Totalizzano cinquantasette anni in tre Posdnous, Trugoy The Dove e P.A. Pasemaster Mase quando, con il fondamentale apporto dello stetsasonico Prince Paul, mettono mano a “3 Feet High And Rising”. Vengono da Amityville, cittadina nei pressi di New York resa famosa dieci anni prima da una pellicola culto per ogni amante del cinema horror, ma nel loro esordio (su Tommy Boy, 1989) non disegnano gli scenari gotici che nell’hip hop faranno irruzione solo con il Wu-Tang Clan. Tutt’altro. La copertina tempestata di fiori abbozzati con tratto à la Haring e il vecchio simbolo hippie del “fate l’amore, non la guerra” iscritto nella “o” di “Soul” annunciano che, mentre a Los Angeles gli N.W.A si apprestano a fare conoscere al mondo come vanno le cose a Compton e da New York la CNN del Nemico Pubblico trasmette comunicati guerreschi, altra musica nera è pronta, vent’anni dopo la funkadelia, a mandare giù e a far salire su zuccherini all’acido. Senza flirt con il rock però.
Eppure è proprio il pubblico bianco che si entusiasma di più, facendosi per la prima volta conquistare da una posse senza che questa ricorra ai riff dell’hard (i Run-DMC) o a posture clashiane (i Public Enemy). Piacciono il passo flemmatico, l’ironia, i campionamenti assurdi (la lezione di francese di Transmitting Live From Mars), le melodie insidiose anche quando oblique ma a volte talmente semplici (The Magic Number) da rasentare la filastrocca da asilo. Dopo il quasi fallimentare (artisticamente, non commercialmente) “De La Soul Is Dead” i Nostri faranno ancora belle cose, rimanendo però confinati in un ambito di genere che agli esordi avevano saputo trascendere. Il paradossale problema sarà esattamente l’abbraccio del pubblico del rock. Di lì la diffidenza dei neri. Di lì il tentativo di emanciparsi dall’immagine floreale e conquistarsi una credibilità stradaiola. Di lì l’accentuazione degli spigoli, l’inturgidirsi dei suoni, il venire meno dell’onirica magia di un debutto che il trascorrere del tempo non ha offeso.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.26, estate 2007.
Sconcerta che uno dei capisaldi della musica del Novecento venisse accolto con toni irridenti da un gigante dello scrivere di rock quale Lester Bangs e massacrato da un altro, Robert Christgau. Mentre viceversa fa sorridere che nel 2010 nientemeno che “L’Osservatore Romano” lo abbia incluso in una lista dei dieci migliori album pop di sempre (secondo, dietro “Revolver” dei Beatles). Vi avrà per certo colto, l’organo della Santa Sede, l’empito spirituale che traversa per intero un disco figlio per l’artefice di un momento egualmente esaltante e disperante: campione di vendite con “Déjà Vu”, storico esordio di CSN&Y, nel momento in cui ci metteva mano e nello stesso tempo distrutto dalla morte qualche mese prima della fidanzata Christine Hinton. Gli stava vicino in tutti i sensi in studio una folla solidale di colleghi e soprattutto intimi: oltre a Nash e Young e a Joni Mitchell, membri di Grateful Dead, Jefferson Airplane e Santana. Apogeo e contestualmente congedo di/per un’epoca della musica e della cultura giovanili, affresco corale e insieme personalissimo diario che si cimenta nell’impresa di provare a esprimere l’inesprimibile e quanto è significativo allora che due brani siano sì cantati, ma senza parole.
Music Is Love, asserisce ontologicamente la prima di nove immortali tracce, estatico incipit per un viaggio che prosegue con la cavalcata elettrica di Cowboy Move e approda alla liturgia di voci di I’d Swear There Was Somebody There, passando fra il resto per una Traction In The Rain buckleyana. Questa riedizione per il cinquantennale saggiamente non strafà, aggiungendo una bonus già edita e un disco di demo, versioni alternative e scarti che solo uno stato di grazia supremo fece scartare.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 437, dicembre 2021.
CPR (Samson, 1998)
Una sigla anonima come ragione sociale, una copertina che non dà indicazioni su cosa si ascolterà e oltretutto bruttina assai: poco da stupirsi se nel 1998 “CPR” si vendeva in quantitativi modesti e presumibilmente perlopiù a chi aveva avuto occasione di ascoltare il gruppo nel tour che lo aveva preceduto invece di seguirlo. Stupisce di più, ma non tanto per quante copie ne circolano a due spiccioli nei negozi che trattano usato, offerte e fuori catalogo, che non fosse mai stato riedito. Provvede, peraltro senza integrarlo con uno straccio di bonus quando con l’aggiunta dell’autoprodotto e dello stesso anno “Live At Cuesta College” avrebbe potuto confezionare una “Deluxe” coi fiocchi, lo stesso marchio (Samson) che lo dava alle stampe in origine.
Va bene lo stesso, perché ci offre il destro di riascoltarlo con orecchie tornate vergini e dargli il giusto peso nella straordinaria quanto tormentata vicenda artistica di David Crosby: lui la “C” dell’acronimo, laddove la “P” sta per Jeff Pevar, chitarrista sublime, e la “R” per James Raymond, gran tastierista, produttore, arrangiatore, soprattutto figlio perduto dello stesso Crosby, che lo dava in adozione e lo ritrovava decenni dopo e con lui instaurava miracolosamente un felicissimo sodalizio, sia umano che artistico, che tuttora dona frutti succosi. Questo era il primo, disco di autentica rinascita per Crosby dopo troppi anni sprecati fra droghe e mattane e funestati da disgrazie assortite e gravi problemi di salute. Una seconda (terza?) insperata vita prendeva le mosse da questi undici raffinatissimi quadri di cantautorato da Laurel Canyon rivisitato in chiave jazz-rock, con l’occasionale tocco latineggiante, il piccolo strappo funk e a volare altissime sulle sontuose basi armonie vocali degne di quell’altro trio là con David Crosby, quello più famoso.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.423, settembre 2020.
Sky Trails (BMG, 2017)
La matematica impressiona: ventidue anni, dal ’71 al ’93, per iscrivere tre titoli alla voce “discografia da solista”, e facendo oltretutto deprecare a tutti che il capolavoro “If I Could Only Remember My Name” avesse avuto successori tanto inconsistenti; tre appena, dal 2014 di “Croz”, cui nel 2016 dava un seguito “Lighthouse”, per raddoppiarla. Ma a certificare che a settantasei anni David Crosby vive un rinascimento che nessuno avrebbe potuto prevedere nei decenni bui in cui diede tristissimo spettacolo di sé, rotolando rovinosamente per la china della tossicodipendenza, non sono i numeri bensì la consistenza del nuovo album: in proprio il suo migliore di sempre naturalmente eccettuato l’epocale, insuperabile esordio; e anche contando i progetti collaborativi per rinvenire nel catalogo un articolo di livello paragonabile tocca tornare parecchio indietro. Al 1977 di “CSN”, ultimo momento ricordabile della gentile epopea principiata nel ’69 con “Crosby, Stills & Nash”. O, minimo, al 2001 di “Just Like Gravity”, capitolo conclusivo del romanzo breve CPR e forse l’unico altro Crosby quasi indispensabile dell’ultimo quarantennio. E a proposito di CPR…
In “Sky Trails” Jeff Pevar (gradito ritorno) c’è, ma quel che più conta c’è pure James Raymond, il figlio musicista che David ritrovava nell’anno più difficile della sua vita, quel 1994 in cui doveva sottoporsi a un trapianto di fegato andato meravigliosamente bene. Raymond co-firma diversi brani ed è l’autore unico di She’s Got To Be Somewhere, una gemma di elegantissimo funk alla Steely Dan. Splendido modo di iniziare un disco che ha nella Joni Mitchell che si innamorava del jazz (anche coverizzata, con una bella resa di Amelia) il referente principale e per il minoritario resto dispensa folk da manuale Laurel Canyon.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.393, novembre 2017.
For Free (BMG, 2021)
Davvero: non si sa se essere più furiosi con David Crosby per i decenni in cui si buttò via abusando di alcool, eroina, cocaina e quant’altro (ineffabilmente, oggi che in California è legale commercializza con il suo nome una marijuana che gli intenditori considerano fra le migliori sulla piazza) o essere più felici, per lui e per noi, che incredibilmente sia riuscito a sopravvivere a quegli anni folli e ai successivi e gravissimi problemi di salute che l’hanno afflitto come strascico degli stravizi. Che, ancora più incredibilmente, stia vivendo da un decennio in qua (ma prodromi di rinascita si erano manifestati già all’incrocio fra il secolo vecchio e l’attuale con il progetto CPR) una luminosissima… quarta giovinezza.
Per il suo ottantesimo compleanno il vecchio Croz si è regalato, con qualche settimana di anticipo, un album che è sorta di gemello (solo, più conciso: se i brani in scaletta in entrambi sono dieci quello superava i cinquanta minuti, questo non arriva a trentotto) del precedente (2017) “Sky Trails”. Per dire: anche qui il programma comprende una cover dell’amica di sempre Joni Mitchell (tocca stavolta a una pianistica For Free, che ha pure l’onore di intitolare il disco). Anche qui ci sono brani di impronta Steely Dan e curiosamente lo è di più Ships In The Night che non Rodriguez For A Night, cui Donald Fagen ha offerto il proprio apporto compositivo. E il resto sono meraviglie da un Laurel Canyon dell’anima: su tutte una I Think che potrebbe giungerci dai primi due LP in trio con Crosby e Nash e una Shot At Me che sarebbe potuta stare su “If I Could Only Remember My Name”. Addirittura. L’unico cruccio è che il tempo inevitabilmente, inesorabilmente scorre.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.434, settembre 2021.
Lasciati gli Yardbirds nel novembre ’66, Jeff Beck pubblica alcuni singoli da solista prima di dare vita all’inizio del 1968 al fenomenale gruppo con il quale registrerà questo LP e (con un aggiustamento minimo di formazione) il seguente “Beck-Ola”: Rod Stewart alla voce, Nicky Hopkins al piano, Ron Wood al basso e Micky Waller alla batteria. Pur premiato da un buon riscontro di pubblico (negli USA è quindicesimo ed è certificato disco d’oro) “Truth” in retrospettiva appare opera sottovalutata (nuocerà alla sua fama postuma la qualità ondivaga e i frequenti cambi di direzione della successiva produzione del chitarrista) e non premiata per i suoi meriti nemmeno da vendite comunque modeste se paragonate a quelle di Cream e Led Zeppelin. Resta uno dei migliori esempi di un hard primevo immerso nel blues e capace di maneggiare con gusto folk e psichedelia.
Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.
È da ieri, quando con otto giorni di ritardo si è diffusa la notizia della sua scomparsa, settantenne, che mi interrogo se ci sia stato un altro che come Manuel Göttsching sia riuscito a coprire l’arco impossibilmente ampio che dal blues (alla cui scuola crebbe) arrivò fino a house e techno (sulle quali esercitò un’influenza incommensurabile) passando per la psichedelia, per un rock che era post-punk ben prima che il punk stesso si palesasse, per una kosmische Musik sporta (anche) sulla ambient ben prima che Eno la teorizzasse. Se assumiamo, con Leibniz, che natura non facit saltus, l’intera vicenda artistica di questo chitarrista che fece suonare il suo strumento come nessuno mai, prima e dopo, dimostra invece l’opposto. E nondimeno una logica incontestabile nel continuo evolversi e una poetica affatto peculiare sottendono tutta la sua opera. È da ieri che mi chiedo a quanti altri protagonisti della musica del Novecento si possa più legittimamente applicare l’etichetta di “genio”. Non me ne sono venuti in mente molti.
Ash Ra Tempel Ash Ra Tempel (Ohr, 1971)
Protagonista principale della vicenda Ash Ra Tempel, nonché unico a traversarla dal principio alla fine, fu Manuel Göttsching, chitarrista di solida tecnica che una straordinaria inventiva ha quasi sempre salvato dalle tentazioni narcisistiche del virtuosismo fine a se stesso. Costui sul finire degli anni ’60 suonava nella Steeple Chase Bluesband, gruppo di Berlino dedito a una riscrittura lisergica della musica del diavolo che fu palestra anche per altri due futuri adepti del Tempio di Ash Ra: il bassista Hartmut Henke, che resterà in squadra fino a “Join Inn” compreso, e il batterista Wolfgang Müller, che rimarrà giusto il tempo necessario a scolpire la pietra miliare “Schwingungen”. Siccome un blues pur già poco canonico non bastava a soddisfarne gli slanci visionari, Göttsching pensò bene di andare a fare la sua cosa altrove. Con Henke al basso e Klaus Schulze, transfuga dai Tangerine Dream del grandioso “Electronic Meditation”, assiso dietro piatti e tamburi nacquero così gli Ash Ra Tempel. La loro vicenda si consumerà nel breve arco di tre anni generosi di album – ben cinque, tutti per la Ohr di Rolf-Urlich Kaiser – e intuizioni fulminanti.
Biglietto da visita sensazionale quello primo e omonimo. L’immagine egizia che campeggia sul davanti della lussuosa confezione promette il disvelarsi di verità a chi, aperta una copertina che si spalanca a mo’ di finestra, sappia addentrarsi nelle stanze cui quelle porte della percezione danno accesso. A mezzo secolo dacché fu eternata la musica che si leva dai solchi stupisce ancora. Suona moderna perché senza tempo, ma come quasi sempre è il caso con l’arte più innovativa non veniva dal nulla. Anzi! Le sue radici affondavano nella Detroit degli anni ’60, quella di MC5 e Stooges ma anche del jazz extraterrestre di Sun Ra, e nella Londra della prima ubriacatura lisergica. Nella psichedelia californiana. Naturalmente, visti i precedenti di Göttsching ed Henke, nel blues. La prima facciata è occupata dai 19’40” di Amboss, che parte con un incastro di cimbali e basso, diviene tellurica quando la batteria irrompe in scena con fare predatorio e magmatica quando la chitarra comincia a srotolare stordenti spirali di feedback. I 25’40” della Macchina dei Sogni, la Traummaschine, che monopolizza il secondo lato si porgono al contrario rilassanti: il Klaus lavora di congas, il Manuel di fino sulla sei corde, una misteriosa voce femminile evoca paradisi islamici. A dispetto della defezione pesante di Schulze, da lì a un anno con “Schwingungen” gli Ash Ra Tempel riusciranno addirittura a superarsi, ad andare oltre.
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.281, ottobre 2021.
Ash Ra Tempel Schwingungen (Ohr, 1972)
Sembrò probabilmente faccenda da extraterrestri all’uscita l’omonimo debutto, datato 1971, degli Ash Ra Tempel: prendete la Detroit di Stooges ed MC5, impregnatela con il jazz saturnino di Sun Ra, ricordi di blues, cartoline di Londra in preda alla prima ubriacatura lisergica, intersecatela di sentieri felici quicksilveriani et voilà. Benché proveniente dal blues (ma aveva studiato pure chitarra classica e improvvisazione), il leader Manuel Göttsching piuttosto che un emulo di Clapton, o al limite di Hendrix, già vi si porgeva come un anticipatore del Keith Levine del “Metal Box”. Ancora di più in questo seguito, dove per ascoltare quegli a loro volta influentissimi P.I.L. – di sette anni posteriori! – non dovete che mettere su quella che era in origine la prima facciata: sono lì, in una Flowers Must Die che preconizza John Lydon persino nel titolo, laddove sul secondo lato Suche & Liebe adombra certi Pink Floyd. Quasi al pari interessanti, per non dire imperdibili, i successivi capitoli della saga dei Berlinesi, da “Seven Up”, in combutta con il guru psichedelico Timothy Leary, a “Starring Rosi”, passando per “Join Inn”. Fino all’avveniristico “Inventions For Electric Guitar”, del ’75 e di fatto l’esordio da solista di Göttsching. C’è chi vi ha individuato l’atto di nascita della techno.
Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.
Manuel Göttsching E2-E4 (Inteam, 1984)
Copertina (una scacchiera giallo smorto e marrone) di un rigore geometrico totale che non si potrebbe immaginare più distante dall’iconografia da antico Egitto che aveva caratterizzato tredici anni prima l’esordio degli Ash Ra Tempel, compagine fra le più immaginifiche del krautrock, figlia del blues e mamma dei P.I.L. Se però si scorre la discografia dei Berlinesi, fra l’altro compagni di lisergiche merende di Timothy Leary in “Seven Up”, arrivati a “Join Inn” ci si imbatte in un’altra scacchiera e i conti cominciano a tornare. Rimasto proprietario del marchio, il leader Manuel Göttsching ha già realizzato nel 1975 un incredibile LP in perfetta solitudine, “Inventions For Electric Guitar” (messo fuori con doppia attribuzione per ragioni meramente commerciali), in cui, se lo strumento è quello sovrano del rock, il suono e l’impatto sono già quelli della techno. Nove anni dopo (in realtà sei, essendo queste registrazioni dell’81) Göttsching bissa, facendo scontrare temi alati e ritmi spasmodici e in tal modo inventando, inconsapevole, l’ambient-house. Altri cinque anni ancora e mezzo mondo ballerà sulle note di Sueño latino, un’irresistibile robetta balneare “made in Italy” tutta costruita su un campionamento da “E2-E4”.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.14, estate 2004.
Uno dei più grandi chitarristi della storia del rock se n’è andato venerdì scorso nell’indifferenza generale. Non un articolo, non un trafiletto a ricordarlo. Giusto qualche post su Facebook.
The Misunderstood Before The Dream Faded (Cherry Red, 1982; antologia)
Una delle mille ragioni che abbiamo per idolatrare John Peel è questa: senza di lui i Misunderstood avrebbero avuto ancora meno della poca fortuna che ebbero e si sarebbero forse persi senza lasciare traccia alcuna. Era il 1966 quando le strade del gruppo e del dj (che non aveva ancora assunto il nome d’arte con il quale diverrà celebre e dunque girava come John Ravenscroft) si incrociavano. Acceso di sacro fuoco dalla ultraelettrica (con tanto di feedback come nei ’60 oseranno giusto i Velvet) e acidissima interpretazione del blues inscenata dai nostri eroi, Peel li convinceva a trasferirsi dalla California a Londra e tanto brigava che la Fontana si interessava a loro. Veniva registrato un demo con sei brani, due uscivano a 45 giri (il secondo per l’ensemble dopo uno pubblicato in patria) e i Misundestood – presenza scenica micidiale – divenivano dei beniamini del pubblico del Marquee. Attimo fuggente dopo il quale tutto andrà a ramengo. Restano due album postumi (il secondo è “Golden Glass”, uno Stood Still dell’84) a documentarne la grandezza ammannendo martellamenti selvaggi (Children Of The Sun, la feroce My Mind, una I’m Not Talking degna di Beefheart), spastiche dilatazioni (Who Do You Love) e ogni tanto un incantesimo alato (I Can’t Take You To The Sun) o uno scherzo (il gioioso beat Like I Do).
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.15, autunno 2004.
High Tide Sea Shanties (Liberty, 1969)
Immancabilmente citati fra i padri fondatori dell’hard come fra i massimi esponenti di una psichedelia disposta a farsi laterale rispetto al suo stesso essere – costituzionalmente – eccentrica, i britannici High Tide del cantante e chitarrista Tony Hill e del violinista Simon House altrettanto sacrosantamente finiscono per figurare in ogni trattazione che si rispetti del progressive. Questione oltre che di suono – compatto eppure articolato, in qualche inspiegabile maniera gradevole una volta violatane l’apparente impenetrabilità – di attitudine, di disponibilità a osare quanto all’epoca era inaudito e che di rado sarà replicato con efficacia e intensità paragonabili. “Sea Shanties” e il successivo di un anno “High Tide” restano fra gli esempi più memorabili di sempre di gotico in musica.
Tratto da Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.
Da chitarrista dei Dr. Feelgood, la band che più di qualunque altra della scena del pub rock contribuì ad aprire la strada al punk, fu la più improbabile (per i tempi) delle rockstar. Ebbe poi un’onesta carriera da solista che sembrò essere giunta al capolinea, insieme alla sua vita, quando nel gennaio 2013 gli diagnosticarono un tumore in fase terminale. Ops! Si erano (in parte) sbagliati. Gli ultimi anni dell’artista Wilko Johnson sono stati gloriosi quasi quanto quelli di una giovinezza ruggente.
Stupidity (Dr. Feelgood; United Artists, 1976)
“Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”: non paia blasfemo citare l’evangelista Marco, che a sua volta citava il profeta Isaia, che a sua volta metteva insieme due profezie di Malachia, per fare un parallelo con il ruolo che ebbero i Dr. Feelgood nell’aprire la via al punk. Se non altro perché non si fa altro che citare ulteriormente, Nick Hasted dell’“Independent”, che recensendo la trionfale prima proiezione (con l’intera sala in piedi a salutarne i titoli di coda con un applauso interminabile) di Oil City Confidential, il documentario sui Dr. Feelgood firmato nel 2009 da Julien Temple, scriveva dei nostri eroi dicendoli i facenti funzione di Giovanni Battista rispetto ai Messia del punk. Paragone ardito quanto ineccepibile.
È lungo e scandito da centinaia di concerti il percorso che porterà il quartetto di Canvey Island – nella formazione classica che schiera Lee Brilleaux a voce, armonica e chitarra, Wilko Johnson all’altra sei corde, John B. Sparks al basso e John Martin (soprannominato The Big Figure) alla batteria – a celebrare il massimo trionfo del pub rock piazzando questo album, il suo terzo e (viene da dire: naturalmente) un live, in vetta alla graduatoria dei più venduti nel Regno Unito nel settembre 1976. Solo per poi venire eclissato da quel punk cui aveva fatto da battistrada e gli stessi Dr. Feelgood, dopo avere quasi replicato nel maggio ’77 con “Sneakin’ Suspicion”, un buon numero 10, gradualmente retrocederanno dai teatri a quel circuito di bar e club spesso infimi che li aveva cresciuti a partire dal 1971 e che avevano fatto crescere, ultimo guizzo di gloria mercantile un singolo nei Top 10 datato 1979. Irrimediabilmente superati dai tempi ma in compenso nella Storia e culto che resiste tenace. Preceduto a 45 giri nel novembre ’74 dal rozzo quanto orecchiabile errebì Roxette, “Down By The Jetty” è nel gennaio 1975 il sospiratissimo esordio a 33, collezione di rhythm’n’blues bianco in stile primi Pretty Things, i più grezzi, cui si alternano blues e rock’n’roll altrettanto contundenti. Non vede manco da lontano le classifiche a differenza di un seguito – “Malpractice”, ottobre stesso anno e nei Top 20 – messo insieme un po’ frettolosamente e a testimoniarlo è che ove nel predecessore Wilko Johnson firmava larga parte della scaletta (fra i rifacimenti notevole una Boom Boom, da John Lee Hooker, rifatta in stile Animals) qui quasi metà del programma è di cover (formidabile in ogni caso, per quanto picchia duro, almeno Riot In Cell Block No.9). Ma è “Stupidity” (ove gli “originali” di nuovo prevalgono solo di misura, sette a sei) il bignamino perfetto di un sound ruggente e scartavetrato, alcolico e anfetaminico. “Grida”, Lee Brilleaux, ma tutt’altro che in un metaforico deserto.
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.261, febbraio 2020.
I Keep It To Myself/The Best Of (Chess, 2017)
È la prima metà del titolo a dichiarare la singolarità dell’operazione: lì il titolare svela che le venticinque tracce raccolte in “I Keep It To Myself” (divise su due CD per una complessiva ora e mezza di ascolto) se l’era tenute per sé. Non è dato sapere per quale ragione. Forse mancava l’etichetta giusta cui affidare queste registrazioni, bastanti a confezionare un paio di album, e che bella cosa che i nastri, incisi fra il 2008 e il 2012, vedano la luce per la casa di Chicago: marchio storico per antonomasia del blues elettrico nonché indirizzo cui si domiciliarono nomi cruciali del rhythm’n’blues primevo e, parlando di rock’n’roll, tal Chuck Berry. Tutti numi tutelari per quei Dr. Feelgood che a metà ’70 prepararono il terreno per il punk con quell’esplosiva miscela che prendeva il nome di pub rock. Nei loro primi quattro, formidabili LP di Wilko Johnson non c’è “solo” la chitarra ma anche la firma in calce alla totalità del repertorio autografo.
Restano i suoi anni migliori, lo sa e qualche cavallo di battaglia ogni tanto lo recupera: qui una Roxette reggata, una She Does It Right alla nitroglicerina, una Back In The Night devotissima a Chuck, il malevolo blues Sneaking Suspicion, l’indiavolato errebì Twenty Yards Behind. Se ho ben contato ci sono poi altri quattro pezzi che al cultore dovrebbero essere familiari e sono quelli finiti nel 2014 sull’eccellente “Going Back Home”, Roger Daltrey degli Who alla voce. Ricorderete: registrato dopo un tour che sul serio doveva essere “d’addio”, visto che a Johnson era stato diagnosticato un tumore in fase terminale. Colpo di scena! La diagnosi era parzialmente errata e il vecchio filibustiere si appresta a soffiare su settanta candeline. Auguri, ma di cuore.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 388, giugno 2017.
Blow Your Mind (Chess, 2018)
Quando nel 2013 Wilko Johnson annunciava di essere al tour di addio non era di un congedo dalle scene che si trattava, ma dal mondo: gli era stato appena diagnosticato un tumore al pancreas in fase terminale e, in luogo di sottoporsi a una chemioterapia che avrebbe solo rimandato di poco l’inevitabile, aveva deciso di trascorrere i suoi ultimi mesi come molta parte dei precedenti quarant’anni, ossia suonando dal vivo. Erano concerti affollati come mai dall’epoca ruggente di quei Dr. Feelgood di cui era stato chitarrista dal ’71 al ’77, alfieri di un pub rock che spalancò la porta al punk, clamorosamente primi nel 1976 in Gran Bretagna con il live “Stupidity”. E, per quanto potessero essere logicamente commosse, le platee ancora di più erano esilarate da spettacoli di una vitalità travolgente. Ritrovata, si potrebbe dire. Costretto ad annullare le ultime due date perché non più in grado di affrontare il palco, si prendeva una settimana in studio per incidere un ultimo album, il formidabile “Going Back Home”, con Roger Daltrey alla voce. Dando per scontato che non avrebbe vissuto abbastanza da vederlo pubblicato.
E quattro anni dopo dà alle stampe il successore “vero”, dopo il brillante doppio scavo negli archivi “I Keep It To Myself”. Giacché si dà il fortunato caso che la diagnosi di cui sopra fosse in parte errata, e che un’operazione di undici ore durante la quale gli è stato rimosso di tutto e di più lo abbia rimesso in piedi. Quasi settantunenne ha realizzato un disco dei suoi più coesi e ispirati, da un’iniziale Beauty in scia alla classica Sneaking Suspicion al rovinoso rock’n’roll a suggello Slamming. Passando per l’ustionante blues Marijuana, una Tell Me One More Thing fra Ian Dury e Bo Diddley, una cooderiana (circa “Bop Till You Drop”) Lament.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.401, settembre 2018.
“Saremmo potuti diventare degli altri Pink Floyd”, sospirava ridacchiando Dave Brock concedendosi a “Mojo” in occasione dei festeggiamenti per il trentennale di una band la cui complicata epopea il cantante, chitarrista e tastierista è stato l’unico a traversare per intero. Quindici ulteriori anni dopo l’astronave Hawkwind è ancora in volo, gli avvicendamenti nell’equipaggio continuano, ma in plancia di comando continua a sedere il capitano di sempre. Difficile credere che abbia mai davvero rimpianto ciò che sarebbe potuto essere (dopo che il singolo Silver Machine andò nel luglio ’72 al numero 3 delle classifiche britanniche) e invece non fu (dopo che nell’estate successiva toccò ritirare dai negozi Urban Guerilla per la sfortunata concomitanza fra il suo affacciarsi nei Top 40, appena uscito, e un’ondata di attentati dell’IRA). Non sono mai diventati come i Pink Floyd, gli Hawkwind, ma rappresenta ben più che un premio di consolazione l’essersi guadagnati un posto di assoluto rilievo nella storia del rock con la sequela pressoché perfetta dei primi otto LP: insieme, un ponte fra l’era della psichedelia e quella del punk e il luogo in cui quel mutaforma chiamato space rock assumeva la sua estetica più classica, iniettando dosi massicce di acido lisergico, anfetamine e immaginario SF nel giovane corpo dell’hard.
Nell’omonimo esordio a 33 giri dell’agosto ’70 tutto ciò è a malapena accennato. È nel successivo (ottobre 1971) “In Search Of Space” che il tipico suono Hawkwind sboccia, all’improvviso – nel paradigmatico assalto di You Shouldn’t Do That – e subito definito sin nei dettagli: basso singolarmente melodico e batteria dritta a propellere le esplorazioni di uno spazio profondo non solo interiore inscenate dalla chitarra di Brock e dai marchingegni elettronici manipolati da Dikmik Davies e Del Dettmar. Mentre il sax di Nik Turner ruggisce, creando ulteriori straniamenti. Se in You Know You’re Only Dreaming i Pink Floyd si metamorfizzano nei Black Sabbath, Master Of The Universe disvela quella disposizione geniale all’innodia che in Silver Machine troverà una sublimazione somma. Prima di una seconda metà di programma in cui gli psichedelici prendono il sopravvento sugli eccitanti e davanti alle porte del cosmo si disegnano trame elettroacustiche. “Doremi Fasol Latido” (novembre 1972) perfezionerà la formula, ma è qui che prende a delinearsi un canone straordinariamente influente.
Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.196, settembre 2014.
Giunge come fulmine a ciel sereno (ma quando mai lo è, sereno?) la notizia della scomparsa (per cause naturali, parrebbe) a soli cinquantanove anni di Artis Leon Ivey Jr., meglio noto come Coolio. Si era da tempo defilato (l’ultimo album è del 2009), ma intorno alla metà degli anni ’90 godette meritatamente di una popolarità immensa. “It Takes A Thief” e “Gangsta’s Paradise” appartengono alla storia maggiore dell’hip hop.
It Takes A Thief (Tommy Boy, 1994)
La lunga gavetta e l’immagine (pro)positiva di un uomo che ha saputo fare tesoro delle lezioni della vita e non dimentica chi non è stato al pari fortunato contribuiscono a rendere Mr. Ivey uno dei rapper più popolari d’America intorno al giro di boa dei ’90, persino oltre la sua volontà (sia detto a ulteriore lode: l’artificiosa contrapposizione inscenata dai media di lui, “buono” o come minimo “redento”, contro il “cattivo” 2Pac non gli andrà mai a genio). Certo gli giova anche una capacità fuori dal comune di fare pop l’hip hop senza tuttavia snaturarlo. I successivi “Gangsta’s Paradise” (1995) e “My Soul” (1997) venderanno parecchio di più (fra l’uno e l’altro, qualcosa come diciassette milioni di copie), ma in termini di qualità è “It Takes A Thief” a iscrivere lo pseudonimo di Artis Leon Ivey fra i maestri del genere.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.26, estate 2007.
Gangsta’s Paradise (Tommy Boy, 1995)
Nato in quella Compton, parte sud della contea di Los Angeles, che gli N.W.A renderanno tristemente celebre, Artis Leon Ivey è immerso nella storia dell’hip hop ben prima di cominciare a scriverla lui stesso. Sin dal 1979, l’Anno Zero del genere, grazie a dei vicini originari di New York che gli girano alcuni nastri di performance di strada. L’allora sedicenne fonda la Brothers Bass Crew ma prima di esordire discograficamente, ospite nel ’91 dei WC & The Maad Circle, farà in tempo a transitare in diverse altre posse che non hanno lasciato tracce e soprattutto a buttare via un decennio intero, fra carcere e comunità di recupero per tossicodipendenti. Mai sottovalutare la forza redentrice della musica: sarà un uomo nuovo che ha fatto tesoro degli sbagli commessi e un artista a tutto tondo a firmare nel 1993 per la Tommy Boy, etichetta leader nell’ambito. Nel 1994 il debutto “It Takes A Thief”, forte di un singolo bomba quale Fantastic Voyage (un numero 3 USA) che campiona massicciamente l’omonima canzone dell’81 dei Lakeside, entra nei Top 10 di “Billboard” ed è di platino.
L’anno dopo “Gangsta’s Paradise” (fresco di ristampa rimasterizzata per il venticinquennale con aggiunto un pletorico remix) raddoppierà i dati di vendita negli Stati Uniti e li decuplicherà nel resto del globo replicandone la formula a base di buoni sentimenti, ironia, un senso del groove micidiale. Nei crediti un’enciclopedia della black, da Herbie Hancock agli Isley Brothers passando per Smokey Robinson & The Miracles, James Brown, Sly & The Family Stone, Kool & The Gang, Billy Paul, Tom Browne. Ovviamente per Stevie Wonder, la cui Pastime Paradise per così dire ispira il brano che intitola l’album. Primo in mezzo mondo e dire che alla Tommy Boy lo avevano cassato.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.425, novembre 2020.
My Soul (Tommy Boy, 1997)
Benché il suo grande successo, con il multimilionario in dollari e copie “Gangsta’s Paradise”, risalga ad appena due anni fa e il debutto in proprio (comunque disco di platino) “It Takes A Thief” sia più vecchio solo di una manciata di mesi, Coolio è un veterano dell’hip hop con un’anzianità di servizio seconda a nessuno nella scena odierna. Se esordì discograficamente soltanto nel 1991, con i WC & The MAAD Circle, era già in pista, con la Brothers Bass Crew, nei primi anni ’80. Non ebbe fortuna, quella posse, e migliore sorte non toccò alle altre allestite successivamente. Soundmaster Crew, NuSkool e Low Profile furono le tappe di un decennio vissuto pericolosamente. Brutte storie, da ghetto: guai con la legge, perenne disoccupazione, una dipendenza dal crack dalle conseguenze quasi fatali.
La lunga gavetta e l’esemplarità della vicenda di un uomo che ha saputo redimersi dai suoi errori ma non dimentica chi non è stato altrettanto forte, o fortunato, hanno indubbiamente contribuito a fare di Mr. Ivey uno dei rapper più popolari d’America. Certo gli ha giovato anche una capacità senza pari per un rapper di fare breccia nel pubblico del pop. Per quanto meno brillante dei predecessori, “My Soul” mette in mostra la consueta corona di gioielli: The Devil Is Dope, molto soul e dal ritornello micidiale, e il classicissimo g-funk Knight Fall i più luminosi.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.176, novembre 1997.
Sodale di John come di Alice Coltrane e titolare da leader di una buona mezza dozzina di album fondamentali, uno dei più audaci e geniali sassofonisti della storia del jazz ci ha lasciato lo scorso sabato, ottantunenne. È morto da vivo, che non è cosa che si può dire di molti.
Karma (Impulse!, 1969)
Il terzo lavoro in proprio di colui che era stato l’ultimo alter ego di John Coltrane venne registrato in due sedute nel febbraio del 1969. La prima ebbe luogo il 14, giorno degli innamorati, si sa. Di amore – di altro, più trascendentale tipo – “Karma” trabocca, mistico già nel titolo e in uno scatto di copertina che coglie il sassofonista seduto su un cuscino, gambe incrociate e braccia aperte. In meditazione o, chissà, preghiera, rivolta a quel Creatore che, spiega il lunghissimo brano (32’45”) che costituisce gran parte del disco, ha i suoi piani. Obiettivo: “pace e felicità per ogni uomo”. Presentato così “Karma” potrebbe sembrare, visto l’anno di realizzazione, un vaneggiamento hippie qualsiasi. Altro è tuttavia il senso di profonda, non banale spiritualità che trasmette. Altra è la solidità di spartiti in cui il richiamo a musiche etniche di area asiatica lungi dall’essere riverniciatura superficiale si fa parte essenziale di strutture bene articolate, in un gioco di vuoti e pieni, tensione e rilascio che vede Sanders in perenne, estatico assolo mentre un gruppo superbo (spiccano il piano di Lonnie Liston Smith Jr. e, in Colors, il contrabbasso di Ron Carter) intreccia trame qui fitte, là impalpabili. “Free jazz per le masse”, secondo Scott Yanow. Definizione felice ma limitante.
Complessa eppure cantabile, la monumentale The Creator Has A Master Plan fu il punto centrale di un percorso iniziato con il sottovalutato “Tauhid” e che avrà in “Jewels Of Thought”, “Deaf Dumb Blind”, “Thembi” e “Black Unity” altre tappe memorabili. Per non dire dei coevi album di Alice Coltrane cui Sanders offrirà un apporto decisivo.
Scritto nel dicembre 1999 per un progetto di “Blow Up” poi non andato in porto per ragioni che non ricordo. In parte recuperato, adattato e accorciato, su “Extra”, n.13, primavera 2004. Altrimenti inedito.
Thembi (Impulse!, 1971)
Permettete? Vorrei cominciare con un racconto di malcostume. Qualche tempo fa i negozianti di dischi ricevettero un comunicato dalla Universal in cui si annunciava la volontà di “valorizzare” il catalogo Impulse!. Ottima cosa, no? E come si intendeva valorizzarlo? Ribassando i prezzi e insieme avviando una campagna pubblicitaria? Macché. Alzandoli invece, portandoli dalla fascia media alla alta. Fine della “valorizzazione”. Sicché classici in gran copia – da Mingus a Coltrane, da Shepp ad Ayler, da Art Blakey a Yusef Lateef – sono oggi meno accessibili alla smania di conoscenza degli appassionati, soprattutto di quelli più giovani. Agire esemplare dell’avida idiozia di gente che dovrebbe essere riscattata alla società mandandola a lavorare i campi.
Mi perdonerete se mi sono così mangiato metà dello spazio di questa recensione. Ci tenevo. Confido nel fatto che “Thembi”, se non posseduto, sia almeno conosciuto di fama dai più. A quattro anni dalla morte di Coltrane che ha troncato un sodalizio epocale, a due dal capolavoro “Karma”, che ha rischiato di fare dell’avanguardia una faccenda alla moda, a uno dalla pregevole accoppiata “Jewels Of Thought”/”Deaf Dumb Blind”, Sanders dà alle stampe (è il 1971) un album che dei predecessori mantiene l’ispirazione – coacervo di influenze africane e d’Oriente, hard bop, free e suggestioni psichedeliche – scorciando nel contempo il minutaggio della singola composizione. I consueti due brani diventano dunque cinque e un vitalistico impulso latino-funky si insinua, senza che l’empito spirituale si attenui. Esito: uno dei dischi più accessibili del Nostro, oltre che dei più belli.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.214, giugno 2001.
Moon Child (Timeless, 1989)
Naturalmente il Pharoah Sanders indispensabile è quello che fra il 1967 e il 1971, nel mentre agiva anche da complice prediletto della vedova Alice avendo ricoperto in precedenza il medesimo ruolo con l’ultimo John Coltrane, metteva in fila una prodigiosa sequela di pietre miliari su Impulse!: “Tauhid”, “Karma”, “Jewels Of Thought”, “Deaf Dumb Blind”, “Thembi”, “Black Unity”. Capisaldi di un jazz (lo dissero spiritual e l’etichetta è rimasta) inaudito, per un verso in continuità con il Coltrane di “A Love Supreme” e per un altro capace di trascendere il free deviandone l’audacia verso un Oriente dell’anima, impregnandolo di latinismi, rimettendoci dentro l’Africa. Si fosse ritirato allora, appena trentunenne, avrebbe comunque avuto garantito un posto nella storia della musica del Novecento. Non avendolo fatto si è ritrovato, ottantunenne, a pubblicare uno dei dischi più acclamati del 2021, “Promises”, in collaborazione con il dj e produttore in ambito di elettronica Floating Points e registrato con la London Symphony Orchestra.
Benché poi premiato da un Grammy, non veniva salutato con altrettanto entusiasmo nel 1990 “Moon Child”, che nel mentre scontentava i seguaci del Pharoah Sanders avant-garde non riusciva a guadagnarsi i favori del pubblico più tradizionalista. Giocava probabilmente un ruolo negativo in tal senso una distribuzione deficitaria negli USA e la cronica irreperibilità quantomeno in vinile (le copie originali su Timeless, olandese, oggi passano di mano intorno ai centocinquanta euro) ha poi fatto sì che quasi se ne perdesse la memoria. Per una sua doverosa rivalutazione giunge allora provvidenziale questa ristampa su Music On Vinyl, visto che una prima datata 2019 su Tidal Waves era sciaguratamente in tiratura limitata e risultava già esauritissima. Posto che non è di un capolavoro che stiamo parlando, almeno la prima – e omonima, nonché unica autografa – delle sei tracce in programma merita tale qualifica per il suo essere il Pharoah Sanders più cantabile (e difatti è cantato) di sempre: rilassata, sospinta da un basso felpato (Stafford James) e percussioni lievi (Cheikh Tidiane Fale), estremamente solare a dispetto del titolo. Più che degne di nota pure una parimenti rilassata Moon Rays (Horace Silver; in gran spolvero oltre al sax del leader il piano di William Henderson) e la resa ellingtoniana di All Or Nothing At All, cavallo di battaglia di Frank Sinatra.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.
With A Heartbeat (con Bill Laswell; Douglas, 2005)
A sessantacinque anni – o per meglio dire a sessantatré, ché tanti ne aveva quando realizzò questo disco di cui è circolata (poco) un’edizione su Evolver – ha ancora cose da dire e da dare Pharoah Sanders? La perfida risposta, dopo avere ascoltato “With A Heartbeat”, è: forse sì, ma dovrebbe scegliersi meglio i compagni di strada. Bill Laswell, che pure di anni ne ha parecchi di meno, si è usurato parecchio di più spendendosi troppo e da tempo è un cliché vivente, all’incrocio fra ambient e musiche etniche, hip e trip-hop e (vogliamo dirla una parolaccia? diciamola!) new age. E dire che la collaborazione fra i due ebbe uno splendido inizio, nell’ormai lontano 1996, con quel “Message From Home” in cui il sassofonista, immergendosi in acque africane, ritrovava la verve di un’era aurea collocabile fra i mezzi ’60 e i mezzi ’70 in cui come nessuno a parte Alice Coltrane declinò estatico (definizione di Scott Yanow) “free jazz per le masse”. Tutta un’altra storia un album in cui il suo strumento si muove con grazia rara – qui sognante, là intensissimo, in bei saliscendi emotivi – ma in un contesto che appare artefatto.
Programmatico il titolo: intorno al battito di un cuore, per fortuna manipolato quel tanto che basta da non diventare un’assoluta ossessione, Laswell ha costruito quattro lunghi brani in transito dal raga al dub per tramite di cosmicherie che fanno molto primi ’70, con la collaborazione, oltre che di Sanders, di un altro fiatista, Graham Haynes, e del percussionista Trilok Gurtu. Qualche sprazzo di ispirazione c’è anche, ma più che altro si sonnecchia. Per gli standard del bassista da un lustro in qua non ci si può lamentare, da un disco con su scritto “Pharoah Sanders” ci si sente ancora in diritto di pretendere di più.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n. 255, aprile 2005.
Promises (con Floating Points e la London Symphony Orchestra; Luaka Bop, 2021)
Il bello di questa collaborazione sulla carta improbabile è che a proporla è stato l’artista di gran lunga più anziano: Pharoah Sanders, classe 1940 e una delle ultime leggende viventi e praticanti del jazz degli anni ’60 e ’70 (allora faceva la Storia; nei due decenni seguenti si è limitato a regalarci altri album bellissimi; tanti). Era costui che, stregato nel 2015 da “Elaenia”, esordio come Floating Points del dj e produttore di musica elettronica britannico Sam Shepherd, classe 1987, lo contattava. Immaginabili stupore ed esaltazione da parte di chi – cresciuto a Debussy e Bill Evans ed ecco che comincia a spiegarsi donde arrivi quanto si ascolta in “Promises” – spesso nelle sue serate aveva proposto a platee a tutt’altri suoni aduse la musica del sassofonista (celeberrimo un set berlinese inaugurato dai venti minuti filati di Harvest Time). Era seduti a tavola che i due decidevano che sì, un disco insieme si poteva fare. Eccolo.
Accolto per un verso con entusiasmo a prescindere da chi lo aveva battezzato un capolavoro forse prima ancora di ascoltarlo e per un altro tiepidamente da chi si aspettava magma e spigoli in luogo di un fluire disteso e incantatorio, “Promises” è suite di tre quarti d’ora in nove movimenti. Su un ricorrente motivo di sette note suonato da Shepherd su varie tastiere si innestano ora il sax tenore di Sanders (nel quarto movimento la voce, invece) con fraseggi talvolta studiatamente timidi e talaltra lunghi e avvolgenti, ora (oppure insieme) gli archi aggiunti a posteriori della London Symphony Orchestra. Si va dal sommesso a solenni crescendo, con il bonus di alcuni squisiti assolo. Più che dalle parti di Coltrane (Alice o John) si sta da quelle di Górecki.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.431, maggio 2021.
“Che la mia pelle sia scura/non fa che aggiungere colore alle mie lacrime/…/E mi tocca nell’animo,/rievocando memorie passate,/chiedermi perché i miei sogni non si siano mai realizzati./Qualcuno mi dice cosa posso e non posso fare,/qualcosa mi frena./È perché sono nero?” (Is It Because I’m Black?)
In “The W”, l’ultimo ─ sorprendente per quanto è eccelso, quando dai Padrini newyorkesi nessuno si attendeva più nulla ─ album del Wu-Tang Clan, ci sono due momenti straordinariamente emozionanti, e non si tratta solo dell’emozione un po’ artefatta che viene, a chi sa di musica, dal riconoscere una citazione e dal ricontestualizzare in base a essa quanto ha ascoltato fino a quel momento, tracciando collegamenti, leggendo fra le righe, individuando discorsi dentro discorsi. No! È l’emozione genuina del brivido che corre sulla schiena e arriva al cuore prima che alla testa e lì si sofferma. Quando l’artista ti parla e siete soli, tu e lui, e per un attimo soltanto questo conta. Due momenti, dicevo. Uno si ha all’altezza della nona traccia, I Can’t Go To Sleep, quando dalle casse scende una slavina di archi che mozza il fiato come forse nessun’altra nel libro d’oro del soul: è quella su cui scorre Walk On By di Burt Bacharach, versione espansa e immane di Isaac Hayes, dall’epocale “Hot Buttered Soul”. Quando arriva la voce dello stesso Hayes, convocato per presenziare all’omaggio e apporvi il suo suggello benedicente, è quasi troppo. Uno di quegli istanti d’estasi che valgono il tormento di troppi dischi brutti ascoltati per senso del dovere. E l’altro?
Terzo brano. Una deflagrazione. Ritmo reggato che per un attimo mette fuori strada. Un vocalizzo struggente. E poi ecco il campionamento su cui gira tutto, inconfondibile. Una voce amatissima, una canzone simbolo per come ha saputo riassumere, in quella di un individuo, la vicenda di un popolo strappato alla sua terra, ridotto in schiavitù e poi in essa di fatto mantenuto dalle catene del pregiudizio. Per l’ennesima volta, il grido di Is It Because I’m Black? di Syl Johnson risuona e ci fa vergognare di essere bianchi.
1992. Per l’anagrafe è Christopher MacFarlane ma è assai più noto con uno pseudonimo: Macka B. È uno dei leoni della dancehall inglese. Sei anni prima, con la regia di quel Lee Perry britannico che è Neil Fraser, aka Mad Professor, ha dato alle stampe un piccolo capolavoro chiamato “Sign Of The Times”. Si supera adesso con “Jamaica, No Problem??”, album in cui risaltano il suo istinto melodico da killer e la padronanza assoluta delle tecniche del dub del Professore. Grandi i suoni, grandi le canzoni. Sul gradino più alto del podio salgono il duetto con Carroll Thompson di Where Is The Love (un classico, definitivamente) e Something Nuh Right, che gli va subito dietro. Gioco fra tirata polemica e riflessione dolente scatenato dall’assoluzione di William Kennedy ─ ricco e bianco e potente ─ da un’accusa di violenza carnale e dalla contemporanea condanna di Mike Tyson ─ ricco e nero e scomodo ─ per la medesima imputazione. Fra una cantilena ragga e la citazione estesa, affidata alla splendida voce di Earl Sixteen, di Is It Because I’m Black?.
Risalgo più indietro nel tempo, a un anno imprecisato nei ’70 giamaicani (quando si tratta di cronologia spicciola, anche l’autorevolissima Rough Guide To Reggae di Steve Barrow e Peter Dalton deve talvolta arrendersi all’impossibilità di ricostruire nei dettagli una storia su cui troppo poco è stato scritto finora). Si chiama Ken Boothe ed è il Sam Cooke della battuta in levare. Seriche corde vocali, fraseggio di eleganza somma e sentimento che avvince oltre ogni dire. Ascoltatelo ─ in una raccolta Trojan, “Eighteen Classic Songs”, che per quanto mi riguarda è uno dei tre dischi reggae da avere (Marley escluso) volendone avere tre (essendo gli altri due “Liberation” di Bunny Wailer e “Time Boom X De Devil Dead” di Lee Perry) ─ alle prese con You Send Me. Vale l’interpretazione originale di Cooke. E, sempre lì, sentite come attorciglia su un cantato tremulo ma intimamente forte il dramma di Is It Because I’m Black?. La lettura più memorabile dopo l’insuperabile prima.
Ci sono arrivato infine, a Syl Johnson, l’oggetto del sesto di questi miei esercizi devozionali mensili, e so che molti di voi avranno detto “Syl chi?”. Ma rasserenatevi: non è mai tardi per rifarsi una vita degna di essere vissuta.
Prosegue per altre 6.147 battute su Super Bad! – Storie di soul, blues, jazz e hip hop. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.33, febbraio 2001. Syl Johnson ci ha lasciato tre mesi fa a oggi, lo scorso 6 febbraio. Aveva ottantacinque anni.
“In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro.” (Alberto Arbasino)