Archivi del mese: Maggio 2023

Shame – Food For Worms (Dead Oceans)

Se una cosa si poteva rimproverare ai londinesi Shame ─ giovanissimi quando debuttavano nel 2018 con il contundente, ruggente, a tratti feroce “Songs Of Praise” ─ era un’eccessiva aderenza ai due modelli peraltro da lungi con più tentativi di imitazione da quelle parti, Fall e Gang Of Four. Valeva ancora per il secondo e comunque formidabile album, datato 2021, “Drunk Tank Pink”, per quanto più che cavarsela con l’abusata etichetta “post-punk” si potesse e dovesse continuare a parlare nel loro caso di “post-hardcore”. Erano “non per tutti, ma impressionanti” e impressionanti restano, ma per due ragioni una conseguente all’altra: perché, avendo inteso che con un terzo lavoro in studio sulla falsariga dei predecessori si sarebbero infilati in un vicolo cieco, hanno preferito cambiare; e per come l’hanno fatto.

Che si tratti di tutt’altra musica provvede a chiarirlo già l’iniziale Fingers Of Steel, mischiando incongruamente quanto felicemente i DNA di Arcade Fire (i primi) e Buzzcocks, e se come azzardo non vi pare abbastanza ecco tallonarla Six-Pack, che fra le dieci tracce che sfilano in “Food For Worms” è l’unica in cui il fantasma di Mark E. Smith fa una comparsata, ma per incontrarne un altro che non ti aspetteresti mai, Jimi Hendrix, e portarlo a un concerto dei black midi. Ascoltare per credere, anche se in fondo sorprende appena meno del fatto che subito dopo gli Shame declinino in Yankees classico indie rock da medi ’90, che in Orchid dispieghino chitarre acustiche (torneranno nella conclusiva All The People) e persino un piano, in World Gets Better scintilli del jazz, in Different Person si palesino quei Talking Heads evocati al giro prima ma lì mai concretizzatisi.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.451, marzo 2023.

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Audio Review n.453

È in edicola dalla scorsa settimana il nuovo numero di “Audio Review”. Nella sezione musicale mie recensioni degli ultimi album di A Certain Ratio, boygenius, Peter Case, Lucinda Chua, Deerhoof, Fever Ray, Hold Steady, Lonnie Holley, Long Ryders, Doug Paisley, Alasdair Roberts, Emiliana Torrini & The Colorist Orchestra, Yves Tumor e Nick Waterhouse e di una ristampa di Bob Weir. Pagina del vinile dedicata ai primi tre LP di Joe Ely.

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Il magico 1968 dell’ippogrifo Pentangle

Registrato nell’autunno 1968 e pubblicato nel gennaio dell’anno dopo “Birthday Blues” resterà per due anni e mezzo l’ultima prova da solista di Bert Jansch, a quell’altezza occupato a tempo pieno dall’avventura Pentangle. Ha ragione Richie Unterberger quando osserva che è un po’ come ascoltare i Pentangle ma in una versione sbilanciata, con la ritmica consuetamente lì storta e là swingante ma senza la seconda chitarra a contrappuntare quella che da sola si prende il proscenio e senza la voce femminile tanto caratterizzante e, oggettivamente, infinitamente più suggestiva. Non è la migliore prova dell’autore né da solista né in un contesto di gruppo e nondimeno qualche articolo di vaglia al suo favoloso catalogo, oltre alla già citata I Am Lonely, lo aggiunge: una fiabesca Tree Song; la virtuosistica (dedica alla sua signora) Miss Heather Rosemary Sewell; una A Woman Like You che azzarda il raga; una traccia omonima squisitamente barocca benché in solitario e scandalosamente breve.

Non avrà a lungo un successore, il Blues del Compleanno, perché l’ippogrifo Pentangle (ha presente il lettore? bestia leggendaria che fonde in sé quattro diversi animali e qui sarebbero cinque, ma due sono il medesimo) a quel punto vola ormai altissimo. Ci sono voluti due americani per propiziarne l’ascesa verso empirei di stardom e immortalità: uno è Jo Lustig, manager di pochi scrupoli quanto di efficacissimo attivismo, capace di procurare alla band una copertura mediatica impressionante, su una stampa specializzata che al tempo decide fortune e sfortune così come da parte della BBC; l’altro è il produttore Shel Talmy, uno cui già gli Who e i Kinks dovevano non tanto ma tantissimo e scusate se è poco. Saranno però i Pentangle il suo capolavoro: firma la regia dei loro primi tre album e non ci si crede quanto suonino bene. Il primo in particolare, inciso con a disposizione appena quattro piste dentro le quali riusciva ad accomodare un sound pazzamente caleidoscopico. Questo sia subito chiaro: se routinariamente si indica nel quintetto, a pari merito con i Fairport Convention (uno scalino sotto gli Steeleye Span; la Incredible String Band un’altra roba), la massima espressione del folk-rock britannico è per convenzione, per comodità di discorso. Giustamente con chi glielo dice Danny Thomson si infuria e rivendica che trattavasi, semmai, di folk-jazz. Non tanto per l’uso da parte sua di un contrabbasso, e non di un basso elettrico, quanto per la preferenza data a tempi altri (che cambiano magari durante lo stesso pezzo) rispetto al canonico 4/4. Nei Pentangle quasi mai la ritmica è squadrata: ondeggia, swinga, prende abbrivi marziali. E certe sonorità e scale ─ di una chitarra elettrica che pare a volte un sitar; e ogni tanto è proprio un sitar a far capolino ─ che istintivamente l’ascoltatore di rock non può non collegare alla psichedelia arrivano in realtà dalle musiche indiane, arabe, magari dell’Est Europa. Fra l’altro: senza che ciò mai incida sulla stratosferica qualità delle performance, assai spesso la nostra combriccola si presenterà alla ribalta in stato di alterazione collettiva (in special modo i due chitarristi), ma alcolica, non di origine chimica.

Ancora Unterberger (in Eight Miles High, secondo tomo di una poderosa e imprescindibile storia del folk-rock) si spinge, un po’ spericolatamente, a dire i Pentangle i Beatles del versante britannico della scena. In questo senso ha ragione: che furono un gruppo in cui ciascuno dei cinque membri evidenziava una personalità forte, unica, chiaramente a sé rispetto alle altre quattro. Ci sta. Ma allora si può anche chiamarli i CSN&Y: per gli intrecci vocali e per l’abitudine di ricavare parentesi solistiche negli spettacoli dal vivo.

“The Pentangle” vede la luce a un anno quasi esatto (meno dieci giorni; il 17 maggio 1968) dal primo concerto. Chiaro che l’intesa si è affinata e, se la freschezza è da esordio, le si abbina la perfezione della macchina ampiamente rodata, ciascun ingranaggio funzionale all’armonioso muoversi d’assieme. Degli otto brani che compongono il succinto programma (trentuno minuti scarsi) solo metà è originale e inoltre ─ laddove Pentangling è sin dal titolo il manifesto di un suono mercuriale che scappa verso ogniddove fra momenti incantati, strappi e vortici ─ Bells e Waltz non sono che due (deliziose) scuse per esibire la magistrale padronanza dei rispettivi strumenti di Cox e Thompson. Mentre la pigramente arabeggiante Mirage è la versione per band di una peregrinazione di Jansch fra dune desertiche. Eppure: è un gruppo dalla personalità tanto straripante da evidenziarsi maggiormente nei materiali che rielabora: il gospel degli Staple Singers Hear My Call, girato jazz; i tradizionali Let No Man Steal Your Thyme e Way Behind The Sun, trascinati verso derive lisergiche da (per osare ulteriormente) Jefferson Airplane britannici; e Bruton Town, che parte minuetto e trasfigura in saga.

Proprio Bruton Town, e oltretutto relegata a fondo scaletta, è l’unica traccia del debutto presente nel disco dal vivo che, accoppiato a uno in studio, dà vita già entro fine anno al viceversa assai corposo seguito, “Sweet Child”. Scelta coraggiosa quella di uscirsene già con un doppio che giova alla crescente reputazione della band, se non a vendite che permangono modeste in rapporto all’entusiasmo di critica e pubblico pagante (ai concerti). La precedono lungo quaranta minuti undici brani inediti (la ristampa in CD oggi in catalogo offre lo spettacolo intero, chiarendo che da quel punto in poi l’esordio veniva ripreso quasi integralmente): resta forse il migliore riassunto di un canone capace di includere con disarmante naturalezza blues inacidati (l’autografa Market Song) come arcaici (il vivace omaggio a Furry Lewis Turn Your Money Green), ballate dal modernista (No More My Lord) al favolistico (Watch The Stars), una sinossi perfetta di folk barocco (Three Dances), mo-nu-men-ta-li riletture di due fra i massimi capolavori di Charles Mingus (Haitian Fight Song e Goodbye Pork Pie Hat) e poco dopo una performance a cappella di Jacqui McShee (So Early In The Spring) di una bellezza semplicemente paralizzante. Un gradito ritorno: The Time Has Come, adesso elettrica. Dal raffronto il 33 giri in studio risulta a momenti sminuito, a un primo ascolto almeno. Ma prolungandosi la frequentazione se ne evidenzia una seduzione più quieta quanto al pari persistente. Rappresentano apici stellari una canzone inaugurale e omonima dal sognante al turbinoso, l’ansiogeno strumentale (Thompson suona con l’archetto) Three Part Sing, il valzer sull’orlo della schizofrenia I’ve Got A Feeling (ispirato da Miles Davis), la ritmica Moon Dog, una Hole In The Coal che è di Ewan MacColl e parrebbe invece (ebbene sì e ancora) dell’adorato Mingus.

Dopo avere tanto seminato nel 1968 i Pentangle raccolgono nel 1969, con l’album che i più considerano il loro grande classico (tutti quelli che non gli preferiscono “Sweet Child”): “Basket Of Light”. Finalmente superstar, quinti nelle classifiche UK.

Tratto da Bert Jansch – La ballata di un enigma. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.237, febbraio 2018. Ristampato in Extraordinaire 2 – Di musiche e vite fuori dal comune. Il primo, omonimo album dei Pentangle vedeva la luce il 17 maggio 1968, cinquantacinque anni fa.

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Robert Forster – The Candle And The Flame (Tapete)

Pur avendo ottenuto buoni risultati in una prima carriera solistica che lo vedeva pubblicare fra il ’90 e il ’96 quattro lavori in studio, per certo Robert Forster avrebbe fatto volentieri a meno di intraprenderne nel 2008 una seconda che ne ha fruttato con questo altrettanti. È che si metteva in proprio quando quei magnifici Smiths-prima-degli Smiths che furono i Go-Betweens si scioglievano, giustamente offesi dall’indifferenza del mondo (fa oggi sorridere agro che a un dato punto molti fra i loro pochi cultori li accusassero di essersi “commercializzati”: era appena uscito l’album con cui sembrò chiudersi la loro vicenda, “16 Lovers Lane”, un numero 48 nella natia Australia, 81 nel Regno Unito). E ci si rimetteva quando il sodalizio con Grant McLennan (li dissero i Lennon/McCartney del pop chitarristico degli anni ’80: esagerando un po’, non troppo; in linea di massima Robert era John), felicissimamente rinnovato nel 2000, tragicamente si scioglieva di nuovo e per sempre nel 2006, causa dipartita per infarto a soli quarantott’anni dell’amico e socio. Ne avrebbe fatto a meno, ma visto che è andata come è andata vale come consolazione che il superstite ogni tanto ci regali una manciata di canzoni nuove. Mai troppo distanti dalle vette olimpiche toccate in una giovinezza costellata di classici.

“The Candle And The Flame” ne mette in fila nove, le migliori verso metà programma: una Pale Blue Eyes sbarazzina chiamata It’s Only Poison, la ballata country a due voci I Don’t Do Drugs I Do Time, una Always da Modern Lovers prima maniera. Inaugura con giocosa grinta She’s A Fighter. Apprendere che è dedica alla moglie (nonché partner pure artistica) Karin Bäumler, alle prese con seri problemi di salute, prima spiazza, poi commuove.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.451, marzo 2023.

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Feel Like Being A Silver Machine – Hawkwind, 1970-1977

La notizia è – sarebbe – che sono usciti due box degli Hawkwind. Peccato che celebrino due decenni durante i quali il gruppo, pur restando dignitoso, ha cessato di essere rilevante. La non-notizia allora è un’altra: gli Hawkwind si apprestano a festeggiare i loro primi quarant’anni. Incredibile ma vero.

Incredibile ma vero, al dio del rock (che ultimamente si sta facendo bestemmiare come non mai) piacendo, è che – a parte il povero Bob Calvert, che ci lasciava quarantatreenne nell’agosto ’88 – ci arrivino in condizioni smaglianti per dei signori in prevalenza più prossimi ai settanta che ai sessanta e che hanno vissuto una vita spericolata come nessuno mai. I due principali protagonisti della saga, il chitarrista Dave Brock e il sassofonista Nik Turner, si sono da tempo ritirati in campagna e immaginarseli agricoltori a menare un’esistenza scandita dai cicli della luce e delle stagioni è una visione surreale. Stiamo parlando di una delle band più quintessenzialmente metropolitane di sempre. Stiamo parlando dei compagni di merende di… state a sentire come il bassista Lemmy Kilmister racconta dell’approccio a un concerto londinese rimasto epocale, quello durante il quale furono incise le piste strumentali (la voce poi sostituita in studio) del singolo Silver Machine, un numero 3 nelle classifiche UK nel luglio 1972 e rimasto la più grande hit dei nostri squinternati eroi.

Io e Dikmik (Davies, il tastierista; NdA) eravamo pieni di dexedrina fino agli occhi, in piedi da quattro giorni e quattro notti e allora si cominciava a essere nervosi. Bisognava fare questo spettacolo e avevamo bisogno di calmarci. Così buttiamo giù del Mandrax, ma dopo un po’ ci piglia la noia e allora ci fumiamo un paio di cannoni di nero. Arriviamo alla Roundhouse e salta fuori dell’altro nero. Ci spariamo quell’altra decina di spinelli belli carichi a testa. Siamo di nuovo schizzati come bestie e per rilassarci caliamo altro Mandrax, tre pillole ciascuno. È stato a quel punto che ci hanno portato della coca… Cazzo, delle borse piene di coca. Be’, l’abbiamo assaggiata, naturale. Bussano al camerino per dirci che è ora di andare in scena e a quel punto ho il corpo talmente irrigidito da essere come paralizzato. Gli faccio: ‘Ehi, Dikmik! Non riesco più a muovermi!’. E lui: ‘Neanch’io! Figo, eh?

Pensate che quel concerto, registrazione di Silver Machine a parte, fu un disastro? Niente affatto. Chi c’era lo magnifica come un trionfo e, se credete siano ricordi falsati dalle sostanze assunte non solo dal gruppo ma più o meno dall’intera platea, in assenza di una macchina del tempo potete andare a toccare con orecchio il fenomenale “Space Ritual”, doppio live datato ’73, inequivocabile testimonianza di come una compagine per il resto sommamente disfunzionale messa su un palco riuscisse invariabilmente, in qualche pazzesco modo, a funzionare alla perfezione. Eccellenti in studio, trascendentali dal vivo: almeno in questo il ricorrente paragone con i Grateful Dead tiene. “Potevamo diventare degli altri Pink Floyd”, sospirava ridacchiando Brock nel 1999, concedendosi a “Mojo”. Furono invece i papà dei Sex Pistols.

Prosegue per altre 7.584 battute su Venerato Maestro Oppure ─ Percorsi nel rock 1994-2015. Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.656, marzo 2009. “Space Ritual” vedeva la luce cinquanta esatti anni fa.

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Laura Cox – Head Above Water (Verycords)

Dice qualcuno di noi vecchi babbioni che in fondo in fondo (probabilmente a destra, dove di solito stanno i bagni) è un bene che esistano i Måneskin. Che almeno grazie a loro una nuova generazione si sta appassionando al rock, che sarebbe quella musica che si suona con una chitarra elettrica o due, un basso, una batteria, magari una tastiera, e sono strumenti le cui vendite si sono impennate dacché Damiano, compagna e compagni sono in circolazione. Dice che sì, è vero, le loro canzoni paiono scritte da un programma informatico e l’esibito ribellismo sa di pantomima ma, comunque e insomma, “sempre meglio che la trap”. Parliamone. Ma anche no.

Parliamo invece di Laura Cox, nata in Francia trentadue anni fa da madre francese e padre inglese, formalmente al secondo album ma in realtà al terzo contando un debutto a nome Laura Cox Band. Brava chitarrista e a partire da Wikipedia non vi è chi non lo sottolinei, magari poi elencando quante e quali chitarre usa, corde, distorsori, amplificatori, tutto l’ambaradan. Per intendere che fa ROCK non serve nemmeno ascoltarlo, “Head Above Water”, essendo sufficiente notare la posa dell’artefice in copertina e il lettering della stessa, peraltro identico a quello del predecessore del 2019 “Burning Bright”. Primo titolo in scaletta Fire Fire: tanto per mettere le cose in chiaro. Qui il primo è una traccia omonima rigurgitata da un programma informatico che si è incaricato di fare sinossi del catalogo dei Rolling Stones. Seguono So Long, che fa lo stesso con quello degli ZZ Top, e One Big Mess, che parte con un assolo che manco il compianto Eddie Van Halen ma ci sta, perché se sai suonare perché non farlo sapere? E così via. Comunque sempre meglio che la trap. Forse.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.451, marzo 2023.

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Nessuno canta il blues come Blind Willie McTell

Ho visto la freccia in cima alla porta./Diceva: ‘Questa terra è condannata,/da New Orleans a Gerusalemme’./Ho attraversato l’East Texas/dove molti martiri sono caduti/e so che nessuno canta il blues/come Blind Willie McTell./Ho sentito il verso della civetta risuonare/mentre smontavano le tende,/le stelle sopra gli alberi spogli/suo unico pubblico./Le ragazze zingare che portano il carbone/sanno bene come pavoneggiarsi,/ma nessuno canta il blues/come Blind Willie McTell.

Per bizzarra coincidenza è un 5 maggio il giorno in cui Bob Dylan registra Blind Willie McTell, o meglio la versione ─ ne esiste una precedente, del 18 aprile sempre del 1983 ─ di cui ci ha fatto dono solo otto anni più tardi includendola nella prima uscita delle “Bootleg Series”. È alle prese con “Infidels”, il disco che segnerà la sua rinascita dopo l’era fosca e ottusa di un’altra rinascita, quella cristiana, ed è incerto sul valore di un brano a proposito del quale dichiarerà che “non conosco nessuno che faccia questo tipo di canzoni” e, sant’iddio, sta parlando il signore che ha firmato una bazzecola come Like A Rolling Stone e rivoluzionato la storia della canzone popolare quel paio di volte. Talmente incerto ─ “non è incisa bene” e “non si è sviluppata come avrebbe dovuto” altre due inverosimili scuse ─ che in ultima istanza deciderà di escluderla dall’album, preferendole il comizio sionista di Neighborhood Bully: scelta fra le più autolesioniste in una vicenda che in materia di autolesionismo nulla si è fatta mancare. Ma il nastro passa di mano in mano (ne arriva una copia a Steve Wynn e sarà per tramite dei Dream Syndicate, artefici di una versione di elettrico, apocalittico fulgore, che avrò modo di ascoltarlo per la prima volta) e cresce la sua fama. Quando vedrà la luce ufficialmente al mondo toccherà interrogarsi sulla sanità mentale dell’autore, incapace di riconoscere la grandezza di una canzone come non ne componeva (né ne ha più composte) dai mezzi ’70 di “Blood On The Tracks”, se non dai mezzi ’60 di “Blonde On Blonde”. Però in una cosa aveva ragione: nessuno scrive canzoni così. Siamo al sovrumano, nell’afflato come nella qualità, e mi sia concesso citare al riguardo quel finissimo esegeta di Alessandro Carrera quando annota che Blind Willie McTell è “una conversazione desolata fra Dylan e lo spirito della terra, condotto sull’orlo della fine del tempo, davanti alla concreta e terrificante possibilità che anche l’immortalità stia per morire”. E con il bardo di Duluth la faccio finita qui, o quasi.

Ho guardato le grandi piantagioni bruciare,/sentito le fruste schioccare,/aspirato il dolce profumo delle magnolie in fiore/e ho visto i fantasmi delle navi negriere./Posso ancora ascoltare i lamenti delle tribù,/posso ancora ascoltare la campana del padrone/e nessuno canta il blues/ come Blind Willie McTell.

Dicevo di una coincidenza: fosse stato ancora vivo, quel 5 maggio il bluesman georgiano avrebbe festeggiato l’ottantacinquesimo compleanno, oppure l’ottantaduesimo visto che sull’anno di nascita ─ 1898 o 1901 ─ le fonti sono discordi. Non l’unico dettaglio rimasto oscuro, avrete inteso se con il blues avete frequentazioni appena più che occasionali. Nemmeno si sa in verità quale fosse il suo vero nome. Per Carrera era nato Willy Samuel McTier, ma a prestar fede a Greg Ward sulla sua pietra tombale sta scritto “Eddie McTier”. Né è chiaro se fosse nato cieco o lo sia divenuto intorno ai vent’anni. Inoltre: confusi i resoconti intorno alle circostanze di una morte che lo colse ─ il 19 agosto 1959, pare ─ a tal punto dimenticato che solamente alcuni mesi dopo la notizia trapelava fra gli appassionati. Usciva un 33 giri su Bluesville, “Last Session”, quando mai in vita Blind Willie McTell aveva avuto la soddisfazione di avere un suo LP nei negozi. Presto il blues revival avrebbe regalato fama e denaro ai coetanei sopravvissutigli e fra costoro a diversi a lui inferiori. E nel 1971 la Allman Brothers Band avrebbe posto Statesboro Blues a incipit del classico e vendutissimo “At Fillmore East”. Ma fatemici arrivare e innanzitutto dicendovi perché sono qui a parlarvi di Willie il Cieco. È in circolazione dalla scorsa estate un cofanetto su JSP, “The Classic Years 1927-1940”. È economico, eccellentemente annotato, suona bene quanto si può pretendere da incisioni così vetuste. Ed è una delle più monumentali raccolte di blues, non solo pre-bellico, che siano mai state pubblicate.

Prosegue per altre 6.789 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.67, dicembre 2003. L’uomo noto con il nome d’arte di Blind Willie McTell nasceva il 5 maggio 1898. Il 5 maggio 1983 Bob Dylan registrava, con l’idea di includerlo nell’album “Infidels”, un omonimo brano dedicato al grande bluesman. Fino all’uscita nel marzo 1991 nel cofanetto “The Bootleg Series Volumes 1-3 (Rare & Unreleased) 1961-1991”, che lo contiene, il pezzo resterà invece ufficialmente inedito.

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Il poeta nero numero uno James Brown

Lo hanno (si è) chiamato in tanti modi: il signor Dinamite, il più grande lavoratore del mondo dello spettacolo, il Fratello soul numero uno e infine il Padrino del soul. Ma la più suggestiva definizione di lui la diede Le Roi Jones mentre l’America bruciava e il nostro uomo alternativamente attizzava e spegneva incendi: più che il fratello soul, “il poeta nero numero uno”. Detto da uno che di poesia e di poeti se ne intende. Non si riferiva ovviamente alla qualità dei testi, che di norma sono stati minimali come gli spartiti che corredavano, ma al modo in cui quelle parole, unendosi a quelle musiche, divenivano qualcosa di infinitamente più grande, assumendo come è tipico del blues significati fra le righe più interessanti di ciò che esplicitamente dicono e andando a definire come a nessun altro è riuscito l’identità dell’Afroamericano del Novecento. Senza nemmeno volere. In azioni, parole, musica, James Brown è stato uno dei principali rivoluzionari del XX secolo ma non l’ha fatto apposta. L’individuo è in realtà quello che oggi diremmo un conservatore compassionevole, un povero cresciuto aspirando alla borghesia, non al sovvertimento del Sistema, ed è stata fino a un certo punto la sua stessa vita a dimostrare che quel sistema era aggredibile, migliorabile dall’interno. A patto di lavorare sodo. Se parliamo di politica e sociologia, così è se vi pare. Se invece parliamo di musica, e naturalmente parleremo più che altro di musica, James Brown è uno di quei pochi nomi, in qualunque ambito, di cui è impossibile sopravvalutare l’importanza, uno di quelli che senza di lui la storia sarebbe stata completamente diversa. Come ha giustamente annotato l’autore di The Death Of Rhythm & Blues, Nelson George, è stato un catalizzatore per tutte le generazioni successive di musicisti neri (non solo per i neri, dico io), ciascuno dei quali non è che un ramo dell’albero di cui lui costituisce le radici. In piccolo, piccolissimo per carità, James Brown è una delle ragioni per le quali accettai di occuparmi continuativamente di soul su queste pagine. Che diamine: è una delle ragioni per le quali continuo ad ascoltare musica, a scriverne, a essere quello che sono. Perché gli eroi hanno bisogno di gente che (sebbene indegnamente) ne canti le gesta e tutti noi (nel negarlo il punk sbagliava) abbiamo bisogno di eroi. James Brown per me lo è. Anche se le tristi vicende dei ’90 ne hanno crudelmente evidenziato tutta l’umana debolezza. Anche se non fu esattamente passione a primo incontro.

Mi piacque naturalmente alla follia in The Blues Brothers. Era Cleophus James il predicatore, annunciava “The day of the legends is in”, cantava il gospel The Old Landmark e lo schermo andava a fuoco. Bella partenza ma falsa. Disprezzavo, complessivamente, la disco, di cui costui veniva indicato come il massimo antesignano. Non capivo la no wave, che si diceva ─ e gli album dei Contortions, che rivaluterò soltanto a tre abbondanti lustri dagli eventi, lo confermavano ─ da lui influenzata. In ogni caso, i primi ’80 non erano un buon momento per fare la conoscenza del Padrino del soul, scadenti i suoi dischi di allora, per la più parte irreperibili i classici. Nel 1984 sottovalutai il duetto con Afrika Bambaataa Unity. L’anno dopo osservai Living In America scalare le classifiche, unico vero successo del decennio, discretamente schifato e per la mediocrità della canzone (non ho cambiato idea) e per il contesto cinematografico, la colonna sonora di Rocky IV, da cui proveniva. Però nel frattempo stava esplodendo l’hip hop. Pian piano me ne innamorai. James Brown era ovunque. Nel 1991 vedeva la luce “Star Time”, cofanetto quadruplo riccamente commentato, settantuno brani, cinque ore di musica e non un decimo di secondo da buttare. Per qualcuno è il più grande album di tutti i tempi. Per me è la raccolta ideale non solo per approcciarsi all’oggetto di questo esercizio devozionale ma per capire cosa vogliano dire soul, rhythm’n’blues, funk. Fu una folgorazione indimenticabile ed è l’antologia di black music definitiva.

James Brown nasce a Barnwell, South Carolina, il 3 maggio 1933 da una famiglia più che povera miserabile e per di più, per dirla elegantemente, disfunzionale. “Non avevo una vera madre e solo ogni tanto un genitore”, ricorderà. Ha quattro anni quando i suoi si separano e va ad abitare con il padre ad Augusta, Georgia, presto abbandonato pure da lui, che preferisce arruolarsi nell’esercito piuttosto che crescerlo, e tirato su da una sequela di parenti distratti fra cui una zia tenutaria di un bordello. Studia irregolarmente e con scarso profitto, lascia quindicenne e si sbatte per guadagnare qualche dollaro lustrando scarpe e spazzando pavimenti, raccogliendo cotone, lavando macchine e, premonizione di quanto lo attende, facendo il guitto per strada, cantando, ballando. Partecipa anche a competizioni per dilettanti e non di rado le vince. Da manuale che arrivino i guai con la legge. Nel 1949 viene sorpreso su un auto altrui e il giudice ha con lui la mano pesantissima, infliggendogli da un minimo di otto a un massimo di sedici anni ─ gli stessi che ha il reo! ─ di lavori forzati. Dispone inoltre, nemmeno si trovasse dinnanzi un mafioso, che i primi mesi vengano scontati in un istituto di massima sicurezza. Il ragazzo resterà dentro in realtà tre anni, per la più parte trascorsi nel non troppo rigido riformatorio di Toccoa, e come era accaduto decenni prima per Louis Armstrong sarà un’esperienza altamente formativa, una fortuna persino. Conosce là Bobby Byrd ed è la famiglia di costui a farsi garante per la libertà vigilata e a trovargli un lavoro in una fabbrica di automobili, la Lawson. Il giovanotto è diviso fra la passione per la musica e quella per lo sport. Sale per tre volte sul ring da peso gallo ma poi appende i guantoni al chiodo. Se la cava meglio con il baseball, dove avrebbe qualche possibilità di far carriera non ci si mettesse di mezzo un infortunio. Dio esiste.

Entra nei Gospel Starlighters dell’amico Bobby, quartetto localmente alquanto apprezzato che come tanti altri in quegli anni decide di passare dalla musica sacra a quella secolare e comincia a declinare doo wop e prodromi di errebì e rock’n’roll. Si ribattezzano prima Avons, quindi Flames, ed eleggono a loro principali idoli i Five Royales, Little Willie John (martire per il quale prima o poi spenderò superlativi, urla, furore e lacrime e di cui James Brown tesserà nel 1968 funebre elogio con il 33, uno dei suoi migliori e il più atipico, “Thinking About Little Willie John And A Few Nice Things”) e Hank Ballard e i suoi Midnighters. Hanno osservato questi ultimi fare impazzire una platea di ragazze ed esiste stimolo migliore per agognare la gloria? Al confine fra dilettantismo e professionismo hanno comunque già un manager, tal Barry Tremier, e registrano alcune facciate di cui si sono perse le tracce e che ne direbbe Indiana Jones di mettersi alla ricerca di quelle piuttosto che di cazzate come il Santo Graal? Una bella sera, siamo alla fine del 1954 o forse nei primi giorni del ’55, al Bill’s Rendezvous Club di Toccoa arriva Little Richard, non ancora personaggio di statura nazionale ma già un fenomeno nel Sud. Non annunciati né invitati, i Flames prendono possesso del palco nell’intervallo fra il primo e il secondo spettacolo e suscitano ovazioni fragorose ed eccitazione spasmodica. Little Richard si affaccia per scoprire la ragione di tutto quel casino. Il suo accompagnatore Fats Gonder pure. Si annota il nome del complesso e lo segnala al manager Clint Brantley. Quando questi perde Little Richard, decide di rifarsi occupandosi dei Flames. Li fa traslocare a Macon e in uno scantinato fa loro incidere il brano che dal vivo riscuote i maggiori consensi. Ballata pianistica prossima a un classicismo doo wop, Please Please Please è la rielaborazione non particolarmente ardita di un successo degli Orioles di tre anni prima, Baby Please Don’t Go. Gradevole eccome e però un’ombra, nulla più, di concerti in cui Brown è già mattatore: urla, grugnisce, salta, balla come un ossesso giocando con l’asta del microfono, buttandosi ginocchioni, sdraiandosi, strisciando, perché se lo fa Little Richard lui deve rifarlo moltiplicato. Pur così addomesticati i Flames sono graditi alle radio, che prendono a trasmettere il via via più scrocchiante acetato. Piace un sacco a Ralph Bass, che lo ascolta in un negozio di Atlanta, lavora per la King e ha seguito in studio gente come T-Bone Walker, Little Esther Phillips, Hank Ballard. Piace altrettanto a Don Robey della Duke Records di Houston e a Leonard Chess, che vorrebbe non limitare al solo blues di Chicago il catalogo dell’etichetta che da lui ha preso il nome. Un’offerta di Robey viene rigettata. Bass e Chess inscenano una gara non per modo di dire per approfittarne.

Prosegue per altre 20.971 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.52, settembre 2002. Ricorre oggi il novantesimo anniversario della nascita dell’artista.

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