare qui è che se Lou Reed è, come dichiara il titolo di un suo celeberrimo live, il rock’n’roll animal per antonomasia, al contrario per John Cale il rock è (stato) un qualcosa che ha imparato ma che non gli è mai appartenuto totalmente. Non una faccenda di istinto, insomma. Ecco perché, se a Lou Reed si può perdonare di suonare ancora Sweet Jane (se ne può persino essere felici), di un John Cale rockista non si avverte più da tantissimo – da quando diede alle stampe l’inquietante e meraviglioso “Music For A New Society”, AD 1982 – il bisogno. Ben superiori sono i risultati quando si esprime in una forma che ha più in comune, per dire, con Rimsky Korsakov che con Chuck Berry.
Da subito scissa fra afflato neoclassico ed elettricità la vicenda solistica del Nostro. Defenestrato dai Velvet nel ’68, si prendeva una biennale vacanza di lavoro dedicandosi alla produzione dell’ex-compagna di banda Nico e dell’epocale debutto degli Stooges (altro esempio di opposti che si attraggono), confezionando quindi nel 1970, a distanza di poche settimane l’uno dall’altro, ben due 33 giri. Usciva prima quello registrato per secondo e che dunque le discografie inevitabilmente indicano come debutto, vale a dire “Vintage Violence”.
Prosegue per altre 6.568 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.430, 20 febbraio 2001. John Cale compie oggi ottantun anni. Li ha festeggiati in anticipo pubblicando lo scorso 20 gennaio “Mercy”, suo diciassettesimo album in studio collaborazioni e colonne sonore escluse. Incredibilmente, uno dei suoi più belli di sempre.
Ma è davvero così buono, “Mercy”?
Ascoltare per credere.