
Secondo la definizione che ne dà il Cambridge Dictionary dicasi one-hit wonder “un esecutore di musica popolare con un’incisione di successo che resta isolata”. Non per forza un numero uno e in una lista da lungi sfortunatamente non aggiornata (arriva al 2008) rintracciabile in Rete dei “100 Greatest One Hit Wonders” figurano ad esempio i Devo, la cui Whip It arrestò la sua ascesa nella classifica dei singoli di “Billboard” al quattordicesimo posto. È un elenco tanto spassoso da scorrere ─ a nomi che durarono tre minuti se ne alternano altri di livello e con cataloghi corposi, a brani tremendi che solo nostalgia o gusto per il kitsch possono far salvare canzoni strepitose (il divertimento sta naturalmente nel contare quanti di questi pezzi si ricordano e di quanti non si serba memoria) ─ quanto lacunosa. Una ragione per l’assenza di Runaway Train, l’unica canzone dei Soul Asylum che chiunque riconosce al volo, tecnicamente potrebbe però esserci. Se nemmeno quella andò al numero uno USA, visto che si fermò al 5, raggiunto in piena estate del 1993 e dunque a quasi un anno dalla pubblicazione dell’album che la contiene, nel ’95 il gruppo capitanato da Dave Pirner vedeva Misery, primo singolo tratto dal disco seguente, entrare occupando l’ultima posizione utile nei Top 20. Meraviglia da due hit allora la terza band di Minneapolis (la città che ci ha regalato Prince) conosciuta da quelli che sanno citarne subito due: Hüsker Dü e Replacements. Fatto è che, nonostante siano ancora in attività (il più recente lavoro in studio è del 2020), i Soul Asylum sono i grandi rimossi della storia di quello che negli ’80 veniva chiamato college rock e dal boom del grunge in poi viene detto “alternative”. Mica giusto.
È il 1981 quando Dan Murphy, Karl Mueller e Dave Pirner si trovano per la prima volta a provare insieme. Se la padronanza degli strumenti, rispettivamente chitarra, basso e batteria con Dan e Dave ad alternarsi alla voce, è ancora parecchio approssimativa hanno in compenso riguardo a cosa e come suonare idee chiarissime, esplicitate sin dalla ragione sociale adottata: Loud Fast Rules. A portata di mano e orecchio i modelli cui rifarsi, che sono i summenzionati Hüsker Du, che da un paio di anni animano la scena locale più sotterranea e hanno da poco dato alle stampe un 7”, e Replacements, che bruciando le tappe già hanno debuttato a 33 giri. È Bob Mould, chitarrista dei primi, a fare esordire discograficamente il giovanissimo trio l’anno dopo, con due brani inseriti nella raccolta di artisti vari (su Reflex, sua etichetta personale, e solamente in cassetta) “Barefoot & Pregnant”, ospitando l’anno ancora dopo su una seconda antologia ma dal vivo, “Kitten”, altri materiali loro ma a nome Proud Class Fools. A proposito di nome: diventano Soul Asylum quando diventano quattro, con Pirner che si sposta alla chitarra ritmica e contemporaneamente diventa la voce solista e tal Pat Morley (presto lo rileverà Grant Young) che ne prende il posto dietro piatti e tamburi. È la Twin/Tone, nata nel 1977 e una delle più solide realtà indie nordamericane, a metterli sotto contratto, Mould a firmare la produzione nell’84 del debutto “Say What You Will…” e da lì a due anni di “Made To Be Broken”, mentre a curare la regia di “While You Were Out”, che esce anch’esso nell’86, è Chris Osgood. Sono prove ancora acerbe ma una più persuasiva dell’altra, tappe di apprendistato nel percorso da un punk troppo sgangherato per potere essere hardcore più che nell’attitudine a un heavy rock che non viene mai da dire metal, senza una sbrodolatura né un filo di retorica e generoso di riff e ganci melodici parimenti memorabili. Che ci sia del potenziale commerciale è sempre più evidente. Si fa avanti la A&M, che non avrà abbastanza pazienza e molto avrà a rimpiangerlo. Prodotto congiuntamente da Lenny Kaye e Ed Stasium e datato 1988, “Hang Time” è l’album della maturità per il quartetto, forza d’urto pari ai predecessori ma ben più sofisticato. Più o meno d’accordo tutti oggi nel considerarlo il capolavoro del gruppo, non soltanto i cultori della prim’ora che, da bravi snob, se ne sentiranno espropriati dal successo di “Grave Dancers Union”. Tutti d’accordo pure nel ritenere “And The Horse They Rode In On”, del ’90, danneggiato da una registrazione (Steve Jordan e Joe Blaney i responsabili) incapace di riprodurre (e dire che è fondamentalmente un live in studio) l’impatto travolgente di concerti a quel punto ammantati di leggenda. Sia come sia: a fronte di vendite modestissime (nemmeno si entra nei Top 200) e non facendo le buone recensioni fatturato, i Soul Asylum vengono, per così dire, lasciati liberi di accasarsi altrove. Dev’essere giusto un’intuizione felice, la percezione che i tempi stanno cambiando e l’underground è pronto a prendersi il mainstream, come accadrà a cavallo fra il ’91 e il ’92 principalmente grazie a “Nevermind”, a indurre un’altra multinazionale, la Columbia, nientemeno, a offrire un’ultima possibilità ai Soul Asylum. Preceduto di cinque mesi dal riffarama Hüskers di Something To Shove, “Grave Dancers Union” arriva nei negozi nell’ottobre 1992 e non fa chissà quali numeri fintanto che come terzo singolo (a uscire come secondo è la ballata con elementi di jingle jangle e psichedelia Black Gold) non ne viene estratta Runaway Train. Scintillante e struggente con un retrogusto country, accompagnata da un video più che da Grammy, che pure vincerà, da Nobel o Pulitzer (vi appaiono nomi e foto di una quantità di ragazzini scomparsi; tanti verranno così rintracciati, di diversi tragicamente i corpi) viene trasmessa a spron battuto da MTV e moltiplica esponenzialmente le vendite dell’album.
Un torto ha, Runaway Train. Che mette in ombra il resto di un programma variegato e brillante, con vertici rimarchevoli nella power ballad Homesick, nel valzer New World, nella sabbathiana April Fool, nel popcore Growing Into You. L’album, le cui copie d’epoca in vinile costicchiano, è stato oggetto negli scorsi mesi di due riedizioni per il trentennale. Quella europea su Music On Vinyl è fedele alla scaletta originale, quella americana su Columbia la raddoppia aggiungendo un LP di outtake, cover e incisioni live.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.449, gennaio 2023.
Che ricordi! Ero in vacanza negli States nel 1993 e quella canzone la passavano sempre alla radio. Ovvio che comprare il disco fu un obbligo con in copertina una bellissima foto di Jan Saudek.
Lo dico? Lo dico: “Runaway Train” sembra un pezzo dei Bon Jovi coevi (sarà per questo che è finito nelle parti alte della classifica?).
Pure io ho pensato la stessa cosa.