Il poeta nero numero uno James Brown

Lo hanno (si è) chiamato in tanti modi: il signor Dinamite, il più grande lavoratore del mondo dello spettacolo, il Fratello soul numero uno e infine il Padrino del soul. Ma la più suggestiva definizione di lui la diede Le Roi Jones mentre l’America bruciava e il nostro uomo alternativamente attizzava e spegneva incendi: più che il fratello soul, “il poeta nero numero uno”. Detto da uno che di poesia e di poeti se ne intende. Non si riferiva ovviamente alla qualità dei testi, che di norma sono stati minimali come gli spartiti che corredavano, ma al modo in cui quelle parole, unendosi a quelle musiche, divenivano qualcosa di infinitamente più grande, assumendo come è tipico del blues significati fra le righe più interessanti di ciò che esplicitamente dicono e andando a definire come a nessun altro è riuscito l’identità dell’Afroamericano del Novecento. Senza nemmeno volere. In azioni, parole, musica, James Brown è stato uno dei principali rivoluzionari del XX secolo ma non l’ha fatto apposta. L’individuo è in realtà quello che oggi diremmo un conservatore compassionevole, un povero cresciuto aspirando alla borghesia, non al sovvertimento del Sistema, ed è stata fino a un certo punto la sua stessa vita a dimostrare che quel sistema era aggredibile, migliorabile dall’interno. A patto di lavorare sodo. Se parliamo di politica e sociologia, così è se vi pare. Se invece parliamo di musica, e naturalmente parleremo più che altro di musica, James Brown è uno di quei pochi nomi, in qualunque ambito, di cui è impossibile sopravvalutare l’importanza, uno di quelli che senza di lui la storia sarebbe stata completamente diversa. Come ha giustamente annotato l’autore di The Death Of Rhythm & Blues, Nelson George, è stato un catalizzatore per tutte le generazioni successive di musicisti neri (non solo per i neri, dico io), ciascuno dei quali non è che un ramo dell’albero di cui lui costituisce le radici. In piccolo, piccolissimo per carità, James Brown è una delle ragioni per le quali accettai di occuparmi continuativamente di soul su queste pagine. Che diamine: è una delle ragioni per le quali continuo ad ascoltare musica, a scriverne, a essere quello che sono. Perché gli eroi hanno bisogno di gente che (sebbene indegnamente) ne canti le gesta e tutti noi (nel negarlo il punk sbagliava) abbiamo bisogno di eroi. James Brown per me lo è. Anche se le tristi vicende dei ’90 ne hanno crudelmente evidenziato tutta l’umana debolezza. Anche se non fu esattamente passione a primo incontro.

Mi piacque naturalmente alla follia in The Blues Brothers. Era Cleophus James il predicatore, annunciava “The day of the legends is in”, cantava il gospel The Old Landmark e lo schermo andava a fuoco. Bella partenza ma falsa. Disprezzavo, complessivamente, la disco, di cui costui veniva indicato come il massimo antesignano. Non capivo la no wave, che si diceva ─ e gli album dei Contortions, che rivaluterò soltanto a tre abbondanti lustri dagli eventi, lo confermavano ─ da lui influenzata. In ogni caso, i primi ’80 non erano un buon momento per fare la conoscenza del Padrino del soul, scadenti i suoi dischi di allora, per la più parte irreperibili i classici. Nel 1984 sottovalutai il duetto con Afrika Bambaataa Unity. L’anno dopo osservai Living In America scalare le classifiche, unico vero successo del decennio, discretamente schifato e per la mediocrità della canzone (non ho cambiato idea) e per il contesto cinematografico, la colonna sonora di Rocky IV, da cui proveniva. Però nel frattempo stava esplodendo l’hip hop. Pian piano me ne innamorai. James Brown era ovunque. Nel 1991 vedeva la luce “Star Time”, cofanetto quadruplo riccamente commentato, settantuno brani, cinque ore di musica e non un decimo di secondo da buttare. Per qualcuno è il più grande album di tutti i tempi. Per me è la raccolta ideale non solo per approcciarsi all’oggetto di questo esercizio devozionale ma per capire cosa vogliano dire soul, rhythm’n’blues, funk. Fu una folgorazione indimenticabile ed è l’antologia di black music definitiva.

James Brown nasce a Barnwell, South Carolina, il 3 maggio 1933 da una famiglia più che povera miserabile e per di più, per dirla elegantemente, disfunzionale. “Non avevo una vera madre e solo ogni tanto un genitore”, ricorderà. Ha quattro anni quando i suoi si separano e va ad abitare con il padre ad Augusta, Georgia, presto abbandonato pure da lui, che preferisce arruolarsi nell’esercito piuttosto che crescerlo, e tirato su da una sequela di parenti distratti fra cui una zia tenutaria di un bordello. Studia irregolarmente e con scarso profitto, lascia quindicenne e si sbatte per guadagnare qualche dollaro lustrando scarpe e spazzando pavimenti, raccogliendo cotone, lavando macchine e, premonizione di quanto lo attende, facendo il guitto per strada, cantando, ballando. Partecipa anche a competizioni per dilettanti e non di rado le vince. Da manuale che arrivino i guai con la legge. Nel 1949 viene sorpreso su un auto altrui e il giudice ha con lui la mano pesantissima, infliggendogli da un minimo di otto a un massimo di sedici anni ─ gli stessi che ha il reo! ─ di lavori forzati. Dispone inoltre, nemmeno si trovasse dinnanzi un mafioso, che i primi mesi vengano scontati in un istituto di massima sicurezza. Il ragazzo resterà dentro in realtà tre anni, per la più parte trascorsi nel non troppo rigido riformatorio di Toccoa, e come era accaduto decenni prima per Louis Armstrong sarà un’esperienza altamente formativa, una fortuna persino. Conosce là Bobby Byrd ed è la famiglia di costui a farsi garante per la libertà vigilata e a trovargli un lavoro in una fabbrica di automobili, la Lawson. Il giovanotto è diviso fra la passione per la musica e quella per lo sport. Sale per tre volte sul ring da peso gallo ma poi appende i guantoni al chiodo. Se la cava meglio con il baseball, dove avrebbe qualche possibilità di far carriera non ci si mettesse di mezzo un infortunio. Dio esiste.

Entra nei Gospel Starlighters dell’amico Bobby, quartetto localmente alquanto apprezzato che come tanti altri in quegli anni decide di passare dalla musica sacra a quella secolare e comincia a declinare doo wop e prodromi di errebì e rock’n’roll. Si ribattezzano prima Avons, quindi Flames, ed eleggono a loro principali idoli i Five Royales, Little Willie John (martire per il quale prima o poi spenderò superlativi, urla, furore e lacrime e di cui James Brown tesserà nel 1968 funebre elogio con il 33, uno dei suoi migliori e il più atipico, “Thinking About Little Willie John And A Few Nice Things”) e Hank Ballard e i suoi Midnighters. Hanno osservato questi ultimi fare impazzire una platea di ragazze ed esiste stimolo migliore per agognare la gloria? Al confine fra dilettantismo e professionismo hanno comunque già un manager, tal Barry Tremier, e registrano alcune facciate di cui si sono perse le tracce e che ne direbbe Indiana Jones di mettersi alla ricerca di quelle piuttosto che di cazzate come il Santo Graal? Una bella sera, siamo alla fine del 1954 o forse nei primi giorni del ’55, al Bill’s Rendezvous Club di Toccoa arriva Little Richard, non ancora personaggio di statura nazionale ma già un fenomeno nel Sud. Non annunciati né invitati, i Flames prendono possesso del palco nell’intervallo fra il primo e il secondo spettacolo e suscitano ovazioni fragorose ed eccitazione spasmodica. Little Richard si affaccia per scoprire la ragione di tutto quel casino. Il suo accompagnatore Fats Gonder pure. Si annota il nome del complesso e lo segnala al manager Clint Brantley. Quando questi perde Little Richard, decide di rifarsi occupandosi dei Flames. Li fa traslocare a Macon e in uno scantinato fa loro incidere il brano che dal vivo riscuote i maggiori consensi. Ballata pianistica prossima a un classicismo doo wop, Please Please Please è la rielaborazione non particolarmente ardita di un successo degli Orioles di tre anni prima, Baby Please Don’t Go. Gradevole eccome e però un’ombra, nulla più, di concerti in cui Brown è già mattatore: urla, grugnisce, salta, balla come un ossesso giocando con l’asta del microfono, buttandosi ginocchioni, sdraiandosi, strisciando, perché se lo fa Little Richard lui deve rifarlo moltiplicato. Pur così addomesticati i Flames sono graditi alle radio, che prendono a trasmettere il via via più scrocchiante acetato. Piace un sacco a Ralph Bass, che lo ascolta in un negozio di Atlanta, lavora per la King e ha seguito in studio gente come T-Bone Walker, Little Esther Phillips, Hank Ballard. Piace altrettanto a Don Robey della Duke Records di Houston e a Leonard Chess, che vorrebbe non limitare al solo blues di Chicago il catalogo dell’etichetta che da lui ha preso il nome. Un’offerta di Robey viene rigettata. Bass e Chess inscenano una gara non per modo di dire per approfittarne.

Prosegue per altre 20.971 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.52, settembre 2002. Ricorre oggi il novantesimo anniversario della nascita dell’artista.

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