Heroes (dall’album omonimo, RCA, 1977)
Heroes (dall’album omonimo, RCA, 1977)
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Rock’n’Roll Suicide (da “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars”, RCA, 1972)
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Lazarus (da “Blackstar”, RCA, 2016)
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Station To Station (dall’album omonimo, RCA, 1976)
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Sound And Vision (da “Low”, RCA, 1977)
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Young Americans (dall’album omonimo, RCA, 1975)
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Suffragette City (da “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars”, RCA, 1972)
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Life On Mars? (da “Hunky Dory”, RCA, 1971)
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Rebel Rebel (da “Diamond Dogs”, RCA, 1974)
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Per una volta la fretta è stata un’ottima consigliera. Nel senso che, nonostante l’autore sia venuto a mancare solo due giorni dopo l’uscita (coincidente con il suo sessantanovesimo compleanno) dell’ultima opera, la stragrande maggioranza delle recensioni già era stata pubblicata. Sicché i più hanno giudicato “Blackstar” in base ai meriti (tanti) o demeriti (eccetto forse l’assenza di un singolo “vero”, che mai Bowie aveva fatto mancare in un suo disco, a mio parere nessuno) e non sull’onda dell’enorme emozione suscitata da una dipartita inattesa. Bene così. Poi naturalmente lo si è riascoltato con altre orecchie e la pregnanza testamentaria è risaltata. Si sono magari pure rilette le recensioni e quella di “Pitchfork” ha facilmente vinto la gara per l’incipit definitivo: “David Bowie has died many deaths yet he is still with us”. Concludendo, Ryan Dombal scriveva ancora che “Bowie will live on long after the man has died” e come dargli torto? Sarebbero naturalmente bastati i suoi anni ’70, favolosi come quelli di nessun altro, a garantirglielo, ma “Blackstar” ha aggiunto la postilla, il punto esclamativo che alzi la mano chi se lo sarebbe mai aspettato. Perché sì, nel 2013 “The Next Day” già aveva sorpreso positivamente, inscenando un dignitosissimo ritorno in scena dopo un decennale silenzio a sua volta andato dietro a un ventennio di uscite ciascuna a suo modo più inutile, deludente o sbagliata dell’altra, ma quell’album era tutto rivolto al passato. Laddove questo guarda… al futuro inevitabilmente no. All’eternità? Quella che garantisce la grande arte. Una prospettiva che deve avere confortato chi, mentre ci stava lavorando, doveva confrontarsi con la consapevolezza che forse… forse… Dice Tony Visconti, lo storico produttore di Bowie tornato al mixer per quest’ultimo giro di valzer, che David ha lasciato i demo di cinque canzoni, indizio che probabilmente pensava di avere a disposizione più tempo di quanto non abbia avuto. Spiace. Però un’uscita di scena più magistrale di questa è inimmaginabile.
È un album clamoroso: per qualità; per la capacità di aggiungere qualcosa di inedito a una vicenda artistica variegatissima e lunga oltre mezzo secolo. Qui Bowie se pure recupera certe atmosfere della trilogia berlinese lo fa senza consegnarsi all’elettronica e in un contesto di rock definitivamente “post-”, free come quel jazz alla cui scuola si formarono i musicisti che lo fiancheggiano. La prima facciata – o se preferite la prima metà di programma – è perfetta: i Roxy Music aggiornati all’era dell’hip hop (ecco… questo sarebbe stato un eccellente singolo) dell’incalzante, esplosiva ’Tis A Pity She Was A Whore a separare il peregrinare fra spettri e galassie (in equilibrio incerto su una ritmica dapprincipio stortissima e poi vertiginosamente propulsiva) della traccia omonima da quella Heroes rantolata da un capezzale che è Lazarus. Tour de force dopo il quale scorrono quasi come acqua fresca la cupa nevrosi funk sottesa a chitarre marmoree di Sue (Or In A Season Of Crime) e la cantilenante ossessività di Girl Loves Me. Soprattutto: una Dollar Days dove il sax gigioneggia piuttosto che sferzare, fra scorci da colonna sonora che pacificano l’urgenza pur presente nella voce, e la conclusiva – energicamente confidenziale: un ossimoro – I Can’t Give Everything Away.
La puntina si alza dall’ultimo solco e non per la prima volta mi trovo a pensare che, a lati semplicemente invertiti, se “Blackstar” come meccanismo teatrale avrebbe funzionato meglio emotivamente avrebbe rasentato l’insostenibile. Rischiando però di precipitare nel melodrammatico. Sarebbe stato per l’appunto teatrale quando invece è commovente. Qui un artista immenso che del celarsi dietro una serie di maschere fece la sua cifra esistenziale si offre umanamente nudo per la prima – e ultima – volta.
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