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Presi per il culto (31): Ill Wind – Flashes (ABC, 1968)

Ill Wind - Flashes

È curiosamente in uno dei centri del pensiero scientifico mondiale, il Massachusetts Institute Of Technology di Cambridge, che prende le mosse questa vicenda. L’anno è il 1965 e fra gli alunni del prestigioso centro di studi figurano Richard Griggs (Zvonar all’anagrafe), Ken Frankel e Carey Mann. Il folk-rock è sugli scudi, il folk-revival si rifiuta di scenderne. Nel minuscolo circuito cittadino Frankel e Mann prestano uno chitarra e banjo e l’altro il contrabbasso al duo Norm & Judy. È già un impegno semi-professionale, ove Griggs si limita a intrattenere i compagni di dormitorio strimpellando un’acustica. Comprerà la prima elettrica quella stessa estate, durante vacanze di lavoro trascorse in California suonando per bar a Santa Monica con tali Mersey Blues. Quando torna alla base scopre che anche Judy, che di cognome fa Bradbury, Ken e Carey hanno acceso gli amplificatori. Il nome adottato parrebbe brillare per chiarezza programmatica se non per originalità: Blues Crew. In realtà di blues in un primo e unico demo registrato nel gennaio ’66  e ingenuamente sperimentale non ve ne sono che tracce vaghe. Sperimenta parecchio nei mesi seguenti, però con marijuana ed LSD durante interminabili sedute d’ascolto a base di Fugs e Love, Beatles, Mothers Of Invention e Steve Reich, anche il buon Zvonar/Griggs. Coinvolge gli amici e costoro a loro volta lo coinvolgono facendolo entrare in un gruppo che in giugno si ribattezza The Prophets e in luglio, quando alla compagnia si unisce il batterista Dave Kinsman, Ill Wind. Sorta di sesto componente, Tom Frankel, fratello di Ken, assume il management e si dà subito da fare. Un intoppo non da poco si ha quando la Bradbury inopinatamente lascia. Si presentano in tre alle audizioni per sostituirla e a Priscilla Donato (che ritroveremo con gli Ultimate Spinach) e Coco Kallis (che pubblicherà un LP da solista) viene preferita Conny Devanney. Un secondo e più grave inciampo si ha quando i Frankel vengono fermati per possesso di stupefacenti. Con la legge la sfangano, non con la Capitol, che aveva mostrato interesse per il complesso e si affretta a mollarlo. Finiranno così per restare ufficialmente inedite  (fino a una riedizione digitale su Sunbeam del 2009) ben sei canzoni eternate su nastro a spese della suddetta etichetta. Per un paio – la jeffersoniana Ill Wind, una Tomorrow You’ll Come Back dagli accenti barocchi – è un peccato. Per un altro paio – un’irresistibile I Can See You in cui i Lovin’ Spoonful collidono con i Byrds e una You’re All I See Now in cui colludono con una versione alla mescalina dei Beau Brummels – un delitto. Amen. L’incidente di cui sopra parrebbe persino provvidenziale quando a contattare una band che nel frattempo va conquistandosi, con un’intensa attività concertistica, un buon seguito è Tom Wilson, produttore di enorme reputazione con in curriculum gente come Dylan e Zappa, Simon & Garfunkel e Velvet Underground. Ha fondato un’etichetta, la Rasputin, e ottenuto un contratto di distribuzione con  la ABC. Tutto in discesa? Oh sì: verso un baratro.

Inciso fra il febbraio e il marzo del 1968, “Flashes” è un album ottimo che avrebbe potuto essere favoloso. Se in luogo di un brano o due appena discreti– direi L.A.P.D., fra il soporifico e il declamatorio; direi Full Cycle, che parte bene ma procede incespicando – si fossero recuperate Ill Wind e una fra I Can See You e You’re All I See Now. Con l’aggiunta ulteriore di una sinuosa e acidissima title-track, rimasta bizzarramente esclusa, sarebbe stato un capolavoro e stop. A condannarlo a insuccesso e oblio saranno la mancanza di promozione, un tour cancellato all’ultimo e, soprattutto e in misura determinante, l’indifferenza di una critica rock pure agli albori. Nessuno si fila lo scintillante country-pop Walkin’ And Singin’ e una White Rabbit espansa chiamata People Of The Night, una My Dark World dolcissima e colpita al cuore da un solo di basso passato al fuzz e una Sleep che mette insieme – testimoni i primi Beach Boys! – “Surrealistic Pillow” e “Sweetheart Of The Rodeo”. Nessuno spende una parola per la più bella High Flying Bird di sempre (due spanne sopra H.P. Lovecraft ed Airplane, Zephyr, Wizards From Kansas e chiunque altro possa venirvi in mente): anche la più originale, con la memorabilissima melodia che in qualche strana maniera decolla per ineffabili empirei pur restando inchiodata al suolo da una ritmica motoristica come non se ne udranno (ma non a breve) che in zona krautrock.

Per qualche mese ragazza e ragazzi provano a reagire alla malasorte suonando tanto e ovunque, aprendo spettacoli di Fleetwood Mac e Moby Grape, Van Morrison, Who, Chuck Berry, Jefferson Airplane. Ai ferri corti con Wilson, nel dicembre 1968 si risolveranno però a riprendersi la libertà nell’unico modo possibile: non rinnovando il rapporto con la ABC e sciogliendosi.

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Presi per il culto (30): Rikki And The Last Days Of Earth – 4 Minute Warning (DJM, 1978)

Rikki And The Last Days Of Earth - 4 Minute Warning

Il ritaglio d’epoca credo provenga dal “New Musical Express”. La firma è autorevole, Mick Farren, già cantante dei Deviants, critico, romanziere, saggista e insomma e a dirla in breve finissimo intellettuale del rock’n’roll. L’inizio della breve recensione parrebbe abbastanza promettente: “In copertina (intende sul retro) sembrano dei punk. Su disco una band heavy metal che sta cercando di modernizzarsi. In tutta evidenza hanno ascoltato una quantità incredibile di dischi e se ne rinvengono testimonianze un po’ ovunque… generose dosi di John Cale, scorie di Doors, un pizzico di Sabbath, persino un Bryan Ferry che osserva benevolo di lato”. Tutto bene? Per niente. Il giudizio finale è tranciante: “Pretenzioso e confuso pomp rock incapace di cogliere la differenza fra melodramma ed energia autentica”. Caro Mick, per una volta non sono d’accordo. Ti appoggio su John Cale. Ti appoggio su Bryan Ferry, per quanto un Ferry così petulante – e si badi bene che sto dando all’aggettivo un’accezione positiva – non lo si sia sentito mai, né prima né dopo gli Ultimi Giorni della Terra. E non ho problemi ad ammettere che in queste undici canzoni, più due strumentali, di melò ce n’è un quantitativo industriale. Però sotto la (spessa) patina teatrale colgo un’angoscia vera. Espressa con un’energia travolgente, per nulla artefatta. Nondimeno ti riconosco che siamo in pochi a pensarla così. “4 Minute Warning” vendette pochissimo alla prima apparizione alla ribalta e a oggi non ha avuto una seconda possibilità: mai ristampato come oggetto fisico (da qualche tempo è tornato sì nei cataloghi ma solamente in forma liquida), resta patrimonio di una sparuta pattuglia di cultori che oltre al sottoscritto include Dave Thompson che, sulla “All Music Guide”, ha firmato un panegirico che condivido praticamente in toto. “Un assalto adrenalinico di rumore futuristico” è una definizione che mi piace moltissimo. E sottoscrivo anche i “panorami di implacabile psicopatologia”. Avete fatto caso alla copertina? Il pianeta che abitiamo vi è rappresentato infilzato su del fil di ferro. Ecco…

Le succinte cronache riferiscono che Rikki Sylvan (al secolo Nicholas Condron e non più fra noi, apprendo da “Wikipedia” ma senza trovare conferma da altre fonti) fondava il gruppo con il chitarrista Valac Van Der Veene nel novembre 1976, i due presto raggiunti dal tastierista Nik Weiss, dal bassista Andy Prince e dal batterista Nigel Bartle. Quest’ultimo veniva rimpiazzato sei mesi dopo da un tizio con generalità da lord, Hugh Inge-Innes Lillingston, ed ecco svelata (forse) una delle ragioni che nella per gran parte proletaria scena settantasettina resero impopolari i nostri eroi: tutti provenienti da famiglie più o meno benestanti e a ritrovarsi appiccata l’etichetta dei fighetti modaioli ci voleva un attimo. Non riusciranno a staccarsela mai e dire che seguivano tutte le regole del manuale e addirittura contribuivano a scriverle, autoproducendosi in maggio un primo 7” (a 33 giri e inciso su un solo lato) che era insieme biglietto d’ingresso per la prima apparizione pubblica. Lì la versione originale della canzone che per quanto mi riguarda basterebbe a iscrivere il nome del gruppo negli annali del rock: City Of The Damned è cavalcata apocalittica ma in qualche strano modo rincuorante, stentorea ma accorata, positivamente eroica, Valhalla indeciso fra i Roxy Music e il punk. Trascorrerà un anno – in mezzo la firma per DJM e alcuni singoli di cui l’album sfortunatamente non riprende il retro più memorabile, una rovinosa Street Fighting Man dal catalogo Stones – prima che, preceduta dallo strumentale For The Last Days allo stesso modo in cui in “Rock’n’Roll Animal” di Lou Reed la Intro annuncia Sweet Jane, la canzone inauguri quello che rimarrà l’unico LP del gruppo (un secondo registrato ma mai pubblicato). Dopo cotanto incipit nulla potrebbe reggere il confronto e tuttavia “4 Minute Warning” risulterebbe album di un certo livello anche senza. Grazie, fra il resto, al glam senza “se” e senza “ma” di Outcast e al quasi-funk ovviamente bianchissimo di No Wave, ai vortici elettrici su ritmica squadrata di Aleister Crowley e alla sarabanda con suggestioni d’Oriente di Loaded, a una Victimized unico scorcio schiettamente punk e a una traccia omonima che esagera in teatralità fin dove è possibile senza sconfinare nella parodia. Se a Berlino invece di David Bowie ci fosse andato Ziggy Stardust “4 Minute Warning” sarebbe stato il risultato, City Of The Damned la sua Heroes.

Mi prende la curiosità di vedere se almeno il disco – che è un’oggettiva rarità – sia attualmente conteso ai prezzi che sarebbero giustificabili per una simile meraviglia mai riedita e faccio un giro su eBay. E mi scappa da ridere. Oggi, lunedì 6 febbraio 2012, ce ne sono in vendita tre copie e la più cara è a 16,50 euro più spedizione. Regolatevi.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.166, marzo 2012. Usualmente i “Culti” li scrivo ex novo, ma oggi ho poco tempo e come recupero questo mi sembrava perfetto. Un anno e nove giorni dopo sono tornato a cercare “4 Minute Warning” su eBay. La copia a 16 euro e 50 è ancora lì.

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Presi per il culto (29): Them – Now And “Them” (Tower,1968)

Them - Now And Them

Più o meno tutti sono a conoscenza del fatto che ci furono dei Doors apocrifi e che tale esecrabile edizione della band priva del defunto cantante registrò due album (il primo con il corpo di Jimbo ancora caldo) talmente scadenti che persino un’industria che nei decenni ha monetizzato tutto il monetizzabile dei Doors “veri” lì si è fermata: “Other Voices” e “Full Circle” negli Stati Uniti non sono mai stati ristampati e di ciò si renda grazie a Dio(niso). In tanti ricordano che circolarono anche dei Velvet Underground finti, titolari nel 1973 di un LP, “Squeeze”, che è fresco invece di riedizione  digitale e contiene solo canzoni di Doug Yule, suonate dal solo Doug Yule tolte le parti di batteria affidate (incredibile dictu) a Ian Paice dei Deep Purple. Meno pessimo in realtà di quanto non si racconti, “Squeeze” paga con l’essere routinariamente dileggiato l’imperdonabile appropriazione indebita di una così gloriosa ragione sociale, ché ci fosse scritto sopra “Doug Yule” per qualche episodio ci si potrebbe spingere a dirlo carino. Che ci furono pure dei Them senza Van Morrison (e non contando quei Belfast Gypsies che, dopo una causa legale, dovettero accontentarsi di essere The Other Them) lo sanno invece giusto gli appassionati terminali di psichedelia. Americana in generale, texana in particolare quando in realtà buona parte dell’avventura oltre Atlantico di una band il cui nome era rimasto nella disponibilità del bassista Alan Henderson si consumò in California. E la sapete una cosa? Che dei ben quattro album che pubblicarono questi Them, il doppio di quegli altri là, gli originali, due – i primi – sono dei gran bei dischi che in qualunque sufficientemente cospicua collezione di rock anni ’60 potrebbero o persino dovrebbero starci.

Non mi perderò nei complicati dettagli di una vicenda ricostruita per filo e per segno da Jon Mills nelle note di copertina delle ristampe Rev-Ola datate 2003 (e per qualche bizzarra ragione ridistribuite e ripromozionate in Italia poche settimane fa) di “Now And Them” e “Time Out! Time In For”. A quelle rimando il lettore desideroso di approfondire (scordatevi di mettervi in caccia dei vinili d’epoca, a meno che non siate disposti a separarvi da diversi bigliettoni da cento), limitandomi qui ad annotare che la formazione che a inizio 1967 lasciava Belfast per gli Stati Uniti, a pochi mesi da un tour nel Big Country con momenti trionfali ma nel complesso non esattamente un trionfo, schierava tre quinti dell’organico all’opera in “Them Again”. Restavano con Henderson il chitarrista Jim Armstrong e il tastierista e fiatista Ray Elliott, cui si univano l’ennesimo batterista di una serie infinita, David Harvey, e soprattutto un nuovo cantante, l’ex-Mad Lads Ken McDowell. Ingiusto qualunque raffronto con Van The Man. Pure fuori luogo perché, pur con qualche robusta eco del canone d’antan, in “Now And Them” si gioca un altro sport.

Lavoro ineguale e talmente variegato stilisticamente che, non fosse per la voce, si potrebbe sospettare (ma vale per centinaia di 33 giri coevi) di stare ascoltando una raccolta di autori vari, hanno scritto quasi tutti fra i pochi che gli hanno dedicato qualche riga. E in certi suoi momenti – più che altrove nel blues confidenziale e di cui davvero si farebbe a meno di Nobody Loves You When You’re Down And Out – palpabilmente in ritardo sui tempi, per quanto a sua discolpa si possa dire che è datato ’68 per pochi giorni essendo in realtà le dieci registrazioni che contiene tutte del ’67. In un blind test retrodateresti di uno o due ulteriori anni (in quel decennio: un’eternità) pure una I’m Your Witch Doctor che diresti di Bo Diddley ed è invece di John Mayall, il soul di What’s The Matter Baby e il Merseybeat You’re Just What I Was Looking For Today, il garage colorato di folk di Dirty Old Man e quello inacidato di Walking In The Queen’s Garden. Non una Truth Machine caruccia quanto dispensabile, anche se in un LP dei Lemon Pipers la sua porca figura l’avrebbe fatta (appunto). Non una I Happen To Love You bella ma che non vale la versione degli Electric Prunes. E nemmeno l’incantesimo psichedelico a suggello di Come To Me, che è il pezzo che consegnerebbe i Them “americani” agli annali del genere non fosse che, a consegnarglieli, era già il brano con il quale si chiudeva la prima di facciata: i dieci favolosi minuti di raga-rock di Square Room valgono qualunque India della mente sia mai stata dipinta. Da chiunque. Ecco perché dei Them di Alan Henderson (sfortunatamente pessimi i successivi “Them” e “In Reality”) sceglierò sempre – dovendo – quest’album, a scapito di un “Time Out! Time In For” pur complessivamente non inferiore e decisamente più coeso.

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Presi per il culto (28): Status Quo – Picturesque Matchstickable Messages From The Status Quo (Pye, 1968)

Status Quo - Picturesque Matchstickable Messages From The Status Quo

Qualcuno ce la fa a essere profeta in patria e sfogliando gli annali del rock uno degli esempi più clamorosi in tal senso nei quali ci si possa imbattere è quello di un complesso che assumeva il nome con cui diverrà celebre nell’estate ’67 ma che, con una formazione appena diversa, era insieme già da cinque anni e aveva pubblicato quattro singoli, con due diverse ragioni sociali. Numero sette nel Regno Unito, Pictures Of Matchstick Men scalava pure la graduatoria USA dei 45 giri, fino a una rispettabilissima dodicesima posizione. Qualche mese dopo Ice In The Sun si arresterà alla settantesima. Si stenta a crederlo: da allora a Francis Rossi e soci non è mai più riuscito di violare le classifiche statunitensi. Nello stesso periodo in Gran Bretagna ci sono entrati, fra singoli, album e antologie, quel centinaio di volte. Né finiscono qui le anomalie della vicenda, siccome l’unico hit americano di costoro e la loro sola canzone indiscutibilmente degna di menzione in qualunque storia maggiore della popular music coincidono. Capolavoro di pop psichedelico scolpito a distorsori nel corpo di una melodia di formidabile immediatezza, Pictures Of Matchstick Men vanta un numero di tentativi di imitazione sorprendente (dalle belle cover che ne fecero Camper Van Beethoven e Slickee Boys all’opera dei Dukes Of Stratosphear pressoché in toto) per un brano a sua volta assai derivativo. È però proprio il suo essere distillato perfetto di suoni e senzazioni della Summer Of Love londinese a vidimargli il passaporto per un’eternità spicciola. I più con gli Status Quo la finiscono qui e lo si dica tranquillamente che quello che è forse il gruppo più dileggiato di sempre dalla critica le ironie e le stroncature se l’è immancabilmente meritate (peraltro consolandosi con conti in banca sontuosi e chi è patetico quindi?). I più, fra quanti mi stanno leggendo, degli  Status Quo avranno in mente piuttosto altri due titoli – quella Whatever You Want che da trentatré anni ci tormenta dalla radio; la pedestre resa della Rockin’ All Over The World di John Fogerty – particolarmente esemplari di un hard boogie ripetutosi per decenni uguale a se stesso. In tanti, a questo giro, a leggermi non avranno nemmeno cominciato. Nel caso: hanno fatto male, avvertiteli.

A un ascolto non prevenuto il debutto adulto degli allora giovincelli Francis “Mike” Rossi (voce e chitarra), Rick Parfitt (all’anagrafe Richard Harrison; chitarra), Roy Lynes (organo), Alan Lancaster (basso) e John Coghlan (batteria) si rivela qualcosa più che una canzone celebre con undici a mero contorno e anzi prologo. Sebbene senza regalare altre illuminazioni d’immenso. Tanto ottimo artigianato in compenso, a partire dalla già citata Ice In The Sun, giocosa marcetta facilmente inseribile in un “Sgt. Pepper’s” apocrifo, e da una Paradise Flat giocata sul contrasto fra corde squillanti e un organo solenne. Continuando con l’acid-barock ancora in zona Fab Four di Elizabeth Dreams, con una Technicolour Dreams ai profumi d’Oriente, con le riletture lisirgidescenti, e una spanna sopra gli originali, di Spicks And Specks (Bee Gees) e Green Tambourine (Lemon Pipers). Anche negli episodi più trascurabili “Pictures Matchstickable Messages From The Status Quo” si conserva come minimo gradevole curiosità antiquaria da cui si toglierebbe giusto (ma solo per l’eccessiva somiglianza alla canzone che aveva appena lanciato il quintetto) l’iniziale Black Veils Of Melancholy, salvando serenamente viceversa una scampanellante When My Mind Is Not Live e la spensieratezza beat con un tocco favolistico di Gentleman’s Joe Sidewalk Cafe, la circolare Sheila  e l’ipnotico vaudeville Sunny Cellophone Skies.

Chi si fosse fatto convincere sappia che è la “Deluxe Edition” del 2009 la stampa da puntare. Non tanto perché offre il disco sia in mono che in stereo (e chi sa di musica sixties non ignora che in certi dettagli si cela tanta sostanza), quanto perché lo ingrassa con un gruzzoletto di incisioni per la BBC comprendente due gemme inedite: il garage-pop Things Get Better; una Judy In Disguise che si scommetterebbe presa in prestito da Question Mark & The Mysterians quando sono invece John Fred & The Playboys. E si fanno ancora apprezzare, fra il resto, una Make Me Stay A Bit Longer al tempo solo su singolo e in zona Procol Harum e alcuni brani tratti dai repertori di Spectres e Traffic Jam, palestre di beat e garage con un retrogusto di errebì bianco nelle quali i non ancora Status Quo si erano allenati. Sfortunatamente, se ne dimenticheranno.

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Presi per il culto (27): Paul Roland – Danse Macabre (Bam Caruso, 1987)

Paul Roland - Danse Macabre

Povero Paul Roland! Nemmeno uno straccio di scheda sulla “All Music Guide” e dire che da quelle parti sul serio non se ne nega una a nessuno, cane o porco che sia. Niente. Un po’ di dischi messi in fila, non uno che sia degnato di due righe di commento, e questo è quanto. Povero Paul Roland, la cui discografia annovera a oggi – informa la voce succinta ma ben fatta che gli dedica Wikipedia – ben novantaquattro uscite, più trentanove partecipazioni ad antologie di autori vari, e non una volta una che il suo nome abbia fatto capolino nelle classifiche di una patria un po’ matrigna, se è vero come è vero che a un certo punto la lasciava per la più ospitale Germania. Dove non sarà una vera star, come non lo è mai stato né in Francia né in Italia, gli altri due paesi che nel tempo gli hanno prestato una qualche attenzione, ma quantomeno un agguerrito manipolo di cultori lo vanta. E allora, in fondo, perché mai “povero” Paul Roland? Tutto sembra indicare che l’uomo abbia una bella capacità di gestire al meglio la sua duplice attività di musicista e scrittore dalla produzione anche più fitta, fine narratore di racconti di mistero e immaginazione così come saggista a suo agio prevedibilmente con i temi dell’occulto ma pure – recentissimamente – apprezzato biografo di Marc Bolan. A un certo punto, erano i primi ’80, si ritrovò ad avere come manager la vedova del compianto tirannosauro, sfortunatamente non funzionò ma il numero di telefono a quanto pare lo aveva tenuto.

Dire che l’ho conosciuto, Paul Roland, sarebbe un po’ eccessivo. Ci scambiai qualche parola in una rigida notte d’inverno torinese, lui interessatissimo alla fama di città magica della capitale sabauda, stupore e compiacimento evidenti nell’alzare gli occhi e scoprire di continuo demoni sporti in agguato dalle facciate del centro storico. Ne conservo il ricordo di un gentiluomo di altri, ottocenteschi tempi, più maturo e posato degli anni che aveva e che ancora non erano trenta. Doveva essere il dicembre ’87, o forse il gennaio successivo. Era dunque il tour che portava in giro, unico complice l’allampanato violista Piers Mortimer, proprio “Danse Macabre”. Magari sarà anche a ragione di ciò che, fra i numerosi titoli che posseggo dell’artista tornato da un po’ a risiedere nel Cambridgeshire, per questo nutro un affetto particolare. E però è stato un riascolto a campione a confermarmi nell’idea che resti la sua opera più ispirata e a dissuadermi dal proposito invero snob, desiderando proporvi qualcosa di costui, di estrarre dagli scaffali il ben più stagionato (e a nome Midnight Rags) “The Werewolf Of London”: produzione giovanile (1980) di un ventenne talentuoso quanto acerbo ed eccessivamente propenso, fra una cavalcata glam e una tentazione prog, un intarsio acido e un’eco lontana di new wave, a un’opulenza strumentale dalla quale si emenderà.

A parte che è il più bello, volendo avere di Paul Roland un solo album è “Danse Macabre” quello da mettersi in casa (vi costerà due spiccioli, massimo quattro) pure perché è il più rappresentativo, il più esemplare. Mirabile paradigma di psichedelia fra il gotico e il moderatamente barocco che il Nostro aveva affinato, prima di questo che formalmente era il suo debutto da solista a 33 giri, in una robusta sequela di singoli, EP e mini (formidabile sinossi nella raccolta “House Of Dark Shadows”). Si tiravano in ballo per descriverla Syd Barrett (omaggiato direttamente con una Matilda Mother ondeggiante sull’orlo del valzer), Robyn Hitchcock e Julian Cope e sono paragoni che ci stanno. Ma fate il primo un po’ Edgar Allan Poe e un po’ Mister Hyde, del secondo rimpolpate l’esilità delle trame, al terzo sottraete qualche guizzo pop e mediamente un tot di decibel, sebbene il suggello Twilight Of The Gods morda hardelico. Brillante congedo da un album che si presenta con l’al pari incalzante Witchfinder General e offre nel prosieguo momenti di particolare memorabilità con la marcetta perfidamente suadente Madam Guillotine, con la ballata dalle fragranze inusitatamente mediterranee Still Falls The Snow, con una Gabrielle che resta quanto di più vicino a una possibile hit abbia mai vergato il nostro eroe. E ancora: con l’arcaico folkeggiare di Buccaneers. E poi e infine: con il raga adeguatamente drogato (drogatissimo) In The Opium Den. Quando sarei disposto a scommettere che mai in vita sua Messer Roland abbia assunto qualcosa di più forte di una bollente tazza di thè verde.

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Presi per il culto (26): Autosalvage – Autosalvage (RCA Victor, 1968)

New York sulla mappa di certo suono secondi ’60 occupa cantucci eccentrici. Non un caso secondo me che agissero lì i due gruppi che trafficavano maggiormente, prevalentemente, quasi esclusivamente con marchingegni di primitiva elettronica: Lothar & The Hand People e Silver Apples. Lì operavano anche gli Autosalvage. Se ne è scritto pochissimo, i pochi che li hanno presenti routinariamente li dicono zappiani ma è una questione più di incroci e simpatie che non di reali affinità. A ventiquattro anni dalla riedizione su Edsel di un unico, omonimo album dato alle stampe in origine vent’anni prima ancora, la fonte più estesa di notizie su costoro restano le scarne note di copertina di Brian Hogg. Lì, avendo comprato il disco al volo senza saperne nulla ma fidandomi del marchio (fiducia mai tradita), apprendevo che erano il cantante e chitarrista Thomas Danaher e il cantante, oboista, pianista e batterista Darius LaNoue Davenport a porre le basi, sin dal ’66, per un lavoro condiviso che decollerà quando il duo si farà trio e poi quartetto. Pure lui appassionato di bluegrass ma sempre più attratto da un rock in crescita disordinata quanto entusiasmante, il chitarrista, banjoista e dulcimerista Rick Turner si univa presto alla compagnia, portando in dote un piccolo bagaglio di professionismo messo assieme con Ian & Sylvia e, da turnista, con Felix Pappalardi. Figlio d’arte Davenport, essendo il padre un musicista classico. Fratello d’arte Skip Boone, dello Steve dei Lovin’ Spoonful ed era stato lui a insegnargli i rudimenti del basso. Eclettico come i neotrovati compagni, se la cavava bene anche con il piano e se vi siete segnati la strumentazione avrete inteso che gli Autosalvage ce l’avevano nel DNA di non essere una rock band qualunque. Era Frank Zappa (eccolo!) a procurare ai ragazzi un contratto discografico e peste colga quelli così sospettosi da chiedersi perché con la RCA, quando il Baffo di Cucamonga era all’epoca domiciliato chez Verve.

Conosco un posto in alta montagna, in Svizzera, dove ci sono laghi, alberi, sentieri fra i boschi… e musica… bella musica dappertutto”: è una seducente voce femminile a profferire queste bislacche parole prima che la musica occupi il proscenio con il brano che dà il nome al gruppo e all’opera, intrecciando alquanto brillantemente Lovin’ Spoonful (ma guarda!) e Jefferson Airplane, beat e barocchismi non troppo… barocchi. Bel pezzo, ma non il più incisivo e difatti la RCA per promuovere il 33 faceva uscire a 45 giri il byrdsiano carillon Rampant Generalities, accoppiandolo ai Beatles a braccetto con i Tomorrow di Parahighway. A proposito di Fab Four: è Turner oppure Danaher a identificarsi mimeticamente con George Harrison in A Hundred Days? Pregasi suggerirla come rilettura a dei redivivi Dukes Of Stratosphear con una voglia matta, se la contraddizione in termini è consentita, di apocrifi autentici. C’è una cover, con il Leadbelly di Good Morning Blues inturgidito alla Cream, e il resto vaga senza posa fra psichedelia e vaudeville, qui del raga e là del fuzz, esageratamente in una The Great Brain Robbery da ovazioni anche solo per il titolo. Forse la mia preferita, ma dentro un album cui paradossalmente l’estrema varietà conferisce un’unitarietà spinta: da godere come un tutt’uno, senza momenti che si stacchino particolarmente.

Vendite? Insignificanti e pochi mesi dopo gli Autosalvage già non esistevano più, Boone e Davenport trasferitisi a Boston per fare da sezione ritmica a tali Bear, titolari l’anno dopo su Verve Folkways di un primo album, “Greetings, Children Of Paradise”, che come nel caso di “Autosalvage” sarà pure l’ultimo. LP se possibile ancora più sfigato di quell’altro, che quantomeno ha avuto alcune ristampe ove nessuno ha mai provveduto a riportare nei negozi i Bear. Mai neanche piratato, “Greetings…”, ed è faccenda discretamente clamorosa se si considera che dei ’60 è stato recuperato poco meno che tutto. Eppure non è affatto una schifezza, fra altri echi di Lovin’ Spoonful e dei Beatles girati country’n’western, schizzi di jazz e progressive, cantautorato da border, pop a bagno nell’LSD e un presagio di metal. Il tastierista Eric Kaz farà il percorso inverso rispetto a Boone e Davenport, raggiungendo a New York i Blues Magoos. Fra gli ex-Autosalvage l’unico a riuscire a vivere di musica sarà Turner, reinventandosi liutaio. Fra i suoi clienti più affezionati un certo Ry Cooder.

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Presi per il culto (25): Rodriguez – Cold Fact (Sussex, 1970)

Famiglia numerosa quella del nostro eroe e già lo dichiara il nome, Sixto, che lo dice il sesto figlio per Ramón e Maria, che lo dà alla luce nel 1942 e lo lascia orfano tre anni dopo. Cresciuto in un quartiere di Detroit a massiccia predominanza latina, il ragazzo perde tuttavia per strada andando a scuola la lingua madre e sono giusto le canzoni tradizionali che gli canta il padre, accompagnandosi alla chitarra, a conservargliene una qualche memoria. È la prima musica a commuoverlo, ove sono i gruppi del doo wop e il blues elettrico di Jimmy Reed ad accompagnarne l’ingresso nell’adolescenza. Fortunatamente scartato dall’esercito, nel quale ha cercato di arruolarsi volontario, mentre sempre più coetanei partono per il Vietnam lui si gode la strepitosa fioritura di talenti e successi cittadina chiamata Motown e insieme la British Invasion. Frequenta il campus della Wayne State University, scrive le prime canzoni, comincia a suonarle e cantarle per locali perlopiù malfamati (gli piacciono in particolare i ritrovi di puttane e motociclisti), si fa notare se non altro per il curioso modo di presentarsi in pubblico: spalle sempre rivolte alla platea per non farsi distrarre nell’esecuzione di brani in cui coesistono il folk di impronta chicana e quello di radice anglosassone e inoltre blues e soul. Lo vede Harry Balk della Impact e nella primavera del ’67 gli fa incidere un singolo che passa inosservato. Poco dopo vende la compagnia a Berry Gordy e va a lavorare per costui e insomma per Rodriguez – o meglio: per Rod Riguez, come è stato assurdamente ribattezzato per cercare di mascherarne le origini chicane – sembrerebbe che i sogni di gloria vadano subitaneamente riposti in un cassetto. Non fosse che al 45 giri hanno collaborato Dennis Coffey – formidabile chitarrista e uno Steve Cropper della Motor City – e il tastierista e arrangiatore Mike Theodore ed è su insistite pressioni della coppia che alla lunga la Sussex (un sottomarchio Buddah) si fa convincere a ingaggiare il nostro uomo.

Faccio brevissima una storia lunga e vado a dire di un LP favoloso  – un po’ “Forever Changes” e un po’ “Bringing It All Back Home”, con una spolveratina in parti eguali di Fred Neil e del Donny Hathaway di “Everything Is Everything” -registrato non nel più usuale dei modi, con Theodore e Coffey che prima fermano su nastro le tracce di voce e chitarra acustica di Rodriguez e quindi ci costruiscono attorno, complici la ritmica dei Funk Brothers ed estese sezioni di archi e fiati, arrangiamenti spesso sofisticati, ma mai sopra le righe. Se sul serio l’iniziale Sugar Man sembra sottratta a un Arthur Lee in stato di grazia, Only Good For Conversation scodella chitarre al fuzz da Ed Hazel al top. Se in Crucify Your Mind Bob Dylan incontra Van Morrison e in Inner City Blues chiama alla collaborazione Robert Kirby, in Hate Street Dialogue Fred Neil flirta con il garage e Tim Hardin, salvo piazzare poco dopo una Everybody’s Talkin’ punto minore intitolata I Wonder. Quanto a Forget It: non sarà la più memorabile delle dodici canzoni in programma, ma è quella che lascia più basiti. Siccome pare impossibile che non sia stata il colossale successo che sarebbe potuta essere affidata, ad esempio, a un James Taylor.

Da lì ad appena un anno e dopo avere pubblicato per il medesimo marchio un secondo 33 giri bello ma non cosi tanto (per quanto “Coming From Reality” meriterebbe l’acquisto anche solo per la serenata Silver Words e il flamenco post-Hendrix Climb Up On My Music), Sixto Diaz Rodriguez alza bandiera bianca e si dedica ad assortiti studi e alla politica. A sua totale insaputa “Cold Fact”, quasi completamente ignorato negli USA, conquista schiere di estimatori in Nuova Zelanda, Australia e soprattutto Sudafrica, dove addirittura una riedizione in CD sarà disco di platino. Stupefatto sessantenne, vendicherà gli apparenti fallimenti giovanili con tre tour – 1998, 2001 e 2004 – che lo vedranno girare il paese di Mandela per palasport, con fuori immancabile un cartello: “sold out”. Appena un antipasto poi di quanto accadrà fra il 2008 e il 2009, con entrambi gli album ristampati da Light In The Attic e a seguire concerti in tre continenti, servizi sulla CNN, apparizioni da David Letterman e, nel 2012, un documentario prodotto in Svezia e già applaudito in diversi festival, Searching For Sugar Man. Lontanissimi i tempi in cui il Vostro affezionato impiegava, dopo averne letto in un articoletto su “Mojo”, due anni a mettere le mani su un album emozionante come poche scoperte dopo l’età fulgida – i venti, inevitabilmente – delle scoperte.

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Presi per il culto (24): The Savage Resurrection – The Savage Resurrection (Mercury, 1968)

Caratteristica lo è e non poco. Inconfondibile? Assolutamente. Ma bella proprio no e neanche un fan di prima categoria come il sottoscritto si azzarderebbe mai ad affermare il contrario. Nessuno con mezza diottria più di Stevie Wonder potrebbe sostenere che la copertina dell’unico LP mai dato alle stampe dai californiani Savage Resurrection vada annoverata fra i capisaldi dell’arte grafica applicata alla discografia del Novecento. Gli scarni crediti tacciono misericordiosamente il nome del responsabile dell’imbarazzante collage di immagini medioevali e moderne del retro, così come di un davanti che, a un affresco di argomento religioso presumibilmente del XII o XIII secolo, sovrappone una floreale, fiammeggiante esplosione che fra lingue di fuoco effigia i volti dei componenti del complesso. Dubito di avere mai fatto di peggio alle medie e vi garantisco che a educazione artistica più che scarso ero un caso umano. Eppure io le voglio bene a ’sta copertina, che mi colpì, tanti ma tanti anni fa, come un pugno in un occhio mentre scartabellavo fra allora fresche ristampe di dubbia o nulla legalità nel magazzino di un noto importatore milanese. Impossibile non notarla. Tirai su. Non avevo la minima idea di cosa mi stessi portando a casa, ma il rischio era modesto – ci avrei rimesso al più un paio di mille lire a fare cambio se insoddisfatto – e la curiosità tanta. E da quel giorno “Savage Resurrection” è fisso nella mia lista dei culti, dell’era psichedelica in particolare ma non solo. Dischi che spessissimo ho pagato pochi spiccioli e assai raramente cifre importanti. Dischi che il trascorrere del tempo ha talvolta vendicato e altri che continuano a restare patrimonio di happy few. In alcuni mi sono imbattuto per caso e qualcuno l’ho inseguito per decenni. E mica tutti sono capolavori, eh? È che a un disco per essere “di culto” quasi quasi giova qualche imperfezione, siccome non è delle top model che ci si innamora ma della fanciulla della porta accanto. Copertina a parte, di imperfezioni il solo LP licenziato dal quintetto formato nel 1967 dai chitarristi Randy Hammon e John Palmer, dal cantante Bill Harper, dal bassista Steve Lage e dal batterista Jeff Mayer ne ha eccome. Una produzione mediocre, per cominciare, e dire che fu registrato in uno studio allo stato dell’arte per l’epoca, ventiquattro piste quando giusto un anno prima i Beatles si erano dovuti accontentare di quattro per “Sgt. Pepper’s”. E poi un pezzo che definire un riempitivo è una gentilezza: Appeal To The Happy è una Johnny B. Goode per teste acide che credono che tutto sia permesso e non lo è, non in pubblico. Dazio ognimmodo insignificante da pagare per un’opera che altrimenti, aggirandosi fra il passabile e il notevole, sconfina in un frangente nel meraviglioso.

È Tahitian Melody a giustificare queste righe. Abbagliante. Pensate ai Love di “Forever Changes”. Incrociateli con gli Spirit dell’omonimo debutto. Ecco. È Tahitian Melody che rende a mio avviso irrinunciabile “Savage Resurrection”. Ma il resto, eccettuato l’obbrobrio citato dianzi, le fa degna corona: dalle affini Thing In “E” e Talking To You a una Jammin’ fra blues e oleografie d’Oriente, da una Fox Is Sick sculettantemente, flemmaticamente fra Hendrix e i Cream a una Remlap’s Cave, Part II con in tralice gli Who, da una Someone’s Changing che troppo presto si accende/spegne in una coda di feedback a una Expectations che espande un Bo Diddley apocrifo alla maniera dei Quicksilver Messenger Service primevi.

Mi faceva un bel favore e dispetto Nick Saloman, in arte Bevis Frond. Non molto dopo che mi ero portato a casa il fascinoso articolo conquistava la ribalta delle fanzine celebranti il rinascimento psichedelico – per breve tempo, pure della stampa più ufficiale – e prendeva subito a tessere le lodi di una sigla il cui mistero (Internet ancora una faccenda per autori di fantascienza) non ero riuscito in alcun modo a dissipare. Niente più amici da stupire con il mio scricchiolante tarocco. Qualcuno invidioso, in compenso, visto che le copie illegali sparivano in fretta dalla circolazione e gli originali si rivelavano inavvicinabili. Dovranno aspettare il 1999 e una riedizione in digitale su Mod Lang organizzata, più che autorizzata, dal gruppo stesso i curiosi, venendo ricompensati da suoni più all’altezza, un bel libretto e, in aggiunta al programma di partenza, tre peraltro prescindibili bonus, una Thing In “E” e una Tahitian Melody alternative e una River Deep, Mountain High banalmente garagistica. Si trova ancora il CD in questione, costa due lire e, avrete inteso, vale la pena di cercarlo. Gira viceversa a prezzi senza senso una stampa See For Miles successiva di un anno e senza aggiunte. Da evitare il vinile Tapestry di metà anni 2000.

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Presi per il culto (23): Galaxie 500 – Today (Aurora, 1988)

Scorrendo il libretto allegato all’omonimo box quadruplo Rykodisc che nel ’96 radunava e riordinava l’opera omnia dei Galaxie 500 e leggendo la storia del gruppo bostoniano narrata dai tre punti di vista di coloro che gli diedero vita, ci si imbatte in due momenti illuminanti. State a sentire come il batterista Damon Krukowski rievoca il programma che si diede il neonato trio nell’estate ’87: “Rammento che eravamo tutti e tre da Bleecker e che Dean scovò nello scaffale delle offerte un 45 giri in cui suonava un nostro vecchio insegnante del liceo. Pensammo quanto sarebbe stato figo, e pure divertente, trovare un giorno un nostro singolo in uno scaffale di fuori catalogo e decidemmo che quello era l’obiettivo che dovevamo prefiggerci”. La bassista Naomi Yang racconta così la sera in cui ascoltò la cassetta con i missaggi definitivi del secondo LP: “Ricordo chiaramente che mi sdraiai sul letto della mia cameretta a casa dei miei genitori a New York, al buio. Per ascoltare il nastro non avevo che un portatile con le pile quasi scariche, e l’unica luce che illuminava la stanza era quella che veniva da fuori… Man mano che la cassetta scorreva, la situazione prese un che di magico. Ero così felice e orgogliosa di quello che avevamo fatto… sentivo che il mio modo di suonare il basso aveva infine una direzione e così il nostro modo di scrivere canzoni e il nostro suono. Suppongo che fu quello il momento di passaggio dall’innocenza (musicale) all’esperienza. Penso che allora fossimo felici insieme, ma chissà se era vero per tutti”. E conclude: “Ridevamo sempre di una recensione in cui Kramer (il loro produttore, n.d.a.) veniva definito ‘pseudo-leggendario’ e ci dicevamo ‘speriamo sia anche il nostro destino’. Forse, per quanto strano appaia, è ciò che è successo”. E difatti… Entrambi i sogni dei Galaxie 500 si sono avverati, ribadendo la saggezza di quel detto popolare che ammonisce a non desiderare nulla troppo intensamente, giacché potrebbe divenire realtà: presto fuori catalogo i loro dischi, i Bostoniani si sono ritrovati avvolti, per i pochi che li ascoltarono al tempo e gli ancora meno che li hanno scoperti successivamente (magari dopo avere comprato, ovviamente in offerta, qualcosa dei Luna del chitarrista Dean Wareham o di Damon & Naomi; magari e di recente dopo averli visti citati come antesignani del cosiddetto dream pop), da un alone di mito. Eppure era musica semplicissima la loro.

Fatta di niente, come sono fatti di niente gli haiku e come quelli di un’intensità e  un lirismo supremi. Quieta e lineare, mediazione di folk, psichedelia, Velvet Underground all’altezza del terzo album e Joy Division. Concepirono canzoni memorabili e fecero persino di meglio quando si confrontarono con creature altrui: il catalogo delle cover è tanto vario (Jonathan Richman, Yoko Ono, Velvet, George Harrison, Red Crayola, New Order, Neil Innes, Young Marble Giants, Beatles) quanto personale. Posti in mano ai Galaxie 500 i brani di altri venivano regolarmente trasfigurati e spesso migliorati. Basti come esempio Don’t Let Our Youth Go To Waste, episodio assolutamente minore del repertorio di Jonathan Richman che nella loro interpretazione si trasforma in un’incredibile peregrinazione lisergica alla ricerca dell’ipertono armonico perduto. E diventa indimenticabile.

Gli fanno compagnia, in quello che fu il primo di tre soli 33 giri dati alle stampe in altrettanti anni, otto composizioni autografe di un’eleganza e un’economia (persino nei titoli: l’unico strumentale si chiama… Instrumental) supreme. Fra la melodia piana distesa a marcia di Flowers e l’arazzo acido a trame larghe di Tugboat, fra la cantilena appesa a un arpeggio di Pictures e una It’s Getting Late appropriatamente crepuscolare, fra l’ossimoro di minimalismo epico di Parking Lot e l’ipnosi esultante di Temperature’s Rising, o ancora il post-folk-rock di Oblivious, sul subito apparentemente nulla sembra succedere. Non è così. Senza che tu te ne renda conto, nella mente un tarlo sta scavando e dalla tua testa questi brani sublimi non usciranno mai più. Scommettiamo?

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Presi per il culto (22): Plan 9 – Keep Your Cool And Read The Rules (Enigma, 1985)

Naturalmente al tempo in cui si mettevano insieme – era il 1979 e sarebbero trascorsi due anni prima dell’esordio a 45 giri, tre prima di quello a 33 – i Plan 9 non potevano immaginare che il peraltro fantastico nome scelto si sarebbe rivelato, nell’era del Web, un accidente di problema. Perché, insomma, digitatelo dove vi pare – da Google a YouTube – e vedete un po’ voi quanti risultati dovete passare prima di incontrarne uno che abbia a che vedere con la numerosa compagine del Rhode Island. All’inizio: voce, ben quattro chitarre, organo, basso e batteria. Da subito: leader il cantante (un po’ Jim Morrison e un po’ tanto Arthur Lee) e chitarrista Eric Stumpo, suo braccio destro John DeVault, lui pure chitarrista, e sinistro la tastierista Deborah De Marco. Ma tornando a Internet… Vi farete una cultura su Plan 9 From Outer Space prima di trovare qualcosa riguardo ai nostri dimenticati ma, per chi li conobbe, indimenticabili eroi. Fuori da un sito gestito dalla stessa band e invero molto ben fatto ed esauriente, si trova assai poco e quel poco è spesso discutibile e mi riferisco specialmente a una scheda sulla All Music Guide che dire vergognosa è un eufemismo. Vi do le cattive notizie tutte insieme: tolti alcuni lavori recenti in forma di jam di Stumpo, compagna e compagni oggi non è in catalogo quasi nulla. Rimossi dai negozi come dalla storia. E però non disperate. C’è eBay, ci sono le fiere del disco raro e se volete “Keep Your Cool…” potrete portarvelo a casa con un esborso abbastanza modesto. Volete? Dovete! Sempre che fra i vostri vizietti annoveriate anche la psichedelia.

Sulla strada che porta al loro capolavoro, nonché a uno dei migliori esempi di musica espansa degli anni ’80 o di qualunque altro decennio, i Plan 9 sistemano un poker di album niente, niente male. In particolare quelli che si potrebbero dire “veri”, in contrapposizione a un live purtroppo registrato maluccio (“I’ve Just Killed A Man, I Don’t Want To See Any Meat”) e a un’omonima raccolta di singoli, demo e altra minutaglia che regala in ogni caso una strepitosa, dilatatissima versione del classico dei Third Bardo I’m Five Years Ahead Of My Time. Di altra caratura tuttavia “Frustration” e “Dealing With The Dead”, con la curiosa caratteristica che pare sensibilmente più originale nel suo approccio a musiche le cui radici affondano tutte nei ’60 il primo, che è composto esclusivamente da cover rilette però con grande personalità, in rapporto a un secondo quasi interamente autografo ma più appiattito su canoni già consolidati quasi vent’anni prima. Rispetto a entrambi “Keep Your Cool And Read The Rules” è ognimmodo balzo quantico. Gli dà il titolo un oscuro strumentale di Terry & The Chain Reaction che i Nostri rileggono come fossero dei Doors in vena di blues, ne illumina la prima facciata una resa di Machines di Lothar & The Hand People che sa di Suicide in vena di reggae, ma è il predominante repertorio originale a guardare dall’alto in basso il resto e, quasi intera, la musica Sixties-oriented degli ’80. Da una That’s Life che sono i Love nel periodo hendrixiano successivo a “Forever Changes” a una Hot Day che sono i Love che a “Forever Changes” si stavano preparando, da una Poor Boy curiosamente e squisitamente prossima ai primi Feelies a una King 9 Will Not Return che rimanda ai Grateful Dead più energici, passando fra il resto per l’incantesimo liturgico di For Hillary e un’orientaleggiante Street Of Painted Lips che suona come avrebbero suonato gli High Tide con cinque chitarre (ebbene sì, se n’è aggiunta una) a darci dentro.

Avete visto l’etichetta che dava alle stampe questa gemma: Enigma, marchio importante dopo marchi piccoli o minuscoli come Bomp!, Voxx, New Rose, Midnight. Due anni dopo, all’altezza del non completamente convincente “Sea Hunt”, i Plan 9 troveranno pure una distribuzione Capitol, ma senza arrivare a muovere – al solito – che qualche migliaio di copie. Scompariranno in fretta in un’oscurità totale in patria, punteggiata dai lumini di una sparuta schiera di fedeli nel Vecchio Continente.

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