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Predicator veridicus, inquisitor intrepidus et doctor egregius (in memoria di Valerio Evangelisti, 20/6/1952-18/4/2022)

Valerio Evangelisti è nato a Bologna nel 1952. Laureato in scienze politiche, di professione fa il funzionario del fisco. È uomo dagli svariati interessi: il computer, il cinema (predilige i film fantastici, ovviamente), la storia, lo scrivere. Nel tempo libero, funge anche da direttore della rivista Progetto memoria – La comune, un archivio aperiodico di materiali di storia contemporanea. Questo Nicolas Eymerich, inquisitore, che gli ha permesso di vincere il Premio Urania con l’assoluta unanimità della giuria, è la sua prima opera di narrativa che venga pubblicata; ma Valerio conta già una robusta bibliografia di saggi storici, tra i quali voglio ricordare almeno Il galletto rosso (1992), Gallerie nel presente (1988), Gli sbirri alla lanterna (1992). È, quindi, tutt’altro che un esordiente.

Così Vittorio Curtoni, illustrissimo e reverendissimo signore e padrone onorandissimo della SF italiana – poca cosa complessivamente (con qualche rilevante eccezione) prima che apparisse alla ribalta il nostro uomo e tutto sommato, ahinoi, anche dopo (ma con qualche eccezione in più) -, presentava Valerio Evangelisti in un epocale numero del quattordicinale Mondadori, quello del 2 ottobre 1994. Del travolgente impatto del debutto narrativo del Bolognese testimoniava l’apparire nella collana, tempo nove mesi, di un secondo romanzo di Eymerich e dopo altri nove di un terzo. Mai accaduto in precedenza per uno scrittore di casa nostra, dacché nel mondo AE (avanti Evangelisti) le vendite di “Urania” crollavano quando presentava autori italiani mentre nel mondo DE si impennano. Probabilmente perché ci aspettiamo tutti epigoni all’altezza e continuiamo a comprare nonostante le delusioni (aveva fatto sperare Luca Masali).

Di quella postfazione del Curtoni due curiosità mi sono rimaste lì. Una è che mi stupisce che nessuno abbia pensato a ripubblicare i volumi storici dell’Uomo in Nero. Saranno pure materiale per specialisti ma per il semplice fatto di avere quel nome in copertina venderebbero assai. Per quanto mi riguarda, prenoto le mie copie. L’altra è legata a quell’informazione sulla vita “prima” dello scrittore bolognese: funzionario del fisco. Informazione che non ho letto, ch’io ricordi, da nessuna altra parte e che rimpiango amaramente di non avere verificato di persona l’unica volta che mi sono trovato a dividere una stanza e una serata con l’ideatore di Eymerich, in occasione di un caffè letterario all’ombra delle Due Torri, qualche inverno fa. Che un ispettore delle tasse si fosse  reincarnato in  prosa in un inquisitore medioevale domenicano mi pareva faccenda dai risvolti irresistibilmente umoristici e dietro il suo aspetto inquietante – fisico allampanato in abiti color pece, dita affusolate, faccia severa – si ha l’impressione che Valerio Evangelisti sia tutt’altro che refrattario ai piaceri di una risata e con essa del bel vivere, del buon mangiare e del bere anche meglio: la dice lunga al riguardo l’affettuoso ritratto di Rabelais delineato ne Il presagio, atto primo della trilogia di Nostradamus. In questo totalmente diverso dal personaggio che gli ha dato la fama, che vedremo anche in TV (ogni scongiuro è lecito) e che personalmente non riesco a immaginare con altro volto che il suo. Del resto, in una vecchia intervista dichiarava: “Eymerich è come io sono, con i miei lati più negativi. Tutto quello che di peggio c’è in lui, c’è anche in me, più attenuato”.

A ben vedere sono però caratteristiche caratteriali positive ad accomunare maggiormente creatore e creatura: un’onestà intellettuale, un’integrità morale assolute. Che in Evangelisti si riflettono nella limpidezza delle prese di posizione politiche e anche in un giudizio sulla propria opera tanto distaccato da imporgli a suo tempo, per dire, la pubblicazione del sesto Eymerich, Picatrix – La scala per l’inferno, ritenuto inferiore ai due precedenti, direttamente in tascabile piuttosto che in edizione rilegata. Con un ovvio danno economico. Mentre interdicono ogni sfumatura di sadismo al crudele agire di Eymerich, prodotto del fare della fede (come giustamente annotava Ernesto G. Laura) una rigida astrazione priva di molti se non di tutti i valori evangelici: né carità, né comprensione, né tolleranza in lui. Figlio esemplare del suo tempo al di là del fatto che sia stato ispirato da un personaggio realmente esistito, Eymerich combatte il disordine – dei costumi, delle idee – “con ogni mezzo necessario”. Sicché la lotta per ciò che considera essere il Bene ne fa un esempio indimenticabile di Male Assoluto.

Tantissimo ci sarebbe ancora da dire – della maestria con cui Evangelisti mischia generi e influenze (il capolavoro Cherudek è Kafka più Dick più Lovecraft, Il corpo e il sangue di Eymerich cita apertamente Poe, il recente Il castello di Eymerich Mary Shelley) e piani temporali, innanzitutto – ma ho già ampiamente sforato sugli spazi concessimi. Due cose tengo però particolarmente ad appuntare: che il ciclo di Eymerich è un work in progress il cui protagonista si arricchisce di sfumature episodio dopo episodio (è questo a farlo tanto vivo) e che quella “immortalità da edicola” (quella che ha fatto sì che i Sandokan, gli Sherlock Holmes, i Maigret siano sopravvissuti a tanta letteratura cosiddetta “alta”) cui l’autore bolognese dichiarò anni fa di aspirare è stata appieno raggiunta. “Figura quasi cristologica, anche se in negativo”, Eymerich è già immortale. Tradotto con grande successo in Francia e in Spagna, Valerio Evangelisti è scrittore senza eguali nell’odierno panorama italiano. I soloni della Cultura naturalmente non se ne sono ancora accorti, ma questo è un problema loro, non nostro.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.452, 24 luglio 2001.

Vita (e morte) oltre Eymerich

Scrittore orgogliosamente “di genere”, a inizio carriera, in una delle sue prime interviste importanti, Valerio Evangelisti ebbe a dichiarare che i suoi romanzi non avrebbero mai avuto altro protagonista centrale che Eymerich. Ci ha a un certo punto ripensato e, sebbene rimanga sempre l’inquisitore domenicano la sua creazione più memorabile, è buona cosa che ciò sia accaduto. Prendete ad esempio la trilogia di Nostradamus, una faccenda del 1999 ambientata nel XVI secolo, qualcosa come mille pagine mandate in libreria nell’arco di appena sette mesi: non solo un graziosissimo divertissement, non solo un fumettone (sia detto nel miglior senso possibile) splendidamente congegnato e con un’impagabile attenzione al dettaglio storico (come quando veniamo incidentalmente informati dell’introduzione sulle tavole del raviolo, o che i poco pratici archibugi si stanno trasformando in pistole), ma anche un modo per arieggiare le stanze di un’ispirazione che in Picatrix per la prima volta aveva costeggiato le sabbie mobili della maniera. E difatti i successivi Il castello di Eymerich e Mater Terribilis si sono rivelati di ben altro livello, il secondo non molto distante dal capolavoro Cherudek.

Ha maggiori ambizioni la saga di Pantera, pistolero e sciamano fulcro di uno dei racconti della raccolta Metallo urlante (in materia di musica il nostro uomo ha gusti temibili) e poi di un romanzo, il recente e foschissimo Black Flag, giocato, come è consuetudine per l’autore bolognese, su più piani temporali: il passato di una guerra civile (civile?) americana combattuta da uomini che sono lupi anche fuor di metafora; il lontano futuro di un’umanità in cui il disordine mentale è la norma; il futuro prossimo di un paese dell’America Centrale in cui gli Stati Uniti fanno, al solito, i loro comodi. Pagine di impressionante crudezza che però avrei volentieri barattato (non scambiatelo per un giudizio critico, è solo una questione di pelle) con un altro Eymerich.

Ce ne vorrebbero viceversa dieci e della grandezza di Cherudek per farmi rinunciare agli Interventi sulla paralettura, diversi dei quali apparsi per la prima volta sulla rivista amatoriale diretta dal Nostro, “Carmilla”, antologizzati in Alla periferia di Alphaville. Ove si rinviene un po’ di tutto: ritratti di assassini seriali e un saggio (poteva mancare?) sull’inquisizione, un omaggio a Manchette e una dissertazione sull’ideologia di Nero Wolfe, debiti saldati nei riguardi di H.P. Lovecraft e di Vittorio Curtoni e un’esilarante Apologia del cinema bruttissimo. Purtroppo già di ardua reperibilità perché uscita per la minuscola L’Ancora del Mediterraneo, ove l’Evangelisti narratore ha visto la luce per Mondadori (Eymerich e Nostradamus) o per Einaudi (Pantera). Ma da avere, divorare, meditare a tutti i costi.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.508, 5 novembre 2002.

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Della compulsione a redigere liste e di cerchi che si chiudono

Era il 1990. Il sottoscritto e Federico Guglielmi (insieme con un manipolo di gran belle persone; eccetto un paio le ricordo ancora tutte con affetto) ci eravamo inventati qualche tempo prima un mensile chiamato “Velvet”. Un decennio era appena finito e nei numeri 17 e 18 della rivista (febbraio e marzo) provammo a fare il punto su “quegli anni importanti” passandone al vaglio la produzione discografica. Sul primo fascicolo sistemammo le schede di quelli che secondo noi erano i venti capolavori più capolavori di tutti, sul secondo scrivemmo di altri ottanta titoli. I lettori mostrarono apprezzamento e decidemmo allora di perseverare, portando in edicola quell’estate un supplemento del giornale che battezzammo “Velvet Gallery” e nel quale, facendoci dare una mano fra gli altri da Massimo Cotto, Paolo Ferrari ed Ermanno Labianca, estendemmo la nostra indagine al rock dei tre decenni precedenti, ’50, ’60 e ’70. Gli album a quel punto erano diventati 333. Ci divertimmo assai e la nostra piccola platea (piccola per allora; con quei numeri oggi non dico che ci arricchiremmo ma quasi) di nuovo gradì.

Fast forward… Primavera 2001. Esce il primo numero di “Extra”, supplemento inizialmente trimestrale dell’allora settimanale “Il Mucchio Selvaggio” e, guarda che coincidenza, un altro decennio si è da poco concluso. Possiamo non cadere nella tentazione di tirarne le somme al solito modo, ossia cercando di individuare cento dischi particolarmente atti a rappresentarlo? Più che caderci ci tuffiamo dentro, a capofitto. Entro il numero 5 già avevamo compilato una piccola summa del rock dai primordi a fine secolo che nel 2002 la Giunti si incaricava di portare in libreria. Quel “Rock – I 500 dischi fondamentali” dieci esatti anni dopo lasciava le librerie senza essere nel frattempo mai uscito di catalogo e diventava “Rock – 1000 dischi fondamentali”. Neanche quello (a testimonianza di numeri inusuali per il mercato editoriale italiano; figurarsi per quello specializzato in cose di musica) è mai uscito di catalogo. Anzi sì. Ieri.

Fosse stato per noi avremmo atteso un altro anno, giusto per arrivare a fine decennio, ma alla Giunti premevano per un aggiornamento e quando Riccardo Bertoncelli (per quanto mi riguarda: il vero e unico Venerato Maestro, sempre e comunque) ti chiede qualcosa è davvero difficile dire no. Abbiamo detto sì (io, Guglielmi e naturalmente Carlo Bordone e Giancarlo Turra, già preziosi complici nella precedente avventura), però nel contempo non dico cambiando gioco ma quantomeno un po’ di regole sì. Fuori dal volume i cosiddetti Padri Fondatori, si parte dal 1954 (dall’Elvis della prima, storica seduta di incisione alla Sun) e si giunge ai giorni nostri dando al termine “rock” un’accezione ancora ampia ma che non arriva a includere, diversamente dal precedente tomo, la world music. C’è molto meno hip hop, un po’ meno reggae, un po’ meno elettronica. Il tutto per far posto non solo a un buon numero di dischi usciti fra il 2011 e il 2018 ma anche a un tot di lavori storici che nel predecessore non eravamo riusciti a includere. E poi c’è l’appendice dei 100 culti. Non saprei dire esattamente (dovrei passarci mezza giornata; magari prima o poi lo faccio) quanti siano i dischi mai trattati prima inclusi in questo “1000 + 100”, ma a spanne azzarderei un paio di centinaia.

Per dare persino al lettore che ci segue sin da “Velvet” (ce ne sono, ce ne sono…) qualcosa di fresco, di nuovo, il brivido della sorpresa e, chissà, della scoperta. A proposito di Velvet: avete fatto caso all’etichetta del 33 giri che campeggia in copertina?

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Un atto di amore – Bruce Springsteen secondo Stefano I. Bianchi

Naturalmente non c’era bisogno alcuno di un altro libro sull’artista in questione e posso ben scriverlo avendo io pure contribuito – nell’ormai lontano 1998, con uno smilzo volumetto su Giunti – ad aggiungere un titolo a una lista che già allora contava, più che decine, centinaia di tomi. Avendo poi perseverato nel 2002 con un articolo per il trimestrale “Il Mucchio Extra” in cui sproloquiavo per quasi 75.000 battute e resta il mio singolo pezzo più lungo di sempre. Cosa aggiunsero l’uno e l’altro alla sterminata bibliografia dell’uomo del New Jersey? Nulla di indispensabile, ovvio. Giusto un punto di vista: il mio. Lo stesso fa Stefano I. Bianchi, aggiunge un punto di vista, premurandosi subito di chiarire che “in nessun modo quello che avete fra le mani si potrà considerare uno dei libri fondamentali su Bruce Springsteen”. Potrebbe naturalmente parere un caso lampante di excusatio non petita, accusatio manifesta, ma per presentare questo The Promised Man (bel titolo) la frase fondamentale è un’altra e sta in quarta di copertina: “Dedicato ai jihadisti di Bruce, che troveranno motivi per ricredersi, e a quanti lo schifano, che troveranno motivi per credere”. Manifesto programmatico cui resta fedele in quasi duecento pagine in cui fa ben di più che, come si usa nella collana editoriale di cui questo è il quindicesimo numero, esaminare dettagliatamente – uno per capitolo fino a un dato punto, poi accorpandone diversi – i dischi del musicista affrontato. Fa pure quello, sì, ma anche e azzarderei soprattutto ci mette dentro un bel pezzo della sua personale biografia. Storia esemplare nella quale non in pochi si riconosceranno e che chiarisce perché (qualunque sia l’opinione che se ne ha) Springsteen sia uno che ha fatto qualcosa di più che cambiare una storia del rock il cui corso generale (sostiene Bianchi, trovandomi sostanzialmente d’accordo) in sua assenza sarebbe anzi rimasto invariato. Springsteen ha cambiato vite, tante. Influenzandole in misura decisiva, salvandole persino, come si racconta nelle ventidue straordinarie, toccanti pagine dedicate a “Nebraska”. Bastanti da sole a farmi dire che, ecco, c’era invece bisogno di un altro libro dedicato a chi, nato per correre, da troppi anni arranca (per quanto il recente “Western Stars” abbia rappresentato un discreto, sorprendente colpo d’ala), ma soltanto a patto che il libro fosse esattamente così: oltre che un trattato critico, il resoconto di un’educazione sentimentale.

Ciò detto: come è del resto nel suo stile Bianchi non fa sconti. Mai. Nemmeno (qui fermamente dissento; ma poche cose mi danno più soddisfazione di leggere chi, argomentando bene, sostiene un’opinione esattamente opposta alla mia) di fronte a un feticcio come “The River”. E figurarsi come può pronunciarsi allora rispetto a larghissima parte della produzione post-“Tunnel Of Love” e alle speculazioni discografiche (alcune vergognose)  cui il buon Bruce si è a più riprese prestato, dando adito a dubbi su un’onestà intellettuale che parve a lungo specchiata. Giusto così e pazienza se qualche ultrà non la prenderà bene. Dai grandi è giusto pretendere, è con i mediocri che ci si può accontentare. Da un libro scritto da Stefano I. Bianchi io pretendo sempre molto: me lo ha dato.

PS – Però siccome il SIB ragiona allo stesso modo e di conseguenza non me ne ha fatto mai passare una che fosse una di (oggettiva) minchiata, sadicamente lo ripago con la stessa moneta facendogli notare (pag.162) che Lyn Collins non era parente né di Bootsy né di Catfish e non è stata esattamente una qualunque, bensì una delle più inconfondibili voci femminili della storia del funk, nonché (con Vicki Anderson e Marva Whitney) la principale delle cantanti del giro di James Brown.

Se siete abbonati a “Blow Up”, avete ricevuto Bruce Springsteen – The Promised Man in gentile omaggio con il numero di luglio/agosto della rivista. Se non lo siete, potete cercarlo in edicola (quelle più grandi) ancora fino a fine mese. Non trovandolo, resta l’opzione dell’acquisto direttamente dal sito: qui. Pagine 196, € 20.

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Prossimamente nelle migliori librerie

E, auspicabilmente, anche nelle peggiori.

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Rap e rivolta sociale (quando Los Angeles bruciò)

Il 3 marzo 1991 Rodney King, un pregiudicato afroamericano, venne fermato durante un “normale” controllo da alcuni agenti del Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Come pare essere “normale” da quelle parti se la tua pelle non è del colore giusto, venne brutalmente percosso, senza nessuna giustificazione. Ciò che quella sera sfuggì alla “normalità” fu che un videoamatore riprese il tutto e che le immagini del pestaggio fecero il giro del mondo suscitando enorme scalpore. A dispetto dell’evidenza dei fatti, il 29 aprile dell’anno dopo i poliziotti squadristi vennero assolti. Prima che calassero le ombre della sera il cielo di Los Angeles era illuminato dagli incendi. Per alcuni giorni i più gravi disordini razziali degli ultimi trent’anni tennero in ostaggio la seconda città degli Stati Uniti.

Scritto a ceneri ancora calde e pubblicato nel 1993 (titolo originale It’s Not About A Salary… Rap, Race + Resistance In Los Angeles), l’eccellente studio di Brian Cross sul rap losangeleno patisce inevitabilmente il grave ritardo dell’uscita italiana. Si perde, almeno in parte, l’impatto del commento a caldo. Senza contare che cinque anni nell’hip hop equivalgono a dieci, se non quindici, nel rock. Resta nondimeno una lettura appassionante e illuminante, esemplare per articolazione (alla parte saggistica segue una lunga serie di interviste a produttori, rapper e DJ) e per la capacità di arrivare ad analisi sociologiche non banali partendo dalla musica e da quanto ci sta attorno. Ammesso che con l’hip hop sia possibile fare questa distinzione, visto che è stile di vita come nessun altro genere musicale nella storia. Cross non dà voce soltanto alle star, ma anche ai pionieri (l’intervista ai Watts Prophets è imperdibile) e all’uomo della strada, e dà il giusto rilievo all’influenza esercitata dagli ispanoamericani nella nascita e nell’evoluzione della scena.

Cinque anni nell’hip hop, si è detto, sono un’eternità. Il gangsta-rap è oggi quasi un ricordo. E siccome la storia ama ripetersi è meno paradossale di quanto sembri che le conclusioni della prima parte di Hip hop a Los Angeles suonino nel 1998, con l’Old Skool che sta tornando prepotentemente in auge, attuali come non mai: “…l’hip hop a L.A. oggi è una comunità di camere da letto, microfoni aperti occasionali e frequenze radio. Nelle case di tutta la città la gente si raccoglie intorno a giradischi, collezioni di dischi, SP1200 e MPC60 per creare dei mondi che si intersecano e assorbono la realtà. In una rete di cassette, campionamenti difficili da trovare, club nomadi e spesso sotterranei… agenti dei beat mettono insieme il collage della colonna sonora per la sopravvivenza urbana”. (Shake, pp.258)

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.7, settembre/ottobre 1998. A oggi sono trascorsi esattamente venticinque anni da quell’assurda sentenza e dai disordini che le andarono dietro.

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Leggere di Thelonious Monk, a trentacinque anni dalla morte

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Sono state scritte tante biografie dei grandi del jazz e diverse di Thelonious Monk, oltre che artista colossale personaggio, per la sua tragica parabola umana, inevitabilmente destinato a calamitare attenzioni morbose. Poteva a priori sembrare inutile una nuova esegesi della sua vita. Invece questo libro di Laurent de Wilde, francese e lui stesso valente pianista, non solo non risulta superfluo ma è il migliore ritratto di Monk mai disegnato. Di più: è una delle più affascinanti e illuminanti biografie di jazzisti mai date alle stampe, un esempio mirabile di come bisognerebbe affrontare la materia, senza dare per scontato nulla quando si delinea il quadro storico nel quale la vicenda trattata si inserisce, senza perdersi in disquisizioni tecniche troppo lunghe che allontanano il lettore non musicista ma dicendo ciò che di essenziale va detto al riguardo. Ma de Wilde, complice la perfetta traduzione di Michele Mannucci (dicesi traduttore perfetto quello la cui mano non si vede), fa molto di più: scrive un saggio che si divora come un romanzo, con un’empatia crescente nei confronti del protagonista via via che le pagine scorrono. Ci si appassiona al Monk uomo, soffrendo per la sua dolorosa discesa nell’autismo, come ci si appassiona all’artista, il più grande pianista del bebop, caso strano di jazzista il cui stile non si evolve nel corso di una carriera trentennale non per immobilismo ma perché già perfettamente formato all’inizio. Totalmente altro rispetto a chiunque si fosse sentito fino ad allora.

Mentre leggevo mi è venuta voglia di riascoltare i dischi di Monk che avevo in casa. Appena ho finito, sono andato a comprarne altri. Thelonious Monk Himself fa questo effetto. Consigliato a chiunque abbia un interesse anche vago per il jazz e persino a chi non ne ha nessuno. (mimimum fax, pp.216)

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.18, novembre 1999. La copertina riprodotta è quella della ristampa del 2007.

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I Feel Good – L’autobiografia (di/per James Brown, 3 maggio 1933-25 dicembre 2006)

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Ho portato dentro il fuoco e la rabbia che nascono dalla povertà, dalle famiglie divise, dall’indifferenza della società, che sperimentai da bambino per anni, tenendomeli dentro, una parte sostanziale e profonda della mia crescita. Come tanti altri poveri ragazzi e ragazze neri del Sud, non sono mai riuscito a scuotermi di dosso completamente la maledizione della paura”: così il “Signor Dinamite”, il “Più grande lavoratore del mondo dello spettacolo”, il “Fratello soul numero uno” o il “Padrino del soul” che dir si voglia una decina di pagine addentro quella che è un’autobiografia assai sui generis, prontamente e discretamente tradotta da minimum fax a un anno dall’uscita negli Stati Uniti. Parole che sono la chiave di volta di un volume per molti versi irritante e almeno altrettanti illuminante, in particolare quando dice più di quello che vorrebbe dire e guarda caso la frase che ritorna di più è “Non fraintendetemi”. Anche se sembrerebbe esserci poco da fraintendere quando, un paio di pagine dopo, il nostro eroe dichiara: “Sono orgoglioso di essere americano… Il mio ordine di priorità è chiaro: Dio, patria, famiglia”. Né quando parecchio più avanti, con un rovesciamento di prospettiva in apparenza totale, racconta della più umiliante delle tante volte in cui è finito in gattabuia, uno che vanta di aver conosciuto di persona sette degli ultimi otto presidenti USA: “Ricordo che quando venni portato via un giornalista mi chiese come mi sentivo, se pensavo ci fossero motivazioni razziali dietro quello che stava accadendo. Alzai i polsi, sorrisi, dissi: ‘Le vedi queste manette? Si chiamano America’. Credo quella volta di averne fatto una sintesi niente male”. Davvero!

Più ecumenico (che è nel suo caso un modo elegante per dire qualunquista) che francamente conservatore in politica quanto è stato rivoluzionario in musica, Brown appare in queste pagine un inestricabile groviglio di contraddizioni: riflesso fedelissimo insomma del paese che tanto ama. I limiti di I Feel Good sono evidenti. Troppe le digressioni, troppi gli omissis, dagli anni giovanili liquidati frettolosamente ai musicisti che in maniera determinante contribuirono alla nascita di uno dei sound più peculiari di sempre e nemmeno si prendono una citazione. Purtroppo Marc Eliot si è limitato a un’introduzione, non ha svolto il ruolo di co-autore assunto ad esempio da David Ritz nel viceversa esemplare Brother Ray. Nondimeno, per chi adora l’uomo di Sex Machine e decine di altri classici, vale la pena di leggere I Feel Good. Anche solo per la lunga digressione sul “battere” e il “levare” che spiega magistralmente perché dopo James Brown la musica non è più stata la stessa. (minimum fax, pp.232)

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.22, estate 2006.

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Hüsker Dü: Songs And Stories

Roberto Curti - Hüsker Dü

Bob Mould che fa da babysitter (si può immaginare come) a uno strafatto Johnny Thunders quando degli Hüsker Dü freschi di debutto a 45 giri si ritrovano a suonare di spalla all’ex-New York Dolls. Un alticcio John Cale che si affaccia nei camerini dopo un loro concerto californiano e si offre di curare l’esordio a 33 giri dei ragazzi (purtroppo non se ne farà nulla; la mente vacilla al pensiero di ciò che sarebbe potuto essere e non fu). Le copie di “Metal Circus” impagabilmente autografate al contrario per adeguarsi all’immagine di copertina. La penuria di nastri che si palesa in studio quando il trio è alle prese con la registrazione del monumentale “Zen Arcade” e che viene risolta sovraincidendo una bobina che immortalava uno spettacolo televisivo dei Bee Gees. La rivoluzione che sul serio inizia davanti a uno specchio nel proprio bagno, come da note di “Warehouse: Songs And Stories”, per un Mould che una bella mattina si guarda, non si piace e decide che è ora di farla finita con la bottiglia. Prima George Martin (!!!) e poi Pete Townshend (!) candidati alla produzione del successore di “Warehouse” e, per favore, speditemi subito nella dimensione parallela nella quale gli Hüskers, prima di inevitabilmente implodere per l’incompatibilità umana fra i due leader, hanno aggiunto un ulteriore capitolo al loro folgorante romanzo. Bob Mould che dà del bugiardo a Cobain quando già Cobain è morto. Grant Hart che spesso va a trovare tal William S. Burroughs e gli racconta barzellette. Burroughs replica discettando di armi da fuoco e pagherei per avere dei nastri delle conversazioni fra i due ex-tossici.

Ecco: le centosessanta pagine di Hüsker Dü, terzo tomo della collana Director’s Cut pubblicata dalle edizioni che da quasi vent’anni ogni mese mandano in edicola “Blow Up”, sono piene di aneddoti simili e dettagli fulminanti (si potrebbe, per dire, stilare una playlist dei plagi “creativi” di Mould e Hart che vengono segnalati e ci sarebbe da divertirsi assai). E tutto ciò contribuisce la sua parte a rendere appassionante la lettura di un volume dove Roberto Curti (autore noto soprattutto a chi ama certo cinema italiano di genere) non intende fare letteratura ma semplicemente offrire fatti (puntigliosamente) e opinioni (ovviamente le sue: ben circostanziate). Nondimeno lo fa con uno stile di asciutta eleganza che solo chi come lui si è trovato davanti un foglio bianco da riempire sa quanto sia difficile da raggiungere. Alle prese con un’epopea giunta ai giorni nostri sia per la straordinaria influenza che il trio Mould/Hart/Norton continua a esercitare che in forza delle carriere solistiche dei primi due (il libro è diviso quasi esattamente a metà fra le vicende del gruppo e quanto è andato dietro al suo scioglimento), Curti acchiappa il lettore per la collottola, senza sembrare, e lo porta d’un fiato fino in fondo. Spiegando perfettamente – fra le righe e non e abilmente scansando la retorica cui l’argomento facilmente si sarebbe prestato – perché per chi visse “quegli anni importanti” al solo nominarli, gli Hüsker Dü, si “riapra una ferita nel petto, lì a sinistra”. Nel suo piccolo è una prova magistrale e in Italia colma un vuoto. Chi legge senza problemi l’inglese e vorrà eventualmente approfondire, potrà poi porre mano alla però troppo egomaniaca autobiografia di Bob Mould See A Little Light: The Trail Of Rage And Melody e all’ancora disponibile Hüsker Dü: The Story Of The Noise-Pop Pioneers Who Launched Modern Rock di Andrew Earles. Ma non ne avrà davvero bisogno. (Tuttle, pp.162, € 10)

Chi a “Blow Up” è abbonato ha ricevuto Hüsker Dü in omaggio con il numero estivo (luglio/agosto) della rivista. Gli altri potranno acquistarlo – eccezionalmente – in edicola nelle principali città italiane ancora per circa due mesi. Chi non riuscisse a trovarlo può ordinarlo qui.

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La stanza degli specchi di Jimi Hendrix

Charles R. Cross - La stanza degli specchi

Già autore di una biografia dell’altro grande artista (che stranezza: un mancino pure lui) grazie al quale Seattle figura sulle mappe del rock’n’roll, vale a dire Kurt Cobain, Charles R. Cross ha speso quattro anni (seconda coincidenza: quanto l’eroe di questo libro rimase da vivo sotto i riflettori) raccogliendo materiali su Jimi Hendrix per raccontarne in ogni più minuto risvolto “la vita, i sogni, gli incubi”. Lavoro certosino il suo, fatto di interviste a centinaia di persone che con il chitarrista più creativo che abbia mai abitato il panorama del rock divisero frazioni consistenti di una vita troppo breve, o anche solo l’attimo fuggente di un incontro casuale. Fatto di recupero di materiali giornalistici d’epoca. Fatto – presumibilmente – di esami al microscopio della marea di volumi scritti riguardo a Hendrix prima di questo e di pignoli confronti e mediazioni fra l’uno e l’altro e l’altro ancora, siccome la memoria è traditrice e non è detto che il ricordo di un testimone interrogato decenni fa sia uguale alla ricostruzione degli eventi che fa oggi. Tanto di cappello a Charles R. Cross e insieme un po’ di invidia per chi, potendosi rivolgere a un bacino di utenza immensamente più ampio del miserevole mercato editoriale nostrano, può permettersi di dedicare tanto tempo a un libro, sicuro che economicamente il gioco varrà la candela. La stanza degli specchi non si legge forse d’un fiato, a volte l’eccesso di dettagli se non arriva a far smarrire il filo perlomeno distrae, ma si fa leggere eccome. Ed è senz’altro da promuovere fatto salvo che, se è un’analisi musicologica che cercate, dovrete rivolgervi altrove. Qui c’è il romanzo – doloroso – della vita di un musicista immenso ma di musica in senso stretto si parla sorprendentemente poco.

Non si può invece promuovere – si usa ancora rimandare a settembre? non sono aggiornato – la traduzione. Che sarà pure al di sopra dell’ultradeficitaria media del settore ma paga (a parte l’uso, che andrebbe punito con la reclusione, della parola “decade” in luogo di “decennio”; a parte qualche battaglia perduta con i congiuntivi verso fondo corsa) l’essere stata affidata a un signore che di musica evidentemente sa ben poco. Che nell’arco di qualche centinaio di pagine riesce a non scrivere mai “rhythm” con tutte le “h” al posto giusto e crede che Shirelles sia un autore, non un gruppo, e – udite bene! – Kim Fowley (pag.266) una donna. (Kowalski, pp.466)

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.24, inverno 2007.

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Quei cattivi bravi ragazzi del Mucchio

Silvio Bernelli - I ragazzi del Mucchio

Volevamo essere tosti come i Killing Joke e romantici come i Joy Division. Prima però avremmo dovuto imparare a suonare ciascuno uno strumento. Il mio fu il basso elettrico”: comincia così, come una piccola epopea che si promette mediana fra Saranno famosi e Quasi famosi, il primo romanzo del trentottenne torinese Silvio Bernelli e si potrebbe pensare sia semplicemente l’ennesima storia di rock’n’roll, come tante ne sono state scritte, e preventivamente crucciarsi che uno che ha avuto un’adolescenza viceversa non come tante si rifugi per il debutto nella confortante banalità dell’autobiografia. E poi basta con queste cronache di reduci del punk tricolore (quante altre ne abbiamo lette) che cominciano a farci sembrare il Capanna uno che non vede l’ora che arrivi il futuro. Si potrebbe pensare. Ma già nelle primissime pagine qualche dubbio si insinua perché subito, prima ancora delle vicende narrate, conquistano la lingua, che è asciutta e lirica insieme, e il passo, sicuro e guarda un po’ sapientemente ritmato. Ti accorgi che è con uno scrittore vero che ti stai confrontando e che il suo è un esordio che di tale categoria ha i pregi, freschezza in primis, e nemmeno per una pagina, una frase, un rigo appena il peccato capitale che è la ridondanza. Vorresti cercargli un difetto, ma non ne trovi. E piano piano cresce la consapevolezza che I ragazzi del Mucchio è innanzitutto un esemplare bildungsroman e solo molto dopo la cronaca delle imprese di una ghenga di adolescenti che, partendo dalla periferia della periferia dell’Impero, scrissero i loro nomi nel libro mastro del punk.

Si chiamavano Declino, Negazione, Indigesti, erano a malapena maggiorenni e qualcuno no e inventandosi tutto cammin facendo tracciarono una via italiana all’hardcore che finì per renderli profeti nel paese che l’hardcore lo aveva inventato, gli Stati Uniti, e un po’ ovunque in Europa tranne naturalmente che da noi. Restano i loro dischi e non è poco. Restano i ricordi di quanti li seguirono, ammirandone intraprendenza e attitudine persino al di là del fatto che la musica piacesse o meno. E resta adesso un libro, che è giusto dire romanzo perché la sapienza del montaggio gli fa trascendere la natura diaristica, che con partecipazione fra l’ironico e il commosso narra magnificamente le loro avventure spesso picaresche: le prove, i concerti, i sogni e gli amori. I fallimenti e l’orgoglio. Un libro capace in certe sue pagine di lasciarti senza fiato, come succede di fronte alle rivelazioni: “La primavera del 1983 fu… uno di quei momenti in cui tutto succede in fretta. Quando ogni giorno è pieno e nuovo. Quando senti che il mondo ti ruota intorno”. (Sironi Editore, pp. 204)

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.11, autunno 2003.

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