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Quando i Kraftwerk diventarono i Kraftwerk (per Florian Schneider, 7/4/1947-6/5/2020)

Lo scrive Simon Reynolds in Generation Ecstasy, voluminoso tomo datato 1999 nel quale raccontava “il mondo della techno e la cultura del rave”: il sound futuristico e robotico dei Kraftwerk venne influenzato dall’adrenalinico, furente rock’n’roll che si suonava nella Detroit di fine anni ’60. Nel più recente (2014) Future Days, indagine sul krautrock che con più attenzione per certi minori avrebbe costituito la parola definitiva sull’argomento, David Stubbs conferma: fra le rare influenze riconosciute da Florian Schneider e Ralf Hütter figurano gli Stooges. Il che sul subito spiazza e però più ci pensi e più la cosa ha un senso e scorgi collegamenti. La batteria sferzante di Scott Asheton è così diversa dalle percussioni metronomiche di Wolfgang Flür e Karl Bartos? Quello sferragliare di chitarre dalla mimesi ferroviaria inscenata in Trans-Europe Express? Non sono in fondo gli spettacoli, per il resto antipodici, che Iggy e Ralf ancora portano in giro (applauditi e riveriti come non mai) negli anni ’10 del secolo nuovo entrambi delle coreografie? A concentrarsi solo sulla musica si potrebbe poi avere la grossa sorpresa – ventidue testimonianze in “Minimum-Maximum”, doppio dal vivo licenziato dai tedeschi nel 2005, quando Florian faceva ancora parte del progetto – di scoprire che, mentre I Wanna Be Your Dog, No Fun, Search And Destroy si ripropongono all’infinito sostanzialmente uguali a se stesse, micro e macrovariazioni hanno interessato nel tempo, nella riproposizione live, il corpus dell’opera kraftwerkiana.

Scorgi collegamenti e chiudi cerchi, siccome la Motor City che a fine ’60 faceva da sfondo alle gesta di MC5 e Stooges sul versante black vedeva la Motown cominciare, dopo i disordini dell’estate ’67, il trasloco di uffici e studi a Los Angeles, la ribalta occupata dalla collisione fra soul, funk e psichedelia dei Funkadelic di George Clinton. E “la techno sono George Clinton e i Kraftwerk chiusi insieme in ascensore”, come dirà con fulminea sintesi Derrick May, uno dei padri fondatori del genere essendo gli altri Juan Atkins e Kevin Saunderson. Tutti e tre, oltre che neri, di Detroit. Siamo arrivati a metà anni ’80 o se preferite ai giorni nostri. “Per la techno i Kraftwerk rappresentano ciò che Muddy Waters fu per i Rolling Stones: l’origine di tutto, l’imprinting”, dice Kodwo Eshun, regista e scrittore afrobritannico che nel 1998, in More Brilliant Than The Sun, elaborava “uno studio delle visioni del futuro in musica da Sun Ra ai 4 Hero”. Confermando una volta di più il magistero esercitato dal gruppo di Düsseldorf su tanta black. Ma ciò soprattutto a partire dall’album successivo a questa accoppiata. Tuttavia quella che gli faceva superare i confini patri.

Nondimeno: natura non facit saltus e la storia dei Kraftwerk non fa eccezione. Nell’estetica: le copertine austere dei primi due LP (la seconda giusto una variazione cromatica di quella del debutto) potrebbero appartenere a un periodo successivo. Nella strumentazione: che gradualmente aggiunge e sottrae pezzi e ovviamente la scrittura si evolve in rapporto a essa. Se nell’omonimo esordio l’armamentario è – con le interessanti aggiunte di violino e flauto e la non meno intrigante assenza del basso – quello del rock e sono uso ed effettistica a fare adombrare più elettronica di quanta non ve ne sia, in “2” appare, in Klingklang, una primitiva “rhythm machine” e per la popular music è una prima assoluta, record condiviso con la hit di Sly & The Family Stone Family Affair. La composizione occupa pressoché per intero la prima facciata e non si può non cogliervi, nella distesa sezione centrale, un anticipo di quanto si ascolterà, due dischi e quasi tre anni dopo, nella title track di “Autobahn” (inoltre di identica collocazione in scaletta). Nel 1972 con grosso sforzo economico vengono acquistati i primi sintetizzatori, un Minimoog e un EMS, messi a frutto l’anno dopo in “Ralf und Florian”, dove però piano e organo Farfisa risultano ancora dominanti. Dopo due lavori interamente strumentali fa la sua comparsa la voce, in Tanzmusik e in Ananas Symphonie. Nella seconda, deformata da un vocoder. Come dire, in un colpo, che i Kraftwerk adesso usano le macchine e le macchine parlano, sebbene limitandosi a vocalizzi senza parole nel primo pezzo citato e a recitare per alcune volte il titolo nel secondo.

Di “Autobahn”, pubblicato nel novembre 1974, esistono diverse copertine. Fondamentalmente due ma della prima, quella ideata in origine per il mercato tedesco e adottata pure in Francia, Italia e Stati Uniti, si contano varie versioni: con o senza cartello stradale, con o senza cruscotto e con sul retro Flür oppure il grafico e poeta Emil Schult a far compagnia a Ralf, Florian e Klaus Röder, chitarrista e violinista parte in commedia per quest’unica volta. Dettagli. Importa di più che l’artwork della stampa UK adotti una stilizzazione geometrica, le due corsie interrotte da un cavalcavia, che appare o meglio ci appare assai più Kraftwerk. E però con il senno del poi, di come il gruppo evolverà in una vicenda, come si sottolineava dianzi, in continuo divenire. Almeno fino a “Computer World” (dunque quasi per intero) incluso. Ma gli uomini-macchina sono lontani, qui due vetture solitarie corrono su un’autostrada per il resto deserta e circondata da un panorama verdeggiante, pastorale.

Stiamo viaggiando sull’autostrada / di fronte a noi un’ampia vallata / il sole splende con raggi scintillanti / la strada è una pista grigia / strisce bianche, verde lo spartitraffico / Accendiamo la radio / dall’altoparlante una voce: / stiamo viaggiando sull’autostrada.

Una portiera che si chiude, un motore che si avvia, due colpi di clacson, una voce filtrata che per quattro volte annuncia “autobahn”, sempre più alta e stridula. Un pulsare meccanico a far le veci del basso, una melodia elementare e solenne disegnata da una tastiera elettronica. Partiti! Viaggio che durerà quasi ventitré minuti (tutto il primo lato del 33 giri), conducendoci fuori dalla città per vie sinuose squisitamente disegnate dal moog prima di farsi, passato il casello, più monotono. Però di una monotonia relativa, apparente. Cambia il paesaggio e scorci di natura incontaminata, al netto del nastro di cemento che la traversa, lasciano posto a capannoni e fabbriche. Il traffico si fa più intenso, si rallenta, si sorpassa, di nuovo si decelera e la guida non è più tanto piacevole. Affaticati, si giunge infine a destinazione, mentre calano le ombre della sera. La seconda facciata riparte da lì, da una Kometenmelodie che nella prima parte porge dei Kraftwerk singolarmente kosmische, non distanti dai Tangerine Dream, salvo nella seconda alzare i ritmi e farsi ballabile, preconizzando il techno-pop che imminentemente sarà, non fosse che gli manca la parola. Mitternacht dapprima galleggia estatica e quindi a momenti si arresta, fra clangori e cigolii di macchinari che inducono inquietudine subitaneamente cancellata dai cinguettii che introducono a Morgenspaziergang, il flauto di Florian Schneider che balena bucolico prima di essere riposto in una custodia poi chiusa in un cassetto, per sempre. Girotondo estatico e mai più i Kraftwerk saranno così pacificati e… hippie.

Altri “mai più”: è l’ultimo album dei Nostri prodotto da Conny Plank, che li aveva affiancati sin dai primissimi passi, quando ancora si chiamavano Organisation; l’ultimo non registrato in quel Kling-Klang Studio che, ormai adeguatamente attrezzato, sarà da qui in avanti covo e laboratorio esclusivo; nonché l’ultimo non completamente elettronico, visto che oltre al summenzionato flauto vi si ascoltano parti di chitarra e violino. Fino a quel punto discretamente famoso in una Germania che è ancora Repubblica Federale Tedesca ma sconosciuto altrove, il gruppo si ritrova proiettato in un’altra dimensione dal successo di quella che formalmente, avendo un testo e un cantato, sarebbe la sua prima canzone ma con quel minutaggio – 22’43” – naturalmente non lo è. Lo diviene con il radicale editing che la riduce a una durata canonica da singolo, 3’06” la stampa britannica, 3’28” tutte le altre. Risalta così un pop appeal talmente straordinario da rendere ininfluente il dettaglio della lingua, ostacolo di solito insuperabile nei mercati anglofoni. Contribuisce un fantastico equivoco, il “fahr’n fahr’n fahr’n” (sì, viaggiare, per dirla con Mogol/Battisti) scambiato per un “fun fun fun” di beachboysiana memoria e c’è chi azzarda paralleli fra i surfisti californiani che cavalcavano le onde e i ragazzi di Düsseldorf, che affrontano invece dune di asfalto. Lester Bangs sublimemente sbrocca da par suo, ma non sono ovviamente i favori della critica a far scalare ad Autobahn i Top 200 di “Billboard”, fino al numero 25, bensì quelli delle radio. Trascinato dalla già notevole performance, l’omonimo 33 giri fa persino meglio, arrivando al quinto posto. I Kraftwerk si affrettano ad andare in tour negli USA, ma è probabile, praticamente certo che per i discografici si tratti di monetizzare finché possibile un brano che percepiscono come una novelty. Un conto è uno Stevie Wonder che infiltra di elettronica ballate soul e ballabili funk, altro pensare che una musica che rinuncia totalmente agli strumenti convenzionali possa entrare stabilmente nei gusti delle masse.

Pubblicato nell’ottobre del 1975, ad appena undici mesi dunque dal predecessore, “Radio-Activity” parrebbe dar loro ragione, un numero 140 negli USA e fuori dai Top 20 tedeschi, la sola Francia ad adottarlo, in controtendenza, incoronandolo re della graduatoria di vendita degli LP. Ma chi volesse dedicare un attimo a studiarsi la storia dei Kraftwerk da un punto di vista mercantile scoprirebbe che il gruppo che rivaleggia con i Beatles per il titolo di più influente di sempre negli annali del pop non è comunque mai stato, nemmeno quando la sua popolarità era all’apice – nei tardi ’70, primi ’80 – un campione di incassi.

Artwork di pulizia Bauhaus e involontaria ambiguità nell’immagine di un apparecchio icona della propaganda nazista, laddove per tutto il resto l’equivoco è scientemente cercato sin da un titolo che gioca fra fascinazione per il primo strumento di diffusione della musica nei tempi moderni e mistica dell’era nucleare, il disco si presenta in prospettiva (come già “Ralf und Florian”) come la più tipica delle opere “di transizione”. Ma a ragione Stubbs osserva che “l’essere irrisolto, forse persino affrettato nella realizzazione, finisce per rappresentare probabilmente, paradossalmente la prima delle sue qualità”. Delle dodici tracce in scaletta cinque sono sotto il minuto e mezzo (una di quindici secondi appena), una sesta di poco sopra i due. Raggruppate per metà fra fine primo lato e inizio secondo (la continuità offerta dal CD risulta allora più congeniale alla lettura d’assieme) rappresentano il congedo dai Kraftwerk sperimentalisti a volte puri (e ruvidi, e ingenui) che erano stati, nel mentre il resto del programma prospetta l’ecumenismo – ritmico, melodico – sofisticatissimo sotto un’ingannevole semplicità di quelli che saranno, che già sono. Per quanto questa sia una narrazione un po’ grossolana, cui ad esempio sfugge la respingente iterazione di sinusoidi di Radio Stars, il cui argomento non sono le stelle della radio, che il video assassinerà come canteranno quei fenomeni da un colpo solo dei Buggles, bensì… le stelle. La perfezione in un album imperfetto sta nel capo e nella coda: nei 6’44” del brano che, introdotto dal pulsare ansiogeno di un Geiger Counter, lo battezza citando i Pink Floyd e quindi facendosi anello di congiunzione fra Autobahn e The Robots; nei 5’40”, da valzer in moviola a fuga per rotte astrali, di una dolcissima Ohm Sweet Ohm. Avrà auspicabilmente colto, chi legge, l’ironia del titolo.

Flür confermato in organico, “Radio-Activity” vede aggregarsi un secondo percussionista, Karl Bartos. Da “The Man-Machine” e fino a “Electric Café” sarà come un terzo leader e anzi un secondo, inferiore in ruolo giusto a un Ralf Hütter che ha preso nettamente il sopravvento su Schneider a livello compositivo. Ma sono altre storie, che altri provvedono a raccontarvi.

Pubblicato per la prima volta sul sito www.soundwall.it il 13 ottobre 2017. La notizia della scomparsa di Florian Schneider è stata diffusa oggi. Pare in realtà che la morte, per cancro, risalga ad alcuni giorni fa e che già siano state celebrate le esequie.

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Il disco più stiloso e jazz di Tony Allen (1940-30/4/2020)

Un aneurisma si è portato via ieri Tony Allen, l’uomo che – come raccontavo brevemente qui – diede con la sua batteria un contributo incommensurabile all’invenzione da parte di Fela Kuti dell’afrobeat. Attivo e (testimonia il manager Eric Trosser) in gran forma fino all’ultimo, aveva pubblicato poche settimane fa un gran bel disco, “Rejoice”, ove raccoglieva incisioni risalenti al 2010 con lo scomparso (nel 2018) Hugh Masekela. Il suo ultimo album da solista risale invece a tre anni or sono ed era un omaggio a quel jazz che lo aveva fatto innamorare della musica e dell’Africa era a sua volta innamorato. Non voleva essere un congedo, ma un congedo migliore mi sembra oggi inimmaginabile.

The Source (Blue Note, 2017)

Nel 1962 Art Blakey – il più grande batterista della storia del jazz? se la gioca con Max Roach – dava alle stampe, per i tipi della Blue Note, “The African Beat”. È un LP nel quale i ritmi del jazz si mischiano con quelli del Continente Nero ed era una prima volta per Blakey, affiancato da sei percussionisti africani. Le vere star del lavoro, se si guardano i crediti compositivi. Quarantacinque anni dopo, e sempre su Blue Note, Tony Allen – chi potrà contestargli il titolo di più grande dei batteristi africani? e questo già solo considerando la produzione da leader, senza nemmeno tenere da conto la storica collaborazione con Fela Kuti – ha pubblicato un EP in cui omaggia Blakey da par suo, rileggendo Moanin’, Night In Tunisia, Politely e The Drum Thunder Suite. Succedeva in maggio ed era quasi una chiusura di cerchio per chi in Blakey ha sempre visto un maestro ma senza che la lezione di costui apparentemente ne influenzasse l’inconfondibile stile, pietra d’angolo ritmica dell’afrobeat. Il cerchio si chiude del tutto ora, con un album viceversa autografo. Sempre su Blue Note (nota per l’audiofilo: incisione sugli altissimi standard della casa e che la stilosa copertina rivendica “AAA”) e con un ensemble francese dal rimarchevole senso del groove a dar man forte al titolare.

Parlando ancora di cerchi che si chiudono: se in Moody Boy si parte dal Coltrane più classico per approdare a una ballabilità fra errebì e funk, in Wolf Eats Wolf si fa il percorso inverso, dall’afrobeat più ruspante al jazz. Altrove – in una Cruising ellingtoniana, in un Tony’s Blues che pare scritto da Mingus per Fela, in una Ewajo peraltro devota a Miles – ogni confine si confonde. Che è la ragione per cui questo disco stupendo sta qui e non in un’altra sezione del giornale.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.392, ottobre 2017.

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John Prine (10/10/1946-7/4/2020) in due album, il primo e l’ultimo

You’ve been enjoying a pretty amazing run over the past few years. Your last album became your highest charting LP and got several Grammy nominations. You’ve been playing to big crowds…

“Seems I can’t do any wrong these days. About five years ago, I was thinking about, not retiring, but just kicking back and doing fewer shows. But ever since I brought out ‘The Tree Of Forgiveness’ we’re doing everything we can just to keep up with it. It’s still selling after 18 months, I’m getting a lot of young kids coming to the shows, and in turn they’re going back and listening to my old stuff.”

(Dall’ultima intervista concessa da John Prine, pubblicata da “Mojo” sul numero di marzo 2020.)

John Prine (Atlantic, 1971)

Per essere uno che dei diciotto lavori in studio pubblicati dopo questo è riuscito a piazzarne solo uno nei Top 100 di “Billboard” (“Common Sense” nel 1975; peraltro uno dei meno apprezzati dai suoi estimatori), se ne è tolte di soddisfazioni John Prine. Di morali soprattutto in un secolo nuovo che, oltre all’introduzione nel 2003 nella “Nashville Songwriters Hall Of Fame”, lo ha visto collezionare due Grammy e quattro vittorie agli “Americana Music Honors & Awards”. Di monetarie sin dai lontani anni ’70 che inaugurava con questo meraviglioso debutto, ignorato appunto dalle classifiche ma in compenso apprezzatissimo da colleghi in cerca di brani da far loro (d’altro canto: alla Atlantic era approdato su raccomandazione di Kris Kristofferson). Se lui di hit in prima persona non ne ha mai avute, a elencare chi lo ha coverizzato non basterebbero un paio di colonne di questo volume e basti allora citare un paio di nomi ovvi (Johnny Cash e Bonnie Raitt) e un paio molto meno (Bette Midler e Paul Westerberg). “John Prine” contiene alcune delle sue composizioni classiche e fra esse due fra le più memorabili di tutte: l’agrodolcissima Donald And Lydia e la sconvolgente Sam Stone, ritratto visto con gli occhi del figlio di un reduce dal Vietnam precipitato negli abissi della tossicodipendenza.

Pubblicato per la prima volta su Rock: 1000 dischi fondamentali più cento dischi di culto, Giunti, 2019.

The Tree Of Forgiveness (Oh Boy, 2018)

Sulla copertina del suo diciannovesimo lavoro in studio l’uomo che nientemeno che Bob Dylan paragonò nientemeno che a Marcel Proust sembra anche più vecchio dei settantun anni che ha. D’altra parte: tanta grazia che questo disco – prima raccolta di materiali autografi da tredici anni in qua, dopo una di standard country e una di duetti con voci femminili – veda la luce, giacché l’autore è sopravvissuto a un cancro ai polmoni quasi tre lustri dopo averne sconfitto uno della pelle. È alla radioterapia che lo aiutava a sbarazzarsi del primo che dobbiamo una voce più profonda e roca che negli album che lo hanno consegnato alla storia della canzone d’autore americana del Novecento: l’epocale, omonimo esordio del 1971; il quasi altrettanto meraviglioso “Sweet Revenge”, del ’73; in seconda battuta il sorprendente (schiettamente rockabilly, però solo per metà di brani suoi) “Pink Cadillac”, del ’79. A quella, più che alle sigarette cui ha dovuto giocoforza rinunciare e che rimpiange talmente da pregustare, nella conclusiva delle dieci tracce che sfilano in “The Tree Of Forgiveness”, quella che per prima cosa si fumerà non appena ammesso in paradiso: una lunghissima, nove miglia.

Alternativamente recitata e cantata e musicalmente sgangheratella, When I Get To Heaven è il solo mezzo passo falso – perdonabile; paradossalmente, ben altra pregnanza evidenziava Prine scrivendo a venticinque anni appena un capolavoro di canzone sull’invecchiare quale Hello In There – in un disco se no strepitoso. Fra il resto due pezzi con la statura del classico istantaneo: Caravan Of Fools potrebbe confondersi in un “Best Of” di Johnny Cash, The Lonesome Friends Of Science in uno di Townes Van Zandt.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.399, giugno 2018.

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Quell’unico disco, magnifico di Hal Willner (5/4/1956-6/4/2020)

Noto al pubblico americano soprattutto per essere stato – dal 1981! – il responsabile delle musiche di “Saturday Night Live”, Hal Willner è stato ucciso (beffardamente, all’indomani del suo sessantaquattresimo compleanno; la notizia è stata diffusa ventiquattr’ore dopo) dal virus che sta cambiando probabilmente per sempre (o comunque per molto, molto tempo) le vite di tutti noi. La platea dei musicofili lo ricorda soprattutto per essere stato colui che portò al massimo stato dell’arte il difficilissimo esercizio dell’album-tributo e per avere prodotto fra gli altri Marianne Faithfull, Bill Frisell, Lucinda Williams, Lou Reed e Laurie Anderson. Nonché per l’avere portato per primo su un palco Jeff Buckley, lanciandone di fatto la carriera. In pochi hanno invece memoria dell’unico disco che pubblicò a suo nome. E che è bellissimo.

Whoops I’m An Indian (Pussyfoot, 1998)

Tutti i progetti ai quali il produttore Hal Willner ha posto mano nei suoi oltre tre lustri di carriera hanno avuto il carattere dell’eccezionalità, a partire da quel “Rota Amarcord” che vide musicisti jazz alle prese con un gigante delle colonne sonore, Nino Rota, doppiato due anni dopo, nel 1984, da “That’s The Way I Feel Now”, che vedeva musicisti rock cimentarsi con un gigante del jazz, Thelonious Monk. Sono seguiti – vado a memoria – tributi a Kurt Weill, alla musica dei film di Walt Disney e a Charles Mingus, dischi con Allen Ginsberg e con William Burroughs e i Disposable Heroes Of Hiphoprisy insieme e svariati lavori per il cinema. Logico dunque che il debutto in proprio di Willner fosse atteso con curiosità e magari un po’ di diffidenza: sarebbe stato all’altezza?

Assolutamente sì. “Whoops I’m An Indian” va persino oltre le aspettative svolgendo un lavoro di sintesi inaudito che coinvolge i ritmi di New Orleans come quelli della drum’n’bass, musiche etniche di ogni dove, jazz, bossanova, voci soul, gospel e fantasmatiche e tant’altro ancora. Senza termini di paragone (l’unico a venirmi in mente che non sia del tutto improponibile è “My Life In The Bush Of Ghosts” di Brian Eno e David Byrne) e praticamente indescrivibile a parole, a meno di non riempire pagine su pagine. Suonate la prima traccia, che intitola l’album tutto, e ve ne renderete conto: su un funky paludoso che arriva dritto da Crescent City si inseriscono chitarre hawaiiane e una minacciosa voce “trovata”. Inclassificabile, “Whoops I’m An Indian”: pensate a una collaborazione che coinvolga (auspice lo spirito di Sun Ra) Van Dyke Parks, Tom Waits, la Dirty Dozen Brass Band, Captain Beefheart, John Lurie, i Neville e i Chemical Brothers e qualche DJ jungle. Non vacilla la mente?

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.8, novembre/dicembre 1998. “Whoops I’m An Indian” non è mai stato ristampato, ma su Discogs ed eBay lo vendono a pochi spiccioli.

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Fountains Of Wayne – Pure Pop For Now People

Che brutto pesce d’aprile ci ha fatto ieri Adam Schlesinger – fondatore nel 1995 dei Fountains Of Wayne e co-autore dell’intero repertorio fino allo scioglimento, datato 2013 – andandosene a soli cinquantadue anni. Lo ha strappato all’affetto dei fan e della famiglia questa pandemia che sta cambiando per sempre le vite di tutti noi.

Out-Of-State Plates (Virgin, 2005)

Al prossimo anno saranno due tondi decenni dacché Adam Schlesinger e Chris Collingwood si conobbero al college e, assodata la passione comune per il pop britannico più melodico dai Beatles in giù, decidevano di mettersi a scrivere canzoni insieme. Divisi una serie di gruppi effimeri, davano vita ai Pinnwheel e si separavano quando un intero LP inciso con quella ragione sociale veniva accantonato per una grana legale. Il primo si univa allora ai newyorkesi Ivy, il secondo ai bostoniani Mercy Buckets. Quest’anno fa un tondo decennio dacché Adam Schlesinger e Chris Collingwood rinnovavano il loro sodalizio e questa volta con maggiore fortuna, con la sigla Fountains Of Wayne.

Tre album e un successo da Top 40 un po’ ovunque (Stacy’s Mom) dopo, festeggiano la ricorrenza svuotando gli archivi: forte di un paio di brani nuovi brillanti ancorché troppo simili fra loro (Maureen e The Girl I Can’t Forget: zuccherini frullati di punk e pop, wave ed errebì), “Out-Of-State Plates” raduna retri di singoli, partecipazioni a raccolte, registrazioni live, inediti assoluti e insomma minutaglia assortita non su uno ma addirittura su due CD e i due soci modestamente si scusano per la logorrea, in una noterella in cima al libretto. Non dovrebbero: quale più eclatante conferma del loro valore della qualità e della godibilità media di una raccolta di “scarti”? Dove brillano le loro qualità di autori così come la capacità di rendere con irresistibile verve canzoni altrui, si tratti di una Trains And Boats And Planes di Burt Bacharach sistemata a mezza via fra Byrds e Beach Boys, di una Can’t Get It Out Of My Head che fa diventare gli E.L.O. i R.E.M. o di …Baby One More Time. Di Britney Spears, nientemeno.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.260, settembre 2005.

Sky Full Of Holes (Yep Roc, 2011)

Vista la costante contrazione del mercato discografico, sono numeri che vanno presi con ampio beneficio d’inventario. Insomma: arduo dire se un numero 37 odierno nella classifica USA (in tale posizione si situa “Sky Full Of Holes” nel momento in cui scrivo queste righe) valga di più in termini di copie vendute del 97 che raggiungeva quattro anni fa “Traffic And Weather” (probabilmente sì) o del 115 cui si arrestava nel 2003 “Welcome Interstate Managers” (probabilmente no). Quel che è sicuro è che all’epoca di quest’ultimo i Fountains Of Wayne soggiornavano ancora in area major (erano su Virgin, dopo avere pubblicato due lavori su Atlantic) e che, oltre a godere di un supporto promozionale importante, potevano cavalcare l’onda di quello che resta a oggi (certificato da un disco d’oro) l’unico loro singolo davvero di successo, Stacy’s Mom. Quest’album nuovo, il loro quinto, non ha viceversa finora beneficiato di un’analoga spinta, visto che né Richie And Ruben (immaginate i Plimsouls alle prese con i Creedence) né una Someone’s Gonna Break Your Heart melodicamente ancora più efficace sono riuscite a catturare l’attenzione del grande pubblico.

Pazienza. Fanno loro contorno altre undici canzoni con le carte in regola per farsi trasmettere almeno da un certo tipo di radio. Da una Acela che si sarebbe potuta ascoltare dai Blur a una Action Hero che posiziona Paul Simon in un contesto Beatles, da una Workingman’s Hands byrdsiana a una Radio Bar con i fiati che luccicano e martellano quanto le chitarre. E può darsi dunque che per i Nostri sia comunque giunta l’ora (inspiegabile perché non sia accaduto prima) del passaggio di categoria: da culti a stelline. Lo meriterebbero proprio.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.326, ottobre 2011.

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Sweet Soul Makossa (r.i.p Manu Dibango, 12/12/1933-24/3/2020)

Quel che si dice non partire con il piede giusto: scritta nel 1972 per accompagnare, in una dimenticata Coppa dei Tropici, una nazionale di calcio del Camerun ben lungi dall’essere la spettacolare macchina che a Italia 90 umilierà i campioni in carica dell’Argentina, Soul Makossa pagava l’eliminazione subito subita dalla squadra venendo fatto a pezzi dai tifosi delusi. Leggenda narra che ben pochi esemplari della prima tiratura di quel singoletto si salvarono. Ma, smaltita la delusione, le radio riprendevano a passare il pezzo, che in breve diventava il più richiesto nei concerti dell’allora già trentottenne sassofonista. Di passaparola in passaparola, di paese in paese, di continente in continente, andava a finire che si vendevano un paio di milioni di copie del 45 giri e svariate centinaia di migliaia dell’album prontamente approntato per cavalcare l’onda. Un solo pezzo bastava a Manu Dibango per conquistare una popolarità ben più diffusa globalmente di quella di un Fela Kuti e a insidiarne il trono di re dell’afrofunk. Artisti (collaborarono anche) da non confondere tuttavia: Dibango veniva dal jazz e nei suoi dischi, certo meno di impatto di quelli del rivale ma in compenso più variegati, si è sempre sentito.

Non fa eccezione questo spettacolo che testimonia di una forma invidiabile per un’età ormai ai limiti del venerando. Spalleggiato da un gruppo eccelso, in “Uriage 2005: En Live” il nostro uomo dà fondo al suo bagaglio di trucchi aggirandosi gigione fra New Orleans, Giamaica e Africa, declinando indifferentemente funky dal pigro all’indiavolato e festoso reggae, soul e giustappunto jazz. È un’abbondante ora e mezza di godibilità estrema, rimpinguata da una ventina di minuti di “dietro le quinte” tratti da altri concerti. Indovinate a quale brano è riservato il gran finale…

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.276, febbraio 2007.

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Il capolavoro dimenticato di Andrew Weatherall

Negli innumerevoli omaggi apparsi ieri all’uomo che più di ogni altro contribuì a mettere in comunicazione rock ed elettronica da dancefloor, in una stagione felicemente, estaticamente irripetibile, tutti si sono naturalmente diffusi su “Screamadelica” e sul ruolo che ebbe Andrew Weatherhall (venuto a mancare davvero troppo presto) nel suo concepimento. In pochissimi hanno viceversa anche solo citato un altro grande classico griffato dal nostro uomo. Talmente negletto da non essere mai stato ristampato da quando vide la luce, la bellezza di ventisei anni fa.

Sabres Of Paradise – Haunted Dancehall (Warp, 1994)

Uomo di fatica e tecnico al seguito dei Clash a sì e no vent’anni (e già solo per questo andrebbe invidiato e idolatrato), Andrew Weatherall incrocia nel 1989 il percorso di un altro gruppo importante, i Primal Scream. È rimasto nel frattempo folgorato dalla acid house e così Bobby Gillespie e soci. L’incontro frutta prima il remix di Loaded e quindi, nel 1991, l’epocale “Screamadelica”, nettamente l’esito più succoso della copula fra rock e dance. Poco dopo Weatherall si inventa una sua carriera discografica non solo come produttore e remiscelatore dando vita, con Jagz Kooner e Gary Burns, ai Sabres Of Paradise, titolari di due album più una raccolta prima che il leader cambi ragione sociale e collaboratori avviando la saga Two Lone Swordsmen. “Haunted Dancehall” è il secondo: un viaggio notturno nelle viscere di Londra dagli umori affatto diversi (stacco che si nota soprattutto nella preziosa edizione vinilica che lo divide in quattro facciate) fra una prima metà smargiassa e ludica (favolosi l’elettro-jazz di Duke Of Earlsfield, una Wilmot fra Arabia e golfo di Napoli e una Tow Truck fra surf e dub e parecchio clashiana) e una seconda via via sempre più cupa e rarefatta.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.14, estate 2004.

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Quattro recensioni di album di (e con) Daniel Johnston e una considerazione

“L’affetto c’è sempre, quando si scrive di Daniel Johnston, ma ci vorrebbe forse più rispetto. Mettere da parte per quanto possibile gli aneddoti sulla salute mentale spesso traballante – sull’infantilismo, l’insicurezza, le paranoie che ne condizionano il rapporto con il mondo – di un bambino prodigio imprigionato nel corpo di un quarantacinquenne malmesso, sempre più grasso e grigio, e concentrarsi sul genio di uno dei più grandi autori di canzoni dell’ultimo quarto di secolo.” (2006)

Fear Yourself (Sketchbook, 2003)

Imponente per nomi e numeri il fan club di Daniel Johnston: Kurt Cobain si presentò nel 1992 a una premiazione di MTV indossando una sua t-shirt; Pastels e Yo La Tengo hanno ripreso Speeding Motorcycle; Lou Reed  ha cercato di registrare qualcosa con lui, Eddie Vedder dei Pearl Jam l’ha vagheggiato, un paio di Sonic Youth ci sono riusciti; Jad Fair degli Half Japanese lo ha affiancato in due dischi, Paul Leary dei Butthole Surfers produsse nove anni fa il suo primo album per una major e per quest’ultimo si è scomodato Mark Linkous degli Sparklehorse. “Artistic Vice”, uno dei dischi di culto degli anni ’90, fu invece prodotto da Kramer. Cercatelo senza darvi pace fin quando non lo avrete trovato, mettete su il primo brano, My Life Is Starting Over, e sarà amore, di quelli che durano per sempre. Daniel Johnston è un Genio. Daniel Johnston confeziona – da oltre vent’anni! – melodie di un’efficacia inaudita dai tempi di Lennon/McCartney e del Brian Wilson maggiore. Daniel Johnston ha un piccolo problema: per lui Manic Depression non è il titolo di una canzone di Jimi Hendrix, è la sua vita. Questo omone dalla faccia bonaria, che dimostra molti anni più dei quarantadue che ha, entra ed esce da decenni da cliniche per malattie mentali e solo l’affetto dei tanti che lo ammirano e l’abbraccio protettivo di una famiglia benestante gli ha dato modo finora di vivere un’esistenza a tratti normale e di non venire definitivamente istituzionalizzato. Daniel Johnston fa una disperata tenerezza ma a starci vicino può fare talvolta paura, come ben sa il padre, che rischiò di schiantarsi con l’aereo che stava pilotando quando il figliolo lo aggredì accusandolo di essere Satana. Insomma: poco probabile che possiate leggere in futuro una sua intervista. Ancora meno che possiate vederlo dal vivo in un qualche club dalle vostre parti.

Vi restano le canzoni, che sono centinaia ma perlopiù irreperibili, siccome pubblicate in buona parte su cassette che il Nostro (la cui discografia conta alcune decine di titoli) a lungo ha regalato per strada. Accontentatevi momentaneamente della dozzina contenuta in “Fear Yourself”. Ce n’è di che perdere la testa, che si tratti di power pop degno dei Ramones (Love Not Dead, Living It For The Moment) o di Jonathan Richman (Fish), di pigolante e irresistibile lo-fi (Now), o ancora di dolenti incantesimi prevalentemente pianistici (Love Enchanted, You Hurt Me). Qualcosa potrebbe appartenere ai Flaming Lips (The Power Of Love), altro – indifferentemente – a John Lennon o a Randy Newman (Wish). Sull’adesivo incollato alla copertina un altro estimatore importante, David Bowie, dichiara fin d’ora “Fear Yourself” uno dei suoi album preferiti del 2003. Saranno in legioni ad accodarsi.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.528, 8 aprile 2003.

Daniel Johnston/Artisti vari – Discovered/Covered (Gammon, 2004)

Un’isola dei famosi il fan club di Daniel Johnston: Kurt Cobain si presentò a una premiazione di MTV con una sua t-shirt, Lou Reed ha cercato di registrare qualcosa con lui, Eddie Vedder pure, un paio di Sonic Youth ci sono riusciti, Jad Fair degli Half Japanese lo ha affiancato in due dischi, Paul Leary dei Butthole Surfers produsse dieci anni fa il suo primo album per una major. Per l’ultimo “Fear Yourself” si è scomodato, nel 2003, Mark Linkous degli Sparklehorse. Mentre di “Artistic Vice”, uno dei dischi di culto degli anni ’90, si occupò Kramer. Dimenticavo: fra i tesserati anche David Bowie. E poi Teenage Fanclub, Gordon Gano, Bright Eyes, Beck, Mercury Rev, Vic Chesnutt… Tom Waits: per non citare che alcuni dei nomi che nel primo dei due CD che compongono “Discovered Covered” (attribuito con nero humour a The Late Great Daniel Johnston e con in copertina il nostro eroe davanti alla sua tomba) si misurano con uno dei cataloghi più idolatrati – da chi “sa” – e oscuri – per il grande pubblico – della canzone rock d’autore americana dell’ultimo paio di decenni.

Sono versioni quasi sempre felici e in qualche caso bellissime – vorrei citare almeno una Walking The Cow dalle parti di John Cale dei T.V. On The Radio, i Bright Eyes che rendono alla Jonathan Richman Devil Town, una Go di Sparklehorse & Flaming Lips trapunta d’archi, lo Waits ultra-beefheartiano di King Kong – che, nel mentre esaltano il genio melodico di questo eterno ragazzone tormentato da sempre da seri problemi mentali, in un certo qual modo lo normalizzano. Su un secondo compact che dà nuovi significati all’espressione “low-fi” ci sono gli stralunati originali e sentirli a ruota è esperienza che lascia emotivamente scossi. E catturati per sempre.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.251, novembre 2004.

Lost And Found (Sketchbook, 2006)

Come almeno una volta in ogni suo disco, anche in “Lost And Found” c’è un momento in cui Daniel Johnston ti lacera l’anima e ne butta via i brandelli. Accade in Lonely Song, passo irresistibile e melodia pure, roba che potrebbe venire da un album dei Kinks periodo “Face To Face”, tranne che c’è un tocco country che rimanda a “Muswell Hillbillies”, e insomma una cosuccia impossibilmente carina che davvero non ti prepara a sentirti dire che “se ascolti veramente con attenzione/potrai sentire la disperazione di un cuore/triste e spezzato – il mio”. Epifania che ne pareggia tante regalateci in passato dal nostro scombinato eroe. Tipo quando in Love Defined (da “Yip/Jump Music”, 1983) citava direttamente San Paolo e tanti saluti a quanti hanno posto al centro del suo mito un’incapacità di intendere e volere che rischia di farsi folklore, dopo e peggio che tragedia: “L’amore sopporta ogni cosa/Crede in ogni cosa/Spera ogni cosa/Fa durare ogni cosa/L’amore non finisce mai”. Idiot savant, allora? Certo savant a sufficienza da polemizzare con l’industria discografica in The Chords Of Fame (da “It’s Spooky”, 1988) e pigliare in giro in Happy Time (da “Fun”, 1994, la sua unica uscita major) Allen Ginsberg. L’affetto c’è sempre, quando si scrive di Daniel Johnston, ma ci vorrebbe forse più rispetto. Mettere da parte per quanto possibile gli aneddoti sulla salute mentale spesso traballante – sull’infantilismo, l’insicurezza, le paranoie che ne condizionano il rapporto con il mondo – di un bambino prodigio imprigionato nel corpo di un quarantacinquenne malmesso, sempre più grasso e grigio, e concentrarsi sul genio di uno dei più grandi autori di canzoni dell’ultimo quarto di secolo.

“Lost And Found” è un album buono come quasi qualunque altro (un’abbondante ventina e senza contare le cassettine casalinghe regalate agli angoli delle strade all’inizio, suoi primi messaggi in bottiglia) per accostarsi a Johnston, che tanto il capolavoro a tutto tondo non lo confezionerà mai siccome gli ci vorrebbe accanto come produttore (Mark Linkous ci andò vicino tre anni fa con “Fear Yourself”) uno altrettanto disconnesso ma nel frattempo connesso. È il consueto campionario strambo e intrigante di pestate innodie rock’n’roll (Rock This Town, Rock Around The Christmas Tree) e squisite per quanto storte ballate (Try To Love, la programmatica Country Song), fra una marcetta fratturata (Foolin’) e una gigiona (It’s Impossible), una strombazzante ossessione (Wishing You Well) e un ilare beat radente lo ska (Everlasting Love). Il tutto porto dalla solita voce gracchiante, tremolante, indolente, che respinge certuni più dell’ustionante sincerità di quanto canta.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.23, autunno 2006.

Beam Me Up!! (Hazelwood, 2010)

Ho un discreto numero di dischi di costui, anche se percentualmente una minoranza di una produzione straripante soprattutto negli ’80, quando il nostro squinternato eroe i suoi album li registrava su cassette che poi regalava o li pubblicava per case minuscole. Ed erano vie imperscrutabili quelle per cui tramite finivano in mano a gente famosa o prossima a diventarlo, a Bowie come a Lou Reed, a Sonic Youth e Sparklehorse, Yo La Tengo o Cobain. Tutti… ahem… pazzi per Johnston e in particolare l’ultimo, che se ne faceva propagandista tanto appassionato da persuadere la Atlantic che fosse il caso di ingaggiarla l’aspirante rockstar più improbabile di sempre. Sapete come finì: per quanto le melodie che disegna siano fra le più limpide da Lennon/McCartney in poi, Daniel è un personaggio ingestibile che oltre il culto non può andare. Ho un discreto numero di dischi suoi, ma devo dire che a oggi nessuno mi aveva messo a disagio quanto questo doppiamente finto – nel senso che in massima parte le canzoni erano già note ma nessuna è stata un vero successo e tutte sono state riarrangiate per l’occasione – “Greatest Hits”. Per via di una voce sempre più stridula, barcollante e di suo ansiogena, che fa risaltare come non mai testi espressione di un disagio mentale che devasta.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.670, maggio 2010.

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Funkify Your Life (Per Art Neville, 17/12/1937-22/7/2019)

Se la voce maschile per antonomasia di New Orleans fu Lee Dorsey (quella femminile Irma Thomas), se l’autore e produttore più importante della città della Louisiana è stato senz’ombra di dubbio Allen Toussaint, altrettanto indiscutibilmente il complesso che ne ha più esemplarmente rappresentato il suono – meticcio, terrigno, vudù – sono stati i Meters: per tutti quelli che non votano per Booker T. & The MG’s, il più notevole gruppo strumentale della storia del soul. Se le due formazioni avevano in comune la fluida elasticità della sezione ritmica e un organo debordante, molto le distingueva (a parte esiti mercantili che premiarono maggiormente, grazie a una migliore distribuzione, i primi). A farla breve: più rhythm’n’blues Booker e accoliti, più funk la compagine guidata da Arthur Neville. Su moltissimi dei classici giuntici dalla Crescent City degli anni ’60, griffati Dorsey o Thomas, Earl King o Betty Harris e sempre e comunque Toussaint, sono loro a suonare. Fra una seduta da turnisti e l’altra Art Neville (tastiere), Leo Nocentelli (chitarra), George Porter Jr. (basso) e Joseph Modeliste (batteria) seppero cavare il tempo per imbastire una loro carriera di tutto rispetto.

Il complesso nasceva intorno al 1966 come Art Neville & The Sounds ed era inizialmente un sestetto completato dalle voci di due fratelli del leader, Aaron e Charles. Ventottenne, costui aveva già alle spalle una decennale carriera iniziata con il botto della seminale Mardi Gras Mambo, successone con gli Hawketts su Chess Records, e proseguita con una manciata di singoli per Specialty e Instant. Non passava che qualche mese e i Sounds, esclusi i cantanti, venivano ingaggiati da Allen Toussaint come house band della Sansu Enterprises. Nome nuovo di pacca allora, e allusivo alle stupefacenti capacità di Modeliste (con la sua destrezza poliritmica uno dei più influenti batteristi di sempre, in qualsiasi ambito), e subito un calendario fittissimo di sessioni. Quasi un dopolavoro per i Nostri le incisioni in proprio e non cambierà granché quando arriveranno i primi piazzamenti in classifica: Sophisticated Cissy e Cissy Strut violano entrambe i Top 10 R&B nella primavera del 1969 e l’anno dopo Look-Ka Py Py e Chicken Strut si fermano un attimo prima. Altri successi minori seguono fino al 1972, anno in cui i Meters dalla Josie passano alla assai più grande Reprise e paradossalmente vedono la loro popolarità calare, tolto il doppio colpo d’ala rappresentato nel 1974 da Hey Pocky A-Way e dall’album di un anno successivo (per molti il loro migliore) “Fire On The Bayou”. Sono nel frattempo divenuti un quintetto, con l’aggiunta di un ennesimo Neville, Cyril, alle percussioni, e le loro abilità strumentali sono più richieste che mai, fra gli altri da Dr. John e da Robert Palmer, e ammirate. Per due anni, 1975 e 1976, si ritrovano ad aprire per i Rolling Stones, ma la loro avventura è agli sgoccioli e sta per cominciare quella dei Neville Brothers. Altra vicenda, forse in futuro un altro libro. Torneranno insieme occasionalmente negli anni ’90, ma prima senza Modeliste e quindi senza Nocentelli. Il doppio antologico su Rhino “Funkify Your Life” copre sia il periodo Josie che quello Reprise e non tralascia alcunché di fondamentale.

Pubblicato per la prima volta su Soul e rhythm & blues – I classici, Giunti, 2004.

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Il suono di New Orleans – In ricordo di Dr. John (20/11/1941-6/6/2019)

Ci ha lasciati ieri Malcolm John Rebennack, in arte Dr. John, e con lui un bel pezzo di storia di New Orleans. Ci restano per fortuna i suoi dischi, che sono tanti e quasi invariabilmente meravigliosi. È stato un grandissimo fino all’ultimo e qui lo celebro recuperando le recensioni di tre delle sue cose più belle dell’ultimo ventennio di una carriera lunghissima.

Duke Elegant (Parlophone, 1999)

Il primo incontro del Dottore con la musica del Duca avvenne esattamente quarant’anni prima di porre mano a questo, fra gli omaggi a Ellington usciti nel centenario della nascita il più spassoso: “Ero in un gruppo che suonava nei locali di spogliarelli e facevamo sempre brani di Duke, arrangiati rock o R&B. Mi piace ancora trasfigurarli così. So essere fedele alla lettera di Ellington, ma posso anche adattare la sua musica alla mia personalità”. E proprio questo fa il nostro uomo in un disco che, vivaddio, sottrae spartiti nati per essere suonati nei bordelli più infimi come nei teatri più prestigiosi, nei bar malfamati come nei club alla moda all’insopportabile seriosità delle accademie e del jazzofilo standard. Il peggiore nemico del jazz, con la sua voglia di rispettabilità e di malintesa cultura dimentica del fatto che il jazz nacque come musica da ballo e ha le sue origini più remote nelle danze degli schiavi nelle piazze di New Orleans, nostalgica memoria dell’Africa perduta.

Proprio di Crescent City è figlio Dr. John e si avverte chiaramente in queste dodici rivisitazioni di alcuni dei più celebri cavalli di battaglia di Ellington, da It Don’t Mean A Thing (If It Ain’t Got That Swing) a Perdido, da Satin Doll a Mood Indigo a Caravan (ma ci sono anche composizioni meno note come On The Wrong Side Of The Railroad Tracks, I’m Gonna Go Fishin’ e Flaming Sword): esecuzioni travolgenti, dense di bassi funky, piani a rotta di collo, organi grassi e sincopati, colme di una gioia di vivere che il Duca avrebbe senz’altro riconosciuto come sua.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.201, aprile 2000.

N’Awlinz Dis Dat Or D’Udda (Parlophone, 2004)

Unica grande città statunitense che non è mai stata a maggioranza protestante, dove il francese a lungo è stato più parlato dell’inglese, dove la percentuale di neri liberi prima dell’abolizione della schiavitù era considerevole e agli schiavi era consentito danzare e usare i tamburi. Filo diretto insomma, via Indie Occidentali, fra Africa e America, con il vudù presenza costante sullo sfondo: c’è da stupirsi se New Orleans è stata la culla di ogni musica afroamericana a cominciare dal jazz, che nacque nei suoi bordelli? E poi di un funk che oltre a essere quello primigenio è sempre stato unico e inconfondibile, sofisticato e terrigno insieme, urbano e campagnolo, distante dalla muscolare meccanicità di un James Brown e più vicino al gusto sincopato di un Jelly Roll Morton. Progenie inevitabile e bellissima della città più meticcia del paese meticcio per antonomasia. Ha tutto ciò come retroterra culturale Malcolm “Mac” Rebennack Jr., in arte Dr. John, sessantaquattro anni splendidamente portati il prossimo novembre e una carriera musicale lunga quasi cinquanta e che negli ultimi dieci lo ha visto rilanciarsi prepotentemente, quando da tempo lo si era ormai consegnato alle enciclopedie: un bianco per sbaglio, se mai ce n’è stato uno, e lo riconoscevano i suoi colleghi di colore quando nel 1961 lo invitavano a entrare, unico viso pallido in una compagnia tutta di neri, nella storica AFO, una cooperativa che raccoglieva tutti i principali musicisti di Crescent City. In quello stesso anno fatidico Prince Lala lo introduceva ai misteri del vudù, onore ancora più inusitato per un bianco. Non si sarebbe mai più ripreso, per fortuna.

Non è questo il primo omaggio che il Dottore organizza e dedica alla città della Louisiana e anzi si può dire che lo siano stati, direttamente o indirettamente, quasi tutti i suoi album, un paio di dozzine dal 1968 a oggi. È però uno dei meglio congegnati, il più corposo, quello più attentamente bilanciato fra standard e composizioni autografe e insomma il disco che riesce in un’impresa che nessuno avrebbe creduto possibile: sbaragliare capolavori in tutti i sensi antichi come “Gris Gris” (1968), “Gumbo” (1972), “In The Right Place” (1973). “With a little help” da un po’ di amici del posto (Cyril Neville, Dave Bartholomew, la Dirty Dozen Grass Band) oppure no (B.B. King, Willie Nelson, Randy Newman, Mavis Staples). Non faccia passare in secondo piano, la loro presenza, una scaletta sensazionale per come mischia spiritual e funk, blues e rock’n’roll, marce funebri e/o carnascialesche e tanghi, organi da chiesa e pianoforti da casino. Un album monumentale, spassosissimo, commovente.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.586, 6 luglio 2004.

Locked Down (Nonesuch, 2012)

Inclassificabile se non alla voce “New Orleans” ma usualmente taggato come “rhythm’n’blues classico”, il pianista, autore e cantante Malcolm John Rebennack – in arte Dr. John – ha settantun anni e un’abbondante paio di dozzine di album all’attivo. Vecchi di decenni i suoi conclamati capolavori – “Gris-Gris”, “Gumbo” e “In The Right Place” vedevano la luce fra il ’68 e il ’73 – neppure nel secolo nuovo si è però accontentato di essere una leggenda vivente. Praticante e pure ancora a ottimi livelli se devo giudicare, oltre che da ciò che leggo, da alcuni titoli che ho in casa, e dunque dire “Locked Down” un grande ritorno sarebbe improprio. Che nondimeno si tratti della sua prova più brillante da quei leggendari primi ‘70 in cui perfezionava un inconfondibile stile a base di funky e rock’n’roll, psichedelia ed errebì, jazz, blues e misticismo vudù pare evidente sin dal primo ascolto e sempre di più con il prolungarsi della frequentazione. E c’entrerà più di qualcosa che la produzione sia firmata da un Dan Auerbach che potrebbe divenire per Dr. John ciò che Rick Rubin fu per Johnny Cash. Rubin non reinventò l’Uomo in Nero. Gli ricordò chi era stato, lo mise nella condizione di tornare a esserlo. Suoni meravigliosamente lucidati ma levigati mai, “Locked Down” si potrebbe definire una versione in HD delle pietre miliari di cui sopra.

Disco strepitoso nel riassumere un suono e una carriera aggiungendo un qualche ineffabile di più: la battuta che è quella dell’hip hop nell’infervorarsi di gospel di Kingdom Of Izzness e nella sferzante funkadelia di Eleggua, un tocco Gnarls Barkley (ma alle prese con Tom Waits!) in Big Shot. Quando la traccia omonima è Jimi Hendrix se ce l’avesse fatta a darsi sul serio al funk, Getaway sono i Little Feat, The Band e i Grateful Dead che sfilano a una parata carnascialesca e You Lie… be’, sì, la si riascolterebbe volentieri giusto dai Black Keys. Più indimenticabile di tutto il resto è Revolution: Sun Ra, Duke Ellington e Mulatu Astatke riuniti chez Stax.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.694, maggio 2012.

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