Un amore a primo ascolto per me quello per gli Arbouretum, per non dire a prima vista per quanto trovai bella nel 2007 la copertina di “Rites Of Uncovering”, che per il gruppo di Baltimora era già il secondo album ma io il debutto “Long Live The Well-Doer” non lo recuperai che successivamente. Del seguito mi colpiva innanzitutto quanto fosse variegato e coeso nel contempo, con dentro blues e folk, psichedelia e stoner. Qui Hendrix e lì Grateful Dead, ma con anche qualche evidente eco di certo post-rock post-Fahey oltre che post-Slint e di certo cantautorato… be’… post-rock. Papa M e Will Oldham giusto per fare due nomi e guarda caso David Heumann, che oltre che leader, cantante e chitarrista degli Arbouretum è l’unico componente che ne ha traversato per intero la storia ormai decennale, ha in curriculum collaborazioni con entrambi. Mi piaceva forse anche di più nel 2009 l’analogo “Song Of The Pearl”, con dentro di tutto un acido po’, dall’Incredible String Band ai Queens Of The Stone Age passando per americanizzazioni dei Traffic e una bella cover di Tomorrow Is A Long Time di Dylan, mentre nel 2011 almeno di primo acchito “The Gathering” mi convinceva meno. Nettamente l’articolo più heavy nel catalogo della band, con giusto la ballata The Highwayman (da Jimmy Webb) a dare requie in un altrimenti inesausto riffarama, guadagnava in ogni caso parecchio un passaggio via l’altro. Tranne un pezzo, Song Of The Nile, in transito dal bradipico al pomposo e con sconfinamenti in un prog discretamente bieco. Preoccupava che fosse collocato a suggello. Annuncio di un’ulteriore – e negativa – evoluzione stilistica? Ci avessi scommesso su avrei perso, lietissimo di perdere.
Annunciato in uscita per il prossimo 22 gennaio, “Coming Out Of The Fog” resta all’incirca lì, con qualche chitarra acustica e qualche reminiscenza di folk in più e stavolta senza scivolare mai, calando subito l’asso di una The Long Night dal sospeso allo slanciato e prendendosi tutto il piatto già con il riffeggiare pigro, a sostegno di una melodia sinuosa, della Renouncer che le va a ruota. Lo sto mandando a memoria e non gli ho trovato finora che un difetto: quello che è comunque il primo grande album del 2013 avrebbe potuto aspirare a uno status di capolavoro assoluto semplicemente sistemando altrimenti la scaletta. Ad esempio piazzando in apertura non la pur stupenda The Long Night (un apice in un disco in cui è difficile sceglierne) bensì una World Split Open dritta con la sua marzialità sferzante dall’epoca maggiore degli Hawkwind e collocando al centro, ad affiancare il felpato incantesimo di Oceans Don’t Sing, l’altra traccia – l’omonima – elettroacustica e con scorie di certo Neil Young. Per poi cercare un crescendo wagneriano, più che rossiniano, mettendo in fila la potenza trattenuta e l’eleganza cattiva di All At Once, The Turning Weather, una squillante Easter Island e infine, a congedo, una The Promise che si potrebbe raccontare sinteticamente così: un Valhalla in versione acid hard di cui gli Amon Düül II avrebbero potuto menar vanto. In quest’epoca di mediocri gli Arbouretum possono legittimamente aspirare al ruolo, se non di dei, di superuomini.