È curiosamente in uno dei centri del pensiero scientifico mondiale, il Massachusetts Institute Of Technology di Cambridge, che prende le mosse questa vicenda. L’anno è il 1965 e fra gli alunni del prestigioso centro di studi figurano Richard Griggs (Zvonar all’anagrafe), Ken Frankel e Carey Mann. Il folk-rock è sugli scudi, il folk-revival si rifiuta di scenderne. Nel minuscolo circuito cittadino Frankel e Mann prestano uno chitarra e banjo e l’altro il contrabbasso al duo Norm & Judy. È già un impegno semi-professionale, ove Griggs si limita a intrattenere i compagni di dormitorio strimpellando un’acustica. Comprerà la prima elettrica quella stessa estate, durante vacanze di lavoro trascorse in California suonando per bar a Santa Monica con tali Mersey Blues. Quando torna alla base scopre che anche Judy, che di cognome fa Bradbury, Ken e Carey hanno acceso gli amplificatori. Il nome adottato parrebbe brillare per chiarezza programmatica se non per originalità: Blues Crew. In realtà di blues in un primo e unico demo registrato nel gennaio ’66 e ingenuamente sperimentale non ve ne sono che tracce vaghe. Sperimenta parecchio nei mesi seguenti, però con marijuana ed LSD durante interminabili sedute d’ascolto a base di Fugs e Love, Beatles, Mothers Of Invention e Steve Reich, anche il buon Zvonar/Griggs. Coinvolge gli amici e costoro a loro volta lo coinvolgono facendolo entrare in un gruppo che in giugno si ribattezza The Prophets e in luglio, quando alla compagnia si unisce il batterista Dave Kinsman, Ill Wind. Sorta di sesto componente, Tom Frankel, fratello di Ken, assume il management e si dà subito da fare. Un intoppo non da poco si ha quando la Bradbury inopinatamente lascia. Si presentano in tre alle audizioni per sostituirla e a Priscilla Donato (che ritroveremo con gli Ultimate Spinach) e Coco Kallis (che pubblicherà un LP da solista) viene preferita Conny Devanney. Un secondo e più grave inciampo si ha quando i Frankel vengono fermati per possesso di stupefacenti. Con la legge la sfangano, non con la Capitol, che aveva mostrato interesse per il complesso e si affretta a mollarlo. Finiranno così per restare ufficialmente inedite (fino a una riedizione digitale su Sunbeam del 2009) ben sei canzoni eternate su nastro a spese della suddetta etichetta. Per un paio – la jeffersoniana Ill Wind, una Tomorrow You’ll Come Back dagli accenti barocchi – è un peccato. Per un altro paio – un’irresistibile I Can See You in cui i Lovin’ Spoonful collidono con i Byrds e una You’re All I See Now in cui colludono con una versione alla mescalina dei Beau Brummels – un delitto. Amen. L’incidente di cui sopra parrebbe persino provvidenziale quando a contattare una band che nel frattempo va conquistandosi, con un’intensa attività concertistica, un buon seguito è Tom Wilson, produttore di enorme reputazione con in curriculum gente come Dylan e Zappa, Simon & Garfunkel e Velvet Underground. Ha fondato un’etichetta, la Rasputin, e ottenuto un contratto di distribuzione con la ABC. Tutto in discesa? Oh sì: verso un baratro.
Inciso fra il febbraio e il marzo del 1968, “Flashes” è un album ottimo che avrebbe potuto essere favoloso. Se in luogo di un brano o due appena discreti– direi L.A.P.D., fra il soporifico e il declamatorio; direi Full Cycle, che parte bene ma procede incespicando – si fossero recuperate Ill Wind e una fra I Can See You e You’re All I See Now. Con l’aggiunta ulteriore di una sinuosa e acidissima title-track, rimasta bizzarramente esclusa, sarebbe stato un capolavoro e stop. A condannarlo a insuccesso e oblio saranno la mancanza di promozione, un tour cancellato all’ultimo e, soprattutto e in misura determinante, l’indifferenza di una critica rock pure agli albori. Nessuno si fila lo scintillante country-pop Walkin’ And Singin’ e una White Rabbit espansa chiamata People Of The Night, una My Dark World dolcissima e colpita al cuore da un solo di basso passato al fuzz e una Sleep che mette insieme – testimoni i primi Beach Boys! – “Surrealistic Pillow” e “Sweetheart Of The Rodeo”. Nessuno spende una parola per la più bella High Flying Bird di sempre (due spanne sopra H.P. Lovecraft ed Airplane, Zephyr, Wizards From Kansas e chiunque altro possa venirvi in mente): anche la più originale, con la memorabilissima melodia che in qualche strana maniera decolla per ineffabili empirei pur restando inchiodata al suolo da una ritmica motoristica come non se ne udranno (ma non a breve) che in zona krautrock.
Per qualche mese ragazza e ragazzi provano a reagire alla malasorte suonando tanto e ovunque, aprendo spettacoli di Fleetwood Mac e Moby Grape, Van Morrison, Who, Chuck Berry, Jefferson Airplane. Ai ferri corti con Wilson, nel dicembre 1968 si risolveranno però a riprendersi la libertà nell’unico modo possibile: non rinnovando il rapporto con la ABC e sciogliendosi.