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Bob Dylan – Highway 60 Revisited

“C’era una volta un artista al crocevia del mondo”: comincia così Invisible Republic, l’incredibile dissertazione – cammin facendo manuale di storia, sociologia e letteratura americane come pochi ne sono stati scritti – che Greil Marcus qualche anno fa dedicò ai “Basement Tapes”, i nastri registrati da Bob Dylan, con i fidi compari di The Band, nel periodo di riposo seguito all’incidente motociclistico che nel 1966 per poco non ci strappò l’uomo di Duluth. In un momento in cui “non sembrava tanto occupare un punto di svolta cruciale nello spazio tempo-culturale, bensì era quel punto di svolta”. “Egli era il Folk e anche un profeta”, annota Marcus poche righe più avanti. “Quando sentii Bob Dylan alla radio riuscii veramente a credere in Dio”, racconta Harry Smith un centinaio di pagine dopo ed è testimonianza tanto più rimarchevole perché viene da colui che, assemblando il coacervo di leggende di “Anthology Of American Folk Music”, plasmò l’universo culturale in cui Dylan mosse i primi passi, salvo apparentemente rinnegarlo suscitando grandissimo scandalo.

Se non è più vero da molto (potremmo azzardare proprio dai giorni del buen retiro  a Woodstock) che, come aveva avuto a scrivere Robert Shelton in uno storico articolo apparso sul “New York Times” il 29 settembre 1961, “dove è stato importa meno di dove sta andando”, Bob Dylan resta, oltre che artista tuttora capace di strabiliare, una figura la cui influenza sul Novecento ha di gran lunga trasceso il campo in cui si è mosso. E a dispetto di ogni esegesi un enigma, una collezione di maschere o per meglio dire (ancora con Marcus) “una rappresentazione dell’antica maschera americana”. Come i Beatles, i soli con un impatto paragonabile al suo, non avrebbe potuto affacciarsi alla ribalta che negli anni ’60 e come loro occupa da allora una zona fuori dal tempo. Però per ragioni diverse, opposte persino. Quelli la gioventù, l’ottimismo, il futuro. Questi una voce che in sé riassumeva un secolo, e oltre.

Non creare mai niente, verrà/frainteso, non cambierà più,/ti seguirà/tutta la vita” (Advice For Geraldine On Her Miscellaneous Birthday, 1964)

Ma per vivere fuori dalla legge/devi essere onesto” (Absolutely Sweet Marie, 1966)

Annosa e oziosa questione quella se la Canzone possa essere o meno Poesia e nondimeno domanda che Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan, si è sentito rivolgere infinite volte negli anni ruggenti (seconda soltanto a “si considera un cantante di protesta?”) e con un poderoso revival nel 1997, quando lo si disse candidato al Nobel per la letteratura (quello non lo ha vinto, non ancora; un Grammy l’anno dopo per “Time Out Of Mind” e un Oscar nel 2000 per Things Have Changed invece sì: inattuale?). Tuttavia per quanto mi riguarda devo dire che ho amato Dylan prima ancora di ascoltarlo, che sono state le sue parole e non la sua musica a catturarmi. Merito di un libro di testo di terza media inusualmente ardito per i tempi (vi parlo del 1974) che fra gli esempi di poesia moderna includeva Blowin’ In The Wind. Merito soprattutto di una nutrita antologia di testi ─ Blues, ballate e canzoni, su Newton Compton, nelle fedeli ma non banali traduzioni di Stefano Rizzo e con un’introduzione di Fernanda Pivano ben centrata al di là delle molte imprecisioni ─ catturata un anno dopo su una bancarella a metà prezzo, seicento lire, meno di due albi della Bonelli e che affare che fu. Ha detto una volta Michael Stipe: “Il primo LP di Patti Smith mandò il mio cervello in frantumi e riassemblò quei frantumi in una composizione differente”. Uguale effetto fece a me la settantina abbondante di liriche (in lista persino diversi titoli all’epoca non pubblicati ufficialmente e basti questo a testimoniare la cura profusa nell’operazione) offerti dal volume che giusto in questo momento mi sto rigirando fra le mani, la copertina un po’ sciupata ma nemmeno tanto, le pagine ingiallite dai troppi anni passati. Furono una rivelazione abbacinante. Furono la mia introduzione alla letteratura beat. Furono ciò che mi spinse a leggere Verlaine, Rimbaud, Mallarmé. Ma, curiosamente, non mi indussero a cercare i dischi da cui provenivano. Per me Bob Dylan era un poeta e anzi il poeta ed è possibile che rinviassi l’appuntamento con il musicista, oltre che perché il rock’n’roll non mi aveva ancora, in una successione di ineffabili attimi, contemporaneamente salvato e rovinato la vita, per paura che il musicista al confronto mi deludesse. Però, e doveva ormai essersi fatto l’autunno del fatidico ’77, quando su RAI 2 una sera in tardo orario programmarono un suo spettacolo non mi feci trovare impreparato. Registratore a cassette davanti all’altoparlante della TV, sedetti con emozione vivissima e dita incrociate.

Il tempo confonde e annebbia anche i ricordi più belli. Per quanto abbia poi riascoltato decine, probabilmente centinaia di volte quel nastro poi perso chissà dove, rammento sì che il concerto, un estratto di tre quarti d’ora da una qualche data della “Rolling Thunder Revue” (storia di un paio di anni prima, dunque), era diviso in una parte acustica e in una elettrica, ma non quale delle due venisse prima. Anzi: non sono nemmeno sicuro che ci fosse una vera e propria metà acustica e non soltanto una Blowin’ In The Wind sistemata a fondo corsa e in duetto con quella Joan Baez che da quel dì è sempre stata per me la Gnocca Noiosa. Sia come sia, una cosa ricordo benissimo: la scossa che mi attraversò il fondo schiena al caracollare della ritmica e all’ondeggiare di elettriche in apertura di Shelter From The Storm, esperienza letteralmente orgasmica (meglio, però) accostabile per la mia all’epoca limitatissima esperienza giusto al tuonare di chitarre e tamburi di White Riot, al cambio di accordo che in “Rock’n’Roll Animal” annuncia Sweet Jane, alla fuga per tangenti cosmiche di Interstellar Overdrive. Ero fottuto e non lo sapevo ma diomio quanto ero felice.

Prosegue per altre 42.325 battute su Extraordinaire 1 – Di musiche e vite fuori dal comune. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.11, autunno 2003. Robert Allen Zimmerman compie oggi ottant’anni.

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“Highway 61 Revisited”, ovvero come fu che il rock’n’roll diventò adulto

Rivoluzione un po’ più che a metà quella inscenata nel marzo 1965 da Dylan con la pubblicazione di “Bringing It All Back Home”, 33 giri con una facciata elettrica e una acustica che però si apre con Mr. Tambourine Man, vale a dire il brano che da lì a poche settimane e però non nella versione dell’autore, bensì in quella dei Byrds, inaugurerà la stagione del folk-rock. In aprile il Nostro si reca in Gran Bretagna ed è la terza volta, ma il primo tour vero. Sul palco si offre ancora come il menestrello solitario di un tempo e non ne può più dalla noia. Al ritorno a casa riversa tutta la sua frustrazione in una canzone della quale dirà che “scriverla fu come nuotare nella lava appeso per le braccia a una betulla”. Feroce in un testo in cui si fa a pezzi una non identificata Miss Lonely, una “principessa sulla guglia”, magmatica nel tumulto di chitarre elettriche e ritmica tenuto assieme dal liquido organo di Al Kooper, Like A Rolling Stone è artisticamente e commercialmente un punto di non ritorno. Quando il 25 luglio il cantante si presenta sul palco del “Newport Folk Festival” il singolo che la contiene è secondo nella classifica statunitense dei più venduti. Che pure l’autore sia venduto, ma in altro senso, è quanto pensa buona parte di una platea progressista a parole e reazionaria nei fatti e che del farglielo sapere si fa un punto d’onore.

Soffiano santo furore e contemporaneamente un briccone senso di liberazione sull’album che viene inciso a cavallo del memorabile fiasco. Sulla copertina di “Highway 61 Revisited” Bob Dylan non è più Woody Guthrie ma James Dean, o Marlon Brando. La missione impossibile di sostenere la tensione di Like A Rolling Stone per un intero LP viene portata a termine con successo e per di più è un LP eccezionalmente lungo per gli standard dell’epoca, oltre cinquantuno minuti. La meno straordinaria delle caratteristiche del disco che più di qualunque altro fece diventare il rock’n’roll adulto e, in prospettiva, una musica anche per adulti. Nell’esatto istante in cui, con Ballad Of A Thin Man, chiariva come si fossero alzati fra le generazioni steccati invalicabili.

Pubblicato per la prima volta in Rock – 1000 dischi fondamentali, Giunti, 2012. Venerdì prossimo, 16 novembre, sarò a Filottrano (Ancona) presso la Trattoria Gallo Rosso. Lì, in un incontro alle ore 20 seguito dall’ascolto integrale dell’opera, in vinile e usando un impianto ad altissima fedeltà, racconterò estesamente la genesi di questo capolavoro.

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It was 51 years ago today (2)

Bob Dylan – Blonde On Blonde (Columbia, 1966)

Inciso a Nashville durante le pause concesse da un tour mondiale e perlopiù con navigati musicisti del posto (della Band c’è soltanto Robbie Robertson; Al Kooper fa il regista), il primo album doppio della storia del rock è la versione estesa, raffinata e pacificata di “Highway 61 Revisited”. Impressionantemente cresciuto è un eclettismo che consente di presentarsi con la marcetta di gusto felliniano, che trasmuta in vaudeville western, di Rainy Day Women # 12 & 35 e congedarsi con gli undici minuti filati della sognante, favolistica Sad Eyed Lady Of The Lowlands (un unico brano a occupare una facciata: nessuno aveva mai osato). In mezzo c’è parecchio blues (affilato in Pledging My Time, dinoccolato in Leopard-Skin Pill-Box Hat, striato di jazz e country in Temporary Like Achilles), ci sono shuffle chiesastici (Memphis Blues Again) e valzerini (4th Time Around), c’è il primo country-punk di sempre (Jason & The Scorchers non dovranno eccedere in foga per fare loro Absolutely Sweet Marie). Più di tutto, ci sono le gentili allucinazioni di Visions Of Johanna, una memorabilissima canzone d’amore come I Want You, romantica e spumeggiante, e la canzone definitiva di non-amore: Just Like A Woman.

Pubblicato per la prima volta in Rock – 1000 dischi fondamentali, Giunti 2012. A oggi sono passati esattamente cinquantun anni dall’uscita di  “Blonde On Blonde”.

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Highway 25 Revisited

Bob Dylan compie oggi settantacinque anni. Quando ancora gli mancava qualche giorno a compierne venticinque combinò questa roba qui.

Bob Dylan - Live 1966 The Royal Albert Hall Concert

Il 1965 non è ancora finito, non sono trascorsi che mille giorni dall’esordio acustico e volto all’indietro e il ventiquattrenne Bob Dylan ha già segnato in profondità musica e cultura del Novecento con sei album in cui ha interpretato e anticipato i sentimenti di una generazione. Con gli ultimi due ha trovato un nuovo pubblico e fatto infuriare il vecchio. Per la neonata nazione del rock è un nuovo eroe che sa produrre musica orecchiabile come quella dei Beatles, maleducata come quella degli Stones, sexy come una volta Presley e negra e bianca nel contempo. Per il declinante movimento folk è viceversa un traditore che ha venduto per i trenta denari di un piazzamento in classifica la purezza della tradizione, che dopo avere frequentato la canzone politica l’ha accantonata. E via via che si fa strada la consapevolezza che difficilmente tornerà indietro le critiche della prima ora, aspre ma in una certa misura affettuose, dispiaciute, si trasformano in linciaggio. Anche se in alcuni fra i tanti che ululano il loro disprezzo si insinua il dubbio che un artista abbia in fin dei conti il diritto di crescere e cambiare, che nell’evoluzione del Nostro ci sia un’intima coerenza, che stia tradendo la lettera della tradizione folk per rispettarne lo spirito e mantenerla viva, che magari bisognerebbe ascoltare le sue canzoni nuove con orecchie nuove. È in ogni caso come se dovesse andare alla guerra che Zimmie prepara il primo tour mondiale. Truppe scelte non quanti lo hanno affiancato in studio in “Highway 61 Revisited” (fra costoro Al Kooper e Michael Bloomfield) ma nuovi compagni che promettono di avere le spalle larghe. Sono Robbie Robertson (chitarra), Garth Hudson e Richard Manuel (tastiere), Rick Danko (basso) e Levon Helm (batteria e l’unico statunitense; gli altri sono canadesi) e hanno fatto durissima gavetta accompagnando Ronnie Hawkins, rock’n’roller di inesistente originalità ma eccellente mestiere e buon sentimento. È un incontro di spiriti affini e il principio di una collaborazione che darà sapidi frutti per oltre dieci anni. Loro sono The Hawks, ma da qui in poi saranno The Band.

Nonostante la stampa musicale come oggi la si intende ancora non esista, nonostante l’era della comunicazione globale e istantanea sia distante fantascientifici eoni, è come se fra gli appassionati ci fosse un passaparola intercontinentale che richiede dappertutto il medesimo comportamento idiota. Ovunque vadano – Stati Uniti, Australia, Svezia, Danimarca, Irlanda, Gran Bretagna, Francia e poi di nuovo Gran Bretagna – Bob Dylan e i ragazzi ricevono la stessa accoglienza. Platee in rapito silenzio nella prima metà dello spettacolo, che vede Dylan da solo sul palco, aspre contestazioni che sfociano talvolta in disordini quando compare il gruppo e la musica si fa elettrica. Helm a un certo punto non ne può più di farsi insultare e alza bandiera bianca. Sostituito il caduto con Mickey Jones, la campagna continua. Eternato in “Bob Dylan Live 1966”, quarto tomo della “Bootleg Series”, il singolo incidente che fissa per sempre nella storia del rock la guerrigliera tournée accade alla Free Trade Hall di Manchester il 17 maggio 1966. Poco prima che parta l’ultimo brano una voce dalla platea urla “Giuda!”. “Non ti credo”, sibila Dylan stizzito. “Sei un bugiardo”, rantola malevolo. E poi si gira verso la Band e intima “Play fuckin’ LOUD”. Attaccano Like A Rolling Stone ed è come se le trombe suonassero di nuovo sotto Gerico e le mura crollassero.

Sottotitolato “The ‘Royal Albert Hall’ Concert” (le virgolette rimarcano l’erronea datazione perpetuata da innumerevoli dischi pirata prima della pubblicazione ufficiale del concerto, nel 1998), “Live 1966” è un documento eccezionale sia sotto il profilo storico che sotto quello musicale. Per quanto attiene il primo aspetto testimonia la schizofrenica reazione del pubblico, attento e immoto durante i tre quarti d’ora acustici, contestatario a colpi di sussurri e grida, e battiti di mani in moviola, nei tre quarti d’ora elettrici. Ma dov’erano quelli che avevano comprato Like A Rolling Stone e “Highway 61 Revisited”? Qualcuno c’era, naturalmente, e proprio a motivo di ciò diverse volte esplosero battibecchi e al peggio risse fra le fazioni. Musicalmente, forte oltretutto di una registrazione sorprendentemente buona per l’epoca, è uno degli album dal vivo più notevoli che mai il rock abbia offerto, di un’intensità rabbrividente nella prima parte, di un’impetuosa eleganza e una compattezza che esaltano in una seconda in cui perfidamente Dylan infila (quasi a dire: vedete? non sono poi così cambiato) letture amplificate di pezzi in origine acustici: I Don’t Believe You da “Another Side Of”, One Too Many Mornings da “The Times They Are A-Changin’”, addirittura Baby, Let Me Follow You Down dal debutto. È un’esibizione di oltre un’ora e mezza e pure in questo Dylan era avanti a tutti, considerato che al tempo i concerti erano festival itineranti in cui al nome di maggior richiamo venivano concessi al più quaranta minuti. Lo spettacolo rock come lo si è inteso da quei giorni fu inventato dal nostro uomo. Che visto che c’èra da lì a breve pubblicherà anche il primo album doppio della storia del genere, “Blonde On Blonde”.

Non mi risulta che di quest’ultimo esista una versione in nera, pesante, lucente plastica per audiofili, o perlomeno non è disponibile attualmente. Del “Live 1966” è viceversa fresca di stampa una meravigliosa edizione Classic Records nel solco di quelle già riservate ai volumi cinque e sei della “Bootleg Series”: su un disco il set acustico, sull’altro quello elettrico e i due LP in un robusto box contenente anche un sontuoso libro di una quarantina di pagine. Vinile silenziosissimo ed è un sostanziale contributo all’illusione creata da un’incisione (lo ribadisco) sorprendente di trovarsi proprio lì, in un teatro di Manchester, quarant’anni fa.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.273, novembre 2006.

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Quando i tempi stavano cambiando (Bob Dylan, nel 1964)

Bob Dylan 1964

Nel luglio 1963, a due mesi dalla pubblicazione del suo secondo 33 giri, Bob Dylan diventa personaggio, da newyorkese che era, nazionale comparendo per la prima volta al “Newport Folk Festival”. A farne una stella è però soprattutto la melensa lettura di Blowin’ In The Wind che il trio Peter, Paul & Mary porta al numero due nella graduatoria dei singoli. Se ne giova “The Frewheelin’”, che anche a causa del ritiro della prima stampa da parte di una Columbia innervositasi per la presenza in scaletta di un polemicissimo Talkin’ John Birch Paranoid Blues non aveva fino a quel punto venduto granché, e sale adesso in classifica fino a sfiorare i Top 20. Si parte per il primo tour, significativamente per università, e con lui c’è Joan Baez, il che vuol dire discreto baccano mediatico. Anno ancora più intenso però il 1964. In gennaio esce “The Times They Are A-Changin’” ed è autentica chiamata a raccolta di tribù quella che compie la canzone che lo battezza e lo apre, con versi di una forza inaudita che da profezia si fanno, nel preciso istante in cui per la prima volta vibrano nell’aria, cronaca. Nulla potrà mai più essere lo stesso, dopo, e il Dylan meditabondo e corrucciato in copertina ben lo sa. È e resterà il suo album più politico, colmo di invettive rabbiose (Ballad Of Hollis Brown, With God On Our Side, Only A Pawn In Their Game, The Lonesome Death Of Hattie Carroll) cui è la pura forza del furore a donare l’incisività mancante a certe canzoni cronachistiche dei dischi prima. Immagini bibliche balenano un po’ ovunque incupendo ulteriormente un clima che nemmeno le incursioni nel privato rischiarano: l’irrequietezza di One Too Many Mornings non può essere placata dall’amore e Restless Farewell è un resoconto di fallimenti. Con l’unica eccezione di When The Ship Comes In, vivace e incalzante, anche musicalmente “The Times They Are A-Changin’” è corrusco e ricercatamente austero, lontano dall’orecchiabilità di molta parte del predecessore. Come la gioventù di cui si è trovato a esprimere i fino a quel punto inespressi sentimenti, Dylan sa che una rivoluzione è alle porte. Contrariamente a essa, non si illude che sarà una passeggiata. E probabilmente già ha capito che è un glorioso fallimento il migliore approdo in cui si possa confidare.

In agosto viene pubblicato “Another Side Of Bob Dylan” e di rado titolo fu tanto significativo. Personalmente la vedo così: espulsi i veleni che aveva nel sangue, in tal modo depurato e alleggerito il nostro eroe si affaccia sull’alba di un nuovo giorno. La dice lunga al riguardo l’iniziale All I Really Want To Do, in cui con voce garrula su base birbona profferisce che “tutto quello che voglio da te,/bambina, è esserti amico”. C’è in scaletta una seconda, torrenziale e scherzosa (la prima su “The Freewheelin’”) I Shall Be Free (numero 10; e le altre otto?). In Black Crow Blues rintocca un pianoforte rock’n’roll ed è un presagio, Spanish Harlem Incident inventa lo Springsteen di “Greetings From Asbury Park”, To Ramona è una serenata con piacevoli sfumature latine, Motorpsycho Nitemare sarà anche paranoica ma come un Lenny Bruce di buon’umore, I Don’t Believe You ha un gusto smaccatamente lennoniano che rende ufficiale la nascita di una società di mutua ammirazione (I Should Have Known Better sarà l’immediata risposta). Ma sono i quattro brani che non ho ancora citato la chiave di volta dell’album e se Chimes Of Freedom, malinconica e gioiosa insieme, di liturgico afflato e con una forza immaginifica che mozza il fiato, è mirabile conclusione della parabola di Blowing In The Wind tutto il resto è un chiudersi porte alle spalle e incamminarsi verso il futuro senza rimpianti, giusto con quel filo di nostalgia che umanamente ci sta. Così, Ballad In Plain D è l’ultima e tenerissima missiva d’amore a quella Suze Rotolo sottobraccio al nostro eroe sul davanti di “The Freewheelin’” (copertina epocale quanto l’album stesso) e My Back Pages un annuncio di cambiamenti in corso e a venire, reso inequivocabile da un ritornello che constata che “ero molto più vecchio allora/sono molto più giovane adesso”. E poi, proprio alla fine, It Ain’t Me Babe. Dylan canta “vattene dalla mia finestra/vattene alla velocità che preferisci/non sono io l’uomo che vuoi, bambina,/non sono io l’uomo che ti serve” e sarà pur vero che è un altro congedo sentimentale, dalla Baez questo, ma ridurlo al saluto a un’amante sarebbe miopia confinante con la cecità: è alla scena folk che lo ha designato a leader che il figlio di Duluth sta dicendo addio. Non con irriconoscenza. Se l’ambito di provenienza gli sta stretto non è perché la sua popolarità è cresciuta immensamente, ben oltre i piazzamenti in classifica (“The Times They Are A-Changin’” ventesimo, “Another Side” quarantatreesimo; però rispettivamente numero quattro e otto in Gran Bretagna), ma perché ne scorge i limiti, in primis l’immobilismo che lo rende lontanissimo da quel proletariato che ambirebbe a rappresentare e incapace di farsi rimodellare dai fermenti della cultura giovanile in sboccio. Più conservatore – in pensieri, parole e note – dei conservatori che vorrebbe combattere. E a ogni buon conto il giovanotto (non ha che ventitré anni!) è ambizioso e gli brucia che i Beatles vendano così tanto più di lui, bruciore che da personale si fa potremmo dire patriottico notando come i complessi britannici abbiano improvvisamente occupato la ribalta americana suonando musiche che l’America ha inventato, il blues e il rock’n’roll. E perché non riprendersele? Cosa che farà dal marzo ’65, da un 33 giri dal titolo una volta ancora programmatico: “Bringing It All Back Home”, “riportando tutto a casa”. Salto quantico completato pochi mesi dopo ancora con “Highway 61 Revisited”.

Se volete ascoltare quella Like A Rolling Stone che lo inaugura, magmatica e travolgente, come mai l’avete udita lo spassionato consiglio è di portarvi a casa la strepitosa (ma sfortunatamente non proprio economica) riedizione approntata un paio di anni fa dalla Mobile Fidelity e ancora in catalogo. Un po’ per volta la casa di Chicago sta ristampando tutto il Dylan dei ’60 nel formato doppio 12” (“Blonde On Blonde” è diventato naturalmente un triplo) da ascoltare a 45 giri. Se la cosa ha naturalmente un senso, in termini di resa sonora straordinariamente migliorata, per i lavori rock suscita qualche perplessità che si sia deciso di procedere allo stesso modo – l’ultima emissione comprende l’omonimo debutto del ’62 e, appunto, “The Times They Are A-Changin’” – per quelli fondamentalmente per sole voci, chitarra e armonica. Ciò detto, ho qui Zimmie che me le suona e me le canta in soggiorno e un certo effetto lo fa.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.363, maggio 2015.

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Time Passes Slowly (per i settantaquattro anni di Bob Dylan)

Bob Dylan - New Morning

Se ne parla da chissà quanto tempo – decenni – e a questo punto, visto che l’uomo è ancora del tutto vivo e ben più che vegeto (imminente l’uscita di un nuovo album) ma gli anni cominciano a essere davvero tanti (settantatré), sarebbe il caso che si sbrigassero a darglielo, a Bob Dylan, ’sto benedetto Nobel per la letteratura. Quando sarà, chissà se con la pazienza e la saggezza portategli in dote dalla vecchiaia lo riceverà con gratitudine o viceversa, essendo pur sempre Dylan, lo accoglierà con scetticismo, sarcasmo, quasi fastidio. Se farà storie per mettersi in ghingheri per la cerimonia come quando nel 1970 la Princeton University gli conferiva una laurea honoris causa e lui, recatosi di malavoglia a ritirarla, rifiutava stizzito di indossare i paramenti accademici. E a chi gli faceva notare che se non si vestiva adeguatamente il prestigioso riconoscimento sarebbe stato cancellato replicava beffardo che non aveva chiesto niente, lui. Da lì a breve l’episodio gli avrebbe fornito l’ispirazione per il testo di Day Of The Locusts, una delle dodici canzoni incluse (in capo a una lavorazione problematicissima che fece giurare ad Al Kooper, produttore delle prime sedute d’incisione, poi accantonate, che mai più avrebbe avuto a che fare con un datore di lavoro tanto lunatico) in “New Morning”.

Ecco, dipendesse da me io a Zimmie il Nobel per la letteratura più che per un sacco di altri titoli strafamosi contenuti in dischi ben più celebrati lo darei per Day Of The Locusts, per Time Passes Slowly, per If Dogs Run Free, per Three Angels, tutte canzoni incluse in “New Morning” delle quali mi innamoravo, in un giorno lontanissimo della mia adolescenza, leggendone i testi tradotti in una bella antologia (introduzione di Fernanda Pivano) edita da Newton Compton. Mi piaceva quella lingua singolarmente asciutta, quell’economia se vogliamo così poco dylaniana, ed è forse a ragione di ciò che da sempre colloco “New Morning” (che non avrò occasione di ascoltare per la prima volta che diversi anni dopo) in una posizione più alta, nella produzione del Nostro, di quella dove dovrebbe stare giudicandone solo i meriti musicali. Non sono insommma gli spartiti, che svagatamente passeggiano fra blues (Time Passes Slowly, One More Weekend) e Stax (Went To See The Gypsy), valzer (Winterlude) e carabattole jazz (If Dogs Run Free), talking-gospel (Three Angels) e litanie lunari (Father Of The Night), e quasi mai sul serio conquistano, al più incuriosiscono, a farne uno degli album maggiori fra i minori di Dylan. Per quanto pure quelli dovessero parere al tempo oro colato se raffrontati al campionario di sciatterie insensate esposto pochi mesi prima nell’orripillante, e per colmo di tragedia pure doppio, “Self Portrait”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.359, gennaio 2015.

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Bob Dylan – Shadows In The Night (Columbia)

Bob Dylan - Shadows In The Night

Sei Bob Dylan. Hai settantatré anni e hai plasmato il mondo che tu stesso ancora abiti come nessun singolo autore di canzoni prima e dopo di te. Hai rivoluzionato il folk, il rock, più in generale la popular music in modi che erano semplicemente inauditi. Icona di incomparabile potenza, hai segnato quegli anni ’60 che ancora ci segnano come forse soltanto i Beatles. E anche una volta venuta meno quella centralità culturale hai seguitato, per quanto più saltuariamente, a dispensare illuminazioni di immenso. È da oltre mezzo secolo che sei BOB DYLAN. Il tuo catalogo di classici non ha eguali, non si contano coloro che hai influenzato e diversi dei quali a loro volta sono assurti alla dignità di maestri, con annesso codazzo di discepoli. Sei Bob Dylan. Hai settantatré anni e da lungi ti sei guadagnato il diritto che è un privilegio di fare ciò che in realtà già facevi da giovane: quello che ti pare. Tipo portare avanti (fino all’ultimo?) un “Never Ending Tour” nel quale i classici di cui sopra ti diverti spesso a smontarli e riassemblarli nei modi più implausibili e, per molti, fastidiosi. Oppure pubblicare una collezione di brani tratti dal repertorio di Frank Sinatra. Tu hai il diritto di farlo, noi quello di sbuffare. Rassegnati.

Ci ho provato a farmi piacere “Shadows In The Night”, ci ho provato davvero, al ritmo di minimo un passaggio a settimana e già sono due mesi che è uscito. Ma niente. Ogni volta il blando interesse indotto dalle prime battute di I’m A Fool To Want You svanisce in breve, lasciando il posto a un languore inane se va bene o se no a una noia un po’ stizzita. Più che in altre occasioni giustifico il florilegio di superlativi immancabile in questo secolo, che pure non gli appartiene, ogni qualvolta Sua Bobbitudine fa discendere il Verbo su noi comuni mortali. Intendo cosa volesse fare Lui e capisco che faccia risuonare nella critica anglo-americana corde particolari. Colgo tanto l’antica fascinazione di Dylan per Ol’ Blue Eyes (la condivido pure, in parte) che la vena testamentaria che pervade queste ballate confidenziali, quel sapore di autunno inoltrato in cui è implicito che la primavera si è inesorabilmente ridotta a disapparente ricordo, non più promessa di un qualcosa che tornerà. Saranno pure canzoni senza tempo ma soprattutto sono canzoni che sanno che di tempo non ce n’è più. E anche su quanto segue sono d’accordo: che mai mai mai mai mai in vita sua il nostro uomo aveva cantato così bene e che “Shadows In The Night” è uno dei suoi album meglio prodotti di sempre, se non addirittura, in tal senso, il migliore. Paradossale a dirsi di un disco inciso sostanzialmente in diretta, gli strumenti in studio ad accompagnare la voce senza sovraincisione alcuna.

Tutto estremamente suggestivo, sulla carta. È la realizzazione a non persuadermi, con il suo iterare dal principio alla fine sempre lo stesso tempo, la stessa atmosfera esangue, lo stesso danzare in moviola della pedal steel. Il basso in punta di dita, sullo sfondo una batteria fantasmatica, qui e là un esalare di ottoni. Non si swinga mai in questa notte dove tutte le vacche sono nere ed è nella scelta, che non mi azzarderei a dire incapacità, dell’Omaggiante di misurarsi appieno con la complessità dell’Omaggiato che risiede il fallimento di una scommessa da applaudire solo in quanto tale. Secondo me.

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Il rock diversamente elettrico di “Blood On The Tracks” (della prima grande resurrezione di Bob Dylan)

Bob Dylan - Blood On The Tracks

Sorta di buco nero, di terra di nessuno e del nulla in una vicenda artistica che ha a oggi superato il mezzo secolo, i primi anni ’70 risultano paradossalmente un’età aurea per Bob Dylan se è ai tabulati delle vendite che si guarda. Nel ’70 quella presa per i fondelli all’universo mondo che è “Self Portrait” è quarto negli USA e persino primo in Gran Bretagna e l’anno dopo il secondo volume dei “Greatest Hits” va via come il pane. Comprensibile, dando un’occhiata al programma, laddove lascia invece piuttosto sbalorditi che il pubblico premi nel ’73 un “Dylan” raffazzonato dalla Columbia con una manciata di scarti per vendicarsi dell’essere stata tradita per la Asylum e, l’anno dopo, quello che resterà l’unico album in studio per la Asylum stessa, il veramente mediocre (eccezion fatta per una grande canzone come Going, Going, Gone e una immortale come Forever Young) “Planet Waves”. Addirittura il primo LP del Nostro ad andare al numero uno negli Stati Uniti. Insomma, della prima metà dei ’70 dell’artista che come nessuno plasmò il decennio precedente dopo “New Morning” e fino a un certo punto non salvi che tre tracce (essendo la terza Knockin’ On Heaven’s Door, dalla colonna sonora di “Pat Garrett & Billy The Kid”) e un doppio dal vivo (il classico “Before The Flood”, con The Band). L’uomo nato Robert Allen Zimmerman sta diventando irrilevante per la contemporaneità, elemento residuale di un’epoca che (fa strano dirlo) allora si percepisce più lontana di quanto non sembri a noi. Dylan non sarà mai più al centro della scena culturale e tuttavia proprio il 1975 è testimone della sua prima grande resurrezione. Ce ne saranno altre forse pure più sorprendenti, ma artisticamente così felici no.

Sono una riappacificazione e un divorzio ad andare in scena con e in “Blood On The Tracks”. La prima con la Columbia, il secondo dalla moglie Sara e ha un bel dire Sua Bobbitudine che le dieci canzoni qui contenute nulla hanno a che vedere con la sua vita sentimentale, ha un bello scrivere (nel 2004, in Chronicles, Vol.1) che furono ispirate dai racconti brevi di Anton Chekhov. Nemmeno serve a smentirlo che sia lo stesso figlio Jakob a inquadrare il disco come una collezione di conversazioni famigliari. Basta e avanza l’evidenza di un lavoro intimo e confessionale (per quanto in maniera dylaniana e dunque ellittica) come mai prima e dopo ed è rivelatore il titolo: sangue nei solchi. Fenomenale ritorno in quota dopo gli anni modesti di cui si è detto, il disco vale come affresco complessivo di rock diversamente elettrico rispetto ai furori giovanili di una Like A Rolling Stone; in ogni senso maturo e classico. Il che non toglie che diversi brani si staglino con perentorietà nell’emotivamente densissimo programma, da una Tangled Up In Blue di spumeggiante urgenza a una Simple Twist Of Fate viceversa struggente, dalla serenata spagnoleggiante You’re A Big Girl Now a una declamatoria Idiot Wind, alla torrenziale marcetta Lily, Rosemary And The Jack Of Hearts, a un’affilata e ipnotica Shelter From The Storm in attesa di trasformarsi, dal vivo, in uno dei più incalzanti rock’n’roll dello sterminato catalogo dell’autore. “Blood On The Tracks” risulterà fino a quel punto il suo più grande successo ed è da allora e all’unanimità considerato il suo album da avere se, post-’60, se ne vuole avere uno solo.

Notevole questa riedizione Original Master Recording dalla dinamica apprezzabile a dispetto di una durata oltre i venticinque minuti per lato e dai cui… ahem… solchi emergono dettagli che prima andavano persi: in un disco che credevo di conoscere a memoria mai avevo percepito così nitidamente – per dire – certe linee di basso.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 350, aprile 2014.

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Il pozzo di San Patrizio Dylan

Se ne parla già da alcune settimane un po’ ovunque, quando alla pubblicazione dei “Complete Basement Tapes” manca ancora, a oggi, un mese esatto. Insomma: uno degli album più genuinamente attesi del 2014 è un box di sei CD che espande a dismisura quella che all’altezza della prima uscita, nel 1974, era già una raccolta (allora “solo” un doppio LP) di materiali d’epoca, con dentro incisioni, ufficialmente inedite ma ampiamente bootlegate in precedenza, risalenti al 1967. E mi pare che ciò sia estremamente significativo in due sensi: per come fa sospettare che nel 2014 di musica nuova interessante ce ne sia in giro pochina, se è vero come è vero che l’usato sicuro tira come non mai; e per l’ennesima dimostrazione che si sta per dare di come quello degli archivi dylaniani sia un pozzo apparentemente senza fondo, in cui a ventitré anni dalla pubblicazione del primo, triplo e a suo modo epocale volume della “Bootleg Series”, ancora si possono pescare materiali degnissimi di nota. Giacché a lasciare stupefatti quasi più della quantità è la qualità.

Poi magari ogni tanto alla Columbia scappa la mano. Forse non era il caso di approntare come decimo tomo della collana di cui sopra (quello dedicato ai “Basement Tapes” sarà l’undicesimo) “Another Self Portrait”. Quando viceversa sarebbe stato forse il caso di non condannare alla clandestinità nel momento stesso in cui la si mandava (si fa per dire) nei negozi questa quadrupla “50th Anniversary Collection” di cui a suo tempo riferivo su “Blow Up”.

Bob Dylan - The 50th Anniversary Collection

È una storia surreale e da raccontare assolutamente per come esemplifica, in maniera plastica, la totale incomprensione che l’industria discografica – ciò che ne resta – seguita ad avere di come siano cambiati i meccanismi di diffusione e consumo della musica. Negli ultimi giorni del 2012 Sony Music ha pubblicato un cofanetto quadruplo con registrazioni di Dylan del 1962. Moltissime sono outtake di “The Frewheelin’” (occupano da sole i primi due dischetti), altre vengono dai cosiddetti “Mackenzie Home Tapes” e c’è infine un bel gruzzoletto di incisioni live. Nulla di che eccitarsi per chi dell’uomo di Duluth possiede magari giusto i classici, o anche più o meno intera la produzione “ufficiale” e nondimeno non intende fare della sua esegesi un impiego a tempo pieno. Per i cultori e gli studiosi più accaniti, al contrario, un’altra cornucopia di tesori di cui bearsi dopo i nove diversamente voluminosi volumi delle “Bootleg Series”. Tutto bene, tutto fantastico per questi ultimi, non fosse che la diffusione di “The 50th Anniversary Collection”, quattro CD-R (avete letto bene) in un boxino decisamente spartano, è stata a dir poco clandestina, solo in Europa e in un centinaio di esemplari (avete di nuovo letto bene) disseminati in una manciata di negozi fra Regno Unito, Francia, Germania e Svezia. L’uscita ovviamente non è stata pubblicizzata in alcun modo, ma altrettanto ovviamente la notizia si è sparsa in fretta e il risultato è che questa rarità istantanea e assoluta circola nel momento in cui scrivo, fra eBay e Discogs, a prezzi variabili fra i mille e i quattromila euro (e ancora una volta avete letto bene). Ma c’è un senso in tutto ciò? Per la Sony a quanto pare sì.

Essendo cambiate recentemente le leggi europee sul copyright, è successo che la copertura è passata da cinquanta a settant’anni per le registrazioni dal ’63 in poi, mentre per quelle degli anni immediatamente precedenti vale il principio “usale o perdile”. Avendo in qualche modo pubblicato adesso queste ottantasei tracce, la casa discografica storica di Dylan si è assicurata il diritto di riutilizzarle da qui al 2032, impedendo che altri potessero accedervi con ogni crisma di legalità. Va bene, un senso – un po’ distorto, giacché stiamo parlando di materiali che interessano comunque un pubblico non certo di massa – c’è, ma perché in cento copie? Perché non come decimo tomo delle “Bootleg Series”? L’ineffabile risposta è stata: per non danneggiare le vendite di “Tempest”. Eh? Scusa?? Come??? A parte i prezzi folli richiesti per una copia fisica sul mercato dell’usato, la seconda inevitabile conseguenza di questa strategia demenziale è stata che, se ci tenete ad ascoltare “The 50th Anniversary Collection”, impiegherete pochi minuti a procurarvene aggratis una copia liquida. E quanto ci vorrà prima che i taroccatori si mettano all’opera? Quando la Sony vorrà ripubblicare queste incisioni, saranno già nelle case di tutti quelli che potevano essere interessati ad ascoltarle. Complimenti.

Dovrei riferirvi della musica adesso, cercando di essere obiettivo per quanto può esserlo uno che della collana di rarità ufficiali più volte menzionata ha nei propri scaffali l’integrale. Il massimo dell’obiettività cui posso giungere è concedere che, per reggere le versioni multiple di uno stesso pezzo (per esemplificare: cinque della sola Sally Gal che a suo tempo fu scartata e altrettante di Corrina, Corrina, per non dire di sette – ! – Mixed Up Confusion) di uno che non era esattamente John Coltrane, un po’ malati bisogna esserlo. Di una porzione rilevante quantomeno del secondo CD qualunque persona sana di mente può fare a meno. E tuttavia vorrei osservare – pacatamente, sommessamente – che recuperando tutto ciò che di Bob Dylan aveva in forma compiuta negli archivi ed era datato ’62 la Columbia ha scavato alcune gemme cui qualunque appassionato medio di rock dovrebbe gettare l’orecchio, una volta almeno. Per constatare ad esempio che ben tre anni prima della contestatissima svolta elettrica il principale responsabile del folk revival non si faceva nessun problema a suonare rock’n’roll, accompagnato da un gruppo rock’n’roll. Godetevelo alle prese, a più riprese, con la canzone che inventò Elvis, That’s All Right Mama, e sappiatemi dire. Ascoltate Rocks And Gravels e provate a negare che, esclusa come fu da “The Freewheelin’”, avrebbe potuto essere recuperata su “Bringing It All Back Home”.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.177, febbraio 2013.

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Quando Bob Dylan si riprese il rock’n’roll

Bob Dylan - Live 1975 - The Rolling Thunder Revue

Sfoglio e risfoglio il libro (non il libretto, no; libretti sono quelli dei CD, questo è un sontuoso 30,5 x 31 centimetri di sessantaquattro pagine in patinata quadricromia) e a un certo punto, di fronte a un bianco e nero di abbacinante nitidezza, mi blocco, incantato e pure un po’ commosso. Sulla destra di chi guarda Joan Baez e Bob Dylan dividono un microfono, lui con a tracolla un’acustica che sta suonando, lei che tiene la sua per il manico con la destra. Mentre l’altra mano è poggiata su una spalla dell’amico tradendo l’intimità di coloro che furono più che amici. E forse vaneggio, ma nell’atteggiamento della Baez, nella postura come nello sguardo, mi sembra di cogliere un quieto, affettuoso orgoglio da mamma che stringe a sé il figliolo che ce l’ha fatta, che sì, ha conquistato il mondo. E improvvisamente, a un’eternità dalla prima volta che mi imbattei in lei (non molto tempo dopo che questa foto venne scattata), vengo mosso a simpatia verso un personaggio e un’artista che non ho mai amato particolarmente. A proposito di mamme! Chi sarà mai la sorridente e canuta signora sorpresa sulla sinistra nell’atto di battere le mani? Esatto, diletto lettore, è colei che ci ha regalato un pargolo di nome Robert Zimmerman senza il quale le nostre vite sarebbero state parecchio diverse, o come minimo la mia. Era il 1975 e prima di allora a raccontare che l’Iconoclasta aveva invitato la madre a raggiungerlo sulla ribalta in pochi ci avrebbero creduto senza prove. Ma a nove anni dal tour più controverso di sempre e dall’incidente in moto che divise in due il decennio che più di chiunque (a parte i Beatles; forse) fu dell’uomo di Duluth, e a uno dalla campagna concertistica con The Band che gli aveva fatto riacquistare confidenza con il palco, Bob Dylan viveva la sua stagione più serena, colma di entusiasmi e avventurose voglie. Si stava riprendendo la vita. Si stava riprendendo il rock’n’roll.

Di tutti i tour dylaniani, che si stenta a numerare e distinguere ormai dacché nell’ultimo quarto di secolo il nostro eroe ha trascorso più giorni “on the road” che a casa, non vi è dubbio che dal punto di vista storico il più rilevante resti quello del 1966, documentato discograficamente soltanto nel 1998 dallo squassante ed epico “The ‘Royal Albert Hall’ Concert”, volume numero quattro della collana “The Bootleg Series”. Ma se si fa la tara a un valore aggiunto dato dal clamore suscitato dalla svolta elettrica di colui che era stato il cantante folk per antonomasia, dalle furibonde contestazioni che provocò e dagli imitatori che a frotte si accodarono come di consueto (tuttavia di una razza affatto diversa dai precedenti), è l’inanellarsi di date a partire dal 30 ottobre ’75, subito circonfuse da un alone di Mito, a conquistare il centro del proscenio e di ogni seria trattazione della materia. Mai in precedenza la musica di Dylan era stata così ricca di influenze e suggestioni, perfetto incrocio stilistico perfettamente iscritto in una-dieci-cento tradizioni – il folk, il country, il blues, il gospel, il soul, il rhythm’n’blues – senza più voglia di rivoluzioni e tendente anzi a un’Arcadia sulla cui soglia però perennemente si arresta: antica, ma in qualche modo nuova. Ancora. Affresco che “Blonde On Blonde” per primo aveva cominciato a dipingere e che nel sabbatico ritiro di Woodstock aveva acquisito cromatismi che non sono bastati libri interi (lo straordinario Invisible Republic di Greil Marcus) a farne compiuta esegesi. Alla favolosa tavolozza del Dylan 1975 aggiunge ulteriore freschezza, un tocco di imprevidibilità da improvvisazione jazz, che sia affidata alla zingaresca carovana della Rolling Thunder Revue: via di mezzo fra il “medicine show” e la commedia dell’arte che, procedendo sulle strade d’America, a ogni tappa carica e scarica musici, poeti e scapigliata umanità varia, da Roger McGuinn ad Allen Ginsberg, da Mick Ronson a T-Bone Burnett, da Sam Shepard a Leonard Cohen, da Joni Mitchell a Kinky Friedman, al pugile nero ingiustamente detenuto Rubin Carter, che con un bellissimo gesto di resistenza civile Bob Dylan idealmente fa salire a bordo rendendogli visita in carcere. Di tutto ciò non trasmetteva che un’infima frazione, fino a ieri l’altro, “Hard Rain”, live singolo al quale sono  affezionatissimo per ragioni mie ma che oggettivamente proprio memorabile non è.

Ma nel 2002 la serie dei bootleg ufficiali è giunta al tomo quinto ed ecco: “Live 1975: The Rolling Thunder Revue”, magia oltre la quale potrebbe esserci solo la macchina del tempo. Doppio compact. Oppure, da poche settimane e in troppo poche copie (regolatevi!), un triplo vinile formato 12” per seicento complessivi grammi (più un 7” blu marino con versioni alternative di Tangled Up In Blue e Isis), racchiuso in un box di cartone di solidità, pesantezza, raffinatezza western impressionanti. E dentro ancora: il libro di cui sopra, poster e posterini e addirittura (per la serie: esageriamo) un biglietto fedelmente riprodotto. Oggetto costosissimo ma che merita ogni sudato centesimo che ci investirete. Perdonatemi se per una volta farò la figura del luddista, ma mi pare sia questo l’unico modo davvero “giusto” (fatta salva una registrazione di nitidezza invero rimarchevole per l’epoca e le circostanze) per godere di una spiazzantemente caraibica It Ain’t Me, Babe e di una A Hard Rain’s A-Gonna Fall trasformata in martellante blues chez Chicago, di una Mr. Tambourine Man restituita all’asciuttezza originale e del birichino country’n’roll di Mama, You Been On My Mind, dell’epicità distesa di The Water Is Wide e di quella sinuosa e sferzante di Hurricane.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.243, febbraio 2004.

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