Archivi categoria: recensioni

black midi – Hellfire (Rough Trade)

Lo scorso 19 luglio a Londra il termometro ha segnato 40.3°, la temperatura più alta mai registrata da quelle parti. Un incubo per tutti fuorché i black midi, che quando decisero di chiamare il terzo album “Hellfire” non potevano certo immaginare che quattro giorni dopo una pubblicazione incredibilmente quanto involontariamente tempestiva i quotidiani avrebbero titolato a proposito dell’ondata di caldo che ha colpito il Regno Unito come il resto d’Europa usando proprio quella parola: “Hellfire”. Di tale pubblicità gratuita hanno approfittato affittando un furgone e girando per la capitale britannica vendendo oltre al disco e al relativo merchandising… gelati. Di un sense of humour formidabile quanto la maestria tecnica dei nostri giovani eroi danno d’altronde testimonianza (non per la prima volta) anche i crediti del disco, laddove Geordie Greep, Cameron Picton e Morgan Simpson satirizzano il vecchio prog, loro che sono ormai considerati i massimi alfieri di uno nuovo sul serio, attribuendosi rispettivamente trentatré, trentatré e ventisei diversi strumenti. Parecchi invero improbabili. Elencano in qualità di turnisti settantaquattro nomi, venticinque dei quali si sarebbero prestati nella terza di dieci tracce, Eat Men Eat, a produrre “burps”, “rutti”. Qualcuno ha detto “Frank Zappa”?

A riascoltarli, è un’influenza che sebbene in misura minore si coglie pure in predecessori per i quali sono stati chiamati in causa King Crimson, VDGG, Scott Walker, Gang Of Four, Wire, Fall, P.I.L., Pere Ubu, Sonic Youth, Butthole Surfers, Primus, Slint, Shellac, June Of 44, Battles. Se volete a questo giro aggiungete Captain Beefheart e Naked City. Non cambierà, tirando le somme, il risultato: nessuno ha mai suonato così. Nessuno.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

1 Commento

Archiviato in archivi, recensioni

Interpol – The Other Side Of Make-Believe (Matador)

All’inizio della loro carriera per i maligni gli Interpol erano una cover band dei Joy Division che aveva avuto la fortuna di rinvenire chissà dove un gruzzoletto di inediti di Ian Curtis e soci e con quelli aveva messo insieme un album, “Turn On The Bright Lights”. Bello, eh? Ma esageratamente derivativo e passatista. Né giovava alla causa del gruppo newyorkese che il tour promozionale del disco, che toccava pure l’Italia, ne evidenziasse un’algidità che sapeva di alterigia e una sostanziale incapacità di tenere il palco (parrebbe che la situazione non sia migliorata con gli anni). In realtà quell’album, che in ogni caso da subito trovava più estimatori che detrattori, non era così appiattito sul modello di cui sopra, certamente si rifaceva alla new wave primigenia ma mischiando varie influenze con sensibilità sufficientemente peculiare e moderna e, soprattutto, era ben articolato e poteva contare su grandi canzoni. Se non si può dire che il tempo (ricorre quest’anno il ventennale dall’uscita) abbia fatto giustizia è solo perché da lungi è ritenuto un classico e spesso lo si ritrova in liste sufficientemente corpose dei capolavori che hanno segnato la storia del rock. Meritatamente.

Il problema è che da lì è stata tutta discesa. Dapprincipio lenta e, siccome si partiva comunque da molto in alto, almeno “Antics” (2004) e “Our Love To Admire” (2007) restano dischi consigliabili. Poi basta. “The Other Side Of Make-Believe” comincia bene, con una Toni dal suadente allo sferzante, ma subito si perde, ritrovandosi giusto in una Renegade Hearts leggera ma incisiva e nell’occhieggiare ai Japan di Big Shot City. Oggi gli Interpol suonano come una cover band… degli Interpol, con un repertorio di scarti.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

1 Commento

Archiviato in archivi, recensioni

Kula Shaker – 1st Congregational Church Of Eternal Love (And Free Hugs) (Strange F.O.L.K.)

Nell’era aurea dei Kula Shaker, che vide il quintetto londinese conquistare la vetta dalla classifica degli album più venduti in Gran Bretagna con l’esordio del ’96 “K” e quasi replicare nel ’99 con “Peasants, Pigs And Astronauts” (piazzando fra l’uno e l’altro sei singoli nella Top 10) non ero un fan del gruppo del chitarrista Crispian Mills. La sua psichedelia orientaleggiante con tocchi di Britpop ad ammodernarla appena avrebbe avuto tutto per piacermi e invece non mi piaceva per niente: la trovavo oleografica, caricaturale. Mai avuto una passione nemmeno per i concept, per quanto alcuni abbiano fatto la storia del rock. Non avrei comunque fatto salti di gioia vedendomi assegnare una recensione dei Kula Shaker, men che meno allora apprendendo che il quarto lavoro licenziato dalla band in una seconda vita iniziata nel 2004 è per l’appunto un concept. E allorché scorrendone i crediti ho notato che Mills, che sarebbe stato in ogni caso quello talentuoso, è co-autore di una sola delle venti tracce, la leadership ora nelle mani del bassista e cantante Alonza Bevan, mi sono preparato al peggio. Figurarsi quando all’ascolto sono sbucati vari interludi spoken, che detesto!

E però… Già quel primo passaggio mi ha spiazzato favorevolmente, non come assieme ma in forza di alcune canzoni ben più che di onesto mestiere: l’hard zeppeliniano Whatever It Is, il country-blues Love In Separation, il pastiche dylaniano Where Have All The Brave Knights Gone?, una pinkfloydiana The Once And Future King, il raga After The Fall Pt.2 & 3. Quando al terzo o quarto giro sono scoppiato a ridere durante una parte parlata mi sono arreso all’evidenza: i Kula Shaker hanno pubblicato un gran bel disco. Il loro migliore. Nel 2022.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.445, settembre 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Wilco – Cruel Country (dBpm)

Chiudere un cerchio dopo ventisette anni se non dopo trentadue. Tornare dove tutto era iniziato, ossia più che ad “A.M”, l’album che per gli Wilco di Jeff Tweedy inaugurava nel 1995 una discografia giunta al dodicesimo capitolo in studio, a quel “No Depression” che nel ’90 avviava il viaggio breve degli Uncle Tupelo di Jeff Tweedy e Jay Farrar: capolavoro nel quale da allora si individua l’atto fondativo dell’alt-country e che ha prodotto epigoni in numero incalcolabile. Doppio per ora solo sulla carta (sarà edito sia in CD ─ forse singolo? una durata che ammonta a 77’04” lo permetterebbe ─ che in vinile quando i problemi di approvvigionamento che affliggono il secondo formato consentiranno un’uscita in contemporanea), “Cruel Country” ha ridestato l’interesse per un progetto che da tempo andava avvitandosi su se stesso, dopo aver prodotto almeno una cinquina di album giganteschi, già al solo annuncio del titolo. Possibile che dopo tutto quanto fatto per distaccarsi da quell’etichetta là ─ alt-country ─ inventandosi un sound inaudito sconfinante nel post-rock Tweedy e soci volessero rivisitare i luoghi da cui erano partiti?

In realtà è così e non è così. Nel percorso che da una Absolutely Sweet Marie sedata chiamata I Am My Mother porta a una The Plains con vistose scorie “post-” gli Wilco declinano sì country-rock, quando non schietto country, ma pure folk e folk-rock, non lesinano le consuete melodie beatlesiane (versante Lennon) né momenti da college radio che fu. A rendere eccezionale “Cruel Country”, decretandolo la loro prova migliore da “Sky Blue Sky” (lontano 2007), sono il livello della scrittura e la rilassata intensità di incisioni catturate perlopiù dal vivo in studio, con pochissime integrazioni a posteriori.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

4 commenti

Archiviato in archivi, recensioni

John Doe – Fables In A Foreign Land (Fat Possum)

Sempre pensato, da quando vidi per la prima volta gli X in foto, che con quella sua bella faccia da onest’uomo americano John Doe sarebbe stato perfetto per il cinema. Che un John Ford qualche decennio prima non avrebbe esitato a includerlo nel cast di un suo western. Deve aver fatto la stessa impressione a tanti: comprensiva anche di varie serie TV, la filmografia dell’uomo nato John Nommensen Duchac sessantanove anni fa è chilometrica. Persino più di una discografia pure assai cospicua giacché oltre alla band sunnominata, una delle più grandi dell’era artisticamente aurea del punk USA, comprende Knitters, Flesh Eaters e una carriera da solista di cui quest’album (primo per la sempre più in auge Fat Possum) è il tredicesimo capitolo in studio. Atteso sette anni ma che gli vuoi dire a uno che nel frattempo ha pubblicato due libri e un disco (splendido) con i riformati X, suonato parecchio dal vivo e aggiunto al curriculum attorale un ruolo di primo piano in All Creatures Here Below?

Di “Fables In A Foreign Land” stupisce più che altro il titolo: come sarebbe a dire “terra straniera” quando il disegno che ne adorna la splendida copertina ritrae un cowboy di schiena, incamminato verso nuove avventure con a fianco il suo cavallo? Immagine quanto mai iconica e, a proposito, il disco prima si chiamava “The Westerner”. E quali “favole”? Schizzi assolutamente realistici invece, per quanto ambientati in un indefinito passato. La distanza che apparentemente separa questi tredici brani pencolanti più verso il folk o il folk-rock che il country, tolte un paio di deviazioni in area tex-mex e rockabilly, dal sound scorticato e ipercinetico degli X in realtà in spirito si annulla. Identica è l’onesta dell’approccio. Si torna lì: all’onestà.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Kendrick Lamar – Mr. Morale & The Big Steppers (Top Dawg)

La faccenda, che poi sarebbe l’ego del titolare di “Mr. Morale & The Big Steppers”, sta forse sfuggendo di mano se sulla copertina del tuo nuovo album, atteso cinque anni, ti fai immortalare con in capo un facsimile di corona di spine, a mo’ di novello Gesù Cristo. Se fai di te stesso ─ siano gli inconvenienti dati dall’essere personaggio pubblico di prima grandezza, siano i rapporti con la tua famiglia ─ l’argomento più che centrale quasi unico di un doppio che consta di diciotto brani che assommano oltre settantatré minuti. E se delle diciotto tracce in questione la più memorabile è, ma in negativo, lo scambio di insulti fra te e una donna di We Cry Together mi sa che abbiamo un problema che va oltre l’approccio ombelicale del successore del già non del tutto convincente “Damn.” Per carità: se hai venduto settanta milioni di dischi nei soli Stati Uniti ramazzando cammin facendo anche quattordici Grammy, un Pulitzer (!) e una candidatura agli Oscar e “Time” ti ha inserito in una lista delle cento persone più influenti del mondo sei pure giustificato a pensare di essere il centro dell’universo e però…

Però se “Mr. Morale & The Big Steppers” risulta estenuante non è né per i testi (siamo onesti: chi si prenderà la briga di seguirli qui da noi?) e nemmeno per la durata. Il colossale “To Pimp A Butterfly” (2015) totalizzava sei minuti in più e ciò non gli ha impedito di imporsi come uno dei pochi indiscutibili capolavori della musica black ─ e non solo ─ di questo secolo. È che mentre quello faceva strage di stereotipi ed era musicalmente densissimo questo è slegato (poco hip hop e troppo errebì all’ingrosso), parte bene ma poi si perde e non ritrova un po’ di estro (il minimo sindacale per un campionissimo) che verso fondo corsa.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.444, luglio/agosto 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Bloc Party – Alpha Games (Infectious)

Chi ben comincia è a metà dell’opera ma pure un po’ nei guai. Cominciavano benissimo i Bloc Party, che formatisi ufficialmente nel settembre 2003 (i quattro fondatori in realtà suonavano insieme da tempo) già entro fine anno si ritrovavano a esibirsi, su invito dei Franz Ferdinand, alle celebrazioni per il decimo compleanno della Domino. A metterli sotto contratto dopo un paio di singoli per marchi più piccoli era però la Wichita e ben gliene veniva visto che nel 2005 il debutto in lungo “Silent Alarm” era un successone sia di pubblico che di critica. Numero 3 e disco di platino nel Regno Unito, veniva candidato al Mercury Music Prize ed era “album dell’anno” per il “New Musical Express”. Diciassette anni dopo suona ancora ─ se non nuovo e del resto nuovo non suonava nemmeno allora, devoto com’è a Gang Of Four, Joy Division, U2 primevi ─ fresco, eccitante. Non sono mai riusciti a superarsi, i Londinesi (restano tuttavia ascoltabili e consigliabili “A Weekend In The City” del 2007 e “Four” del 2012), e nel 2018 cedevano alla nostalgia riportando in tour quel disco nella sua interezza e addirittura traendo dai concerti un live ricalcato sulla scaletta originale.

Sarà forse a ragione di ciò che “Alpha Games” sembra più un’estensione del lontano debutto che il seguito di “Hymns”, che nel 2016 insieme stupiva e lasciava perplessi sperimentando con r&b ed elettronica. Solo che le canzoni non sono di quel livello, manco lo avvicinano se non nel trittico iniziale Day Drinker/Traps/You Should Know The Truth. Che fa un quarto di un programma nel cui resto spiccano in negativo l’innodia sub-Coldplay di Of Things Yet To Come, in positivo se non altro perché spiazza l’atmosferico suggello un po’ Roxy Music The Peace Offering.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Ghost Power – Ghost Power (Duophonic Super 45s)

C’erano una volta i franco-britannici Stereolab e a dire il vero ci sarebbero di nuovo, ma da quando si sono rimessi insieme nel 2019 non hanno pubblicato nulla che non venisse dagli archivi: fra i gruppi di area post-rock uno dei più geniali e di sicuro (sensibilità pop spiccatissima) il più accessibile. E c’erano una volta pure i più sperimentali Dymaxion, americani, che pubblicarono giusto una manciata di singoli e il cui unico album (in realtà un’antologia) nel Regno Unito vedeva la luce su Duophonic, vale a dire per l’etichetta degli Stereolab. Era allora, nel 2000, che il co-leader dei primi, Tim Gane, e Jeremy Novak dei secondi stringevano un rapporto amicale. Per farlo diventare sodalizio artistico hanno atteso il 2020, quando lavorando il primo a Berlino e il secondo nella sua New York hanno cominciato a scambiarsi via Internet idee e parti strumentali. Offrivano subito un assaggio del potenziale della collaborazione con un 7” cui danno ora più cospicuo seguito con un album che ne riprende entrambe le facciate e aggiunge otto tracce inedite.

Non fosse che gli mancano la parola (è solo strumentale) e Lætitia Sadier, “Ghost Power” potrebbe essere il disco che dagli Stereolab riformati abbiamo finora aspettato invano: fantastico pastiche di pop, krautrock, kosmische musik, colonne sonore, new wave, 39’36” di cui però ben 15’05” occupati dall’odissea “deep in the outer space” di Astral Melancholy Suite. Per arrivarci passerete da genialate come Inchwork (gli Wire alle prese con una melodia di limpidezza kraftwerkiana), Grimalkin (John Barry e i Tangerine Dream che musicano insieme un capitolo di Star Wars) e Vertical Section (novella Popcorn, anche se non se ne accorgerà nessuno).

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni

Spiritualized – Everything Was Beautiful (Bella Union)

Se hai fatto la storia del rock sei un grande con un grande problema: ogni tuo album verrà contestualizzato in un canone con apici ineguagliabili, per ogni brano che scrivi si assumerà a paragone il catalogo cui si aggiunge. Puoi fartene sopraffare ed era quanto accadeva a Jason Pierce ─ con Sonic Boom in quegli Spacemen 3 che nei secondi ’80 si inventavano un’inaudita psichedelia post-punk; e poi artefice nel ’97 con gli Spiritualized di “Ladies And Gentlemen… We Are Floating In Space” di una sorta di nuovo, fragoroso “Pet Sounds” ─ all’altezza del precedente “And Nothing Hurt”. Ottimo disco dalla cui lavorazione usciva però a tal punto stremato da dichiarare che sarebbe stato il suo ultimo.  Sempre a sentir lui (lo conferma che mentre quello lo si era atteso sei anni per il seguito ne sono bastati quattro) a “Everything Was Beautiful” si è approcciato con meno fisime da perfezionista e si parla di uno la cui ossessione per il dettaglio è leggendaria. Si vede che l’età (o saranno stati certi inciampi della vita) gli ha portato saggezza.

Il nono album in trent’anni degli Spiritualized non è certo il primo da procurarsi ma è quello cui riesce il miracolo di sintetizzare in sette pezzi e quarantaquattro minuti netti un sound cui concorrono il doo wop (chiara influenza nella traccia iniziale e migliore, Always Together With You, in transito dall’estatico al solenne, all’euforico) come i Suicide e molto di quanto sta in mezzo. Benvenuti, nel caso, in un universo in cui ha un senso che una canzone chiamata Let It Bleed (For Iggy) sia in debito più che con gli Stooges con la Motown, laddove ad aleggiare sulla conclusiva I’m Coming Home Again è lo spirito di Dr. John, che della compagnia fu parte pure in carne e ossa.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

1 Commento

Archiviato in archivi, recensioni

Kurt Vile – (Watch My Moves) (Verve)

Chi si somiglia si piglia ma a somigliarsi troppo il rischio è di lasciarsi presto. È il caso di Adam Granduciel e Kurt Vile, che fondavano i War On Drugs con l’idea magnifica di mediare My Bloody Valentine e “Highway 61 Revisited”, declinando un rock fragoroso quanto melodico che però alla lunga si farà più che altro magniloquente, ricreazione di anni ’80 in fissa per Bruce Springsteen. Ma questo in tempi più recenti e già all’altezza del secondo album (2008) della band di Philadelphia Vile non era più co-leader ma un ospite e poi basta. Separazione amichevole, detto en passant. Commercialmente non c’è stata gara: i War On Drugs decollavano proprio con il primo lavoro post-Vile e i loro dischi hanno da allora venduto il decuplo di quelli di un ex- che nondimeno con il nono album in studio (contandone uno con Courtney Barnett) approda a un’etichetta non solo prestigiosa ma in area major. A sua lode: come i War On Drugs che passavano dalla Secretly Canadian alla Atlantic, senza sottostare a compromesso alcuno.

A proposito di Springsteen: qui Vile coverizza aggiungendoci un tocco acidulo l’oscura (uno scarto di “Born In The U.S.A.”) Wages Of Sin. A proposito di un altro tratto in comune con Granduciel: “(Watch My Moves)” ne conferma la logorrea, quindici brani uno dei quali è però un siparietto ambient sotto il minuto per 73’44” e fate voi la media. Si astiene da svolte adombrate dal delizioso girotondo pianistico alla Robyn Hitchcock della traccia inaugurale Goin On A Plane Today e da una seconda, Flyin (Like A Fast Train), molto Beck su beat hip hop ed è un peccato. Soprattutto perché canzoni come la byrdsiana Jesus On A Wire, una scintillante Say The World in cui cita i Talking Heads o lo shuffle loureediano Stuffed Leopard lo confermano autore di vaglia.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.443, giugno 2022.

Lascia un commento

Archiviato in archivi, recensioni